Una punizione o è esemplare o non è. Se hai guidato – qualunque cosa tu avessi in testa – una ribellione di popolo all’austerità imposta dal potere, nel momento in cui ti arrendi ai rapporti di forza non puoi pretendere l’onore delle armi; e neanche la cooptazione postuma nel “giro che conta”.
Il governo Syriza è finito formalmente stamattina, anche se il fallimento era stato certificato dal voto del Parlamento che accettava i diktat contro cui il referendum aveva stabilito un roboante NO. Lì, davanti a pochi voti contrari o assenze di alcuni rappresentanti della sinistra di Syriza, soltanto l’appoggio dei vecchi venduti alla Troika (Pasok e Nea Dimokratia) e nei nuovi servi “europeisti” aveva garantito il largo appoggio parlamentare a Tsipras. In una plastica contrapposizione con l’altrettanto largo rifiuto popolare.
Ora il passaggio successivo sembra deciso. Il Fondo Monetario Internazionale – il primo a dire, già a febbraio, che “il problema della Grecia è che ha il governo sbagliato” – ha trovato l’appoggio anche di Angela Merkel e di quasi tutti gli altri “creditori”: si deve cambiare governo ad Atene.
Ma non si può accettare che sia guidato ancora da Alexis Tsipras. La giacca tirata sul tavolo dei creditori è stato probabilmente il suo ultimo gesto di resistenza in qualità di premier. L’ultimo insulto, per modo di dire, ai “creditori” che ora, semplicemente, non voglio più vederselo tra i piedi. Servirà ovviamente per distruggere la creatura da lui stesso messa in piedi, insieme a migliaia di militanti che non sono mai entrati nel “palazzo”. Dovrà infatti pilotare la spaccatura di Syriza conservando un congruo numero di deputati, sufficiente a garantire una maggioranza al “governo tecnico” scelto dalla Troika.
Negli scorsi giorni si erano fatti vedere a Bruxelles tutti i leader dei partiti “complici”, per colloqui in vista del ribaltone da realizzare ad Atene. Sembra proprio che l’abbia spuntata il “nuovo” servo, il giornalista televisivo Stavros Theodorakis, segretario di To Potami, partito preferito dagli oligarchi ellenici, anche lui abituato a girare senza cravatta e quindi più adatto a non far apparire troppo evidente – a livello di immagine – il cambio di regime.
Del resto, l'”accordo” di stamattina è solo un prologo lungo una via crucis infinita. Tutta la trattativa con il fondo Esm, da cui materialmente dovrebbero venir fuori almeno 50 miliardi di nuovi prestiti (quelli da garantire con il Partenone e altri beni pubblici, dentro il fondo che volevano situare sotto casa di Juncker) sarà infatti piena di problemi tecnici spinosi, derivanti dalla notoria insolvibilità del debito greco. In ogni momento, dunque, la Grexit appena cacciata dalla finestra potrebbe rientrare dal portone, anche in presenza di “governanti” decisamente malleabili.
Inutile dire che anche il resto della compagine governativa dovrebbe fare le valigie (primo in assoluto il ministro dell’energia Panagiotis Lafazanis, leader della sinistra interna di Syriza, astenutosi nel voto parlamentare di venerdì scorso), come avvenne nel 2011, quando fu varato l’altro “governo tecnico” presiduto da Lucas Papademos (dirigente di Goldman Sachs, naturalmente) e infarcito di funzionari della Troika con passaporto greco.
Sembra dunque che siano gli ultimi momenti da premier dell’ex ragazzo “disobbediente” fermato nel porto di Ancona nel luglio 2001, insieme a tanti altri attivisti greci che volevano arrivare a Genova per contestare il G8. Il grande carisma personale, la retorica magniloquente, la grande capacità manovriera non gli sono bastate a reggere lo scontro vero. Si è infranto sugli scogli inaggirabili costituiti dai rapporti di forza da un lato, da un programma politico auto-contraddittorio (restare nella Ue e nell’euro, ma senza più l’austerità) e probabilmente anche da una scarsa comprensione – tipica di quasi tutto il nuovo riformismo europeo – delle caratteristiche del mostro che pretendeva di “riformare”.
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