Quarantacinque giorni s’era concesso il presidente-dimezzato Recep Tayyip Erdoğan per indirizzare il dopo-voto turco del 7 giugno verso un esecutivo, pur di transizione. Elezioni fortemente punitive per il suo partito (Akp) sceso al 40.87% e impossibilitato a inseguire i sogni d’un governo monocolore e soprattutto della trasformazione in senso presidenziale della Repubblica. Di giorni ne sono trascorsi settanta. I tentativi d’approccio col partito repubblicano (Chp), seconda forza col 24.95% di sostenitori, sono finiti nel guado. Troppe diversità su temi vitali in politica interna (educazione e questione religiosa). Inoltre il Chp è un fermo sostenitore della laicità statale e della Repubblica parlamentare, questioni non proprio di lana caprina anche in un momento d’emergenza come quello che il Paese vive dall’inizio dell’estate. Il ruolo impone al presidente di proseguire i colloqui, ma anche gli incontri col leader nazionalista Bahçeli, forte di ottanta deputati, non stanno producendo effetti. Della formazione di maggioranza il suo kemalismo in salsa militarista apprezza solo la mano pesante verso l’opposizione di sinistra e gli odiati kurdi, il cui Partito dei lavoratori (Pkk) in relazione alla strage di Suruç e i bombardamenti nelle aree sud-orientali, ha riaperto le ostilità con esercito e polizia.
Da luglio la Turchia sta rivivendo un clima di rilanciata conflittualità interna, con quaranta fra militari e poliziotti uccisi, e attivisti e simpatizzanti del movimento kurdo egualmente vittime o incarcerate. Nello scontro è presente anche il Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo (Dhkp-c) che nei primi mesi dell’anno ha riproposto azioni armate, con cui, a fasi alterne anche in relazione alla repressione, aveva già segnato il suo percorso. Il gruppo è bollato come terrorista dalla politica interna e internazionale. Stesso marchio e stessa coercizione sono rivolti ai miliziani del Pkk, tornati a uccidere e a essere uccisi. Come prima dell’avio dei colloqui col leader incarcerato kurdo Öcalan (2011-12) e prima del famoso discorso del 2005 con cui Erdoğan, allora al primo mandato di premier, tendeva la mano, o mostrava di farlo, alla copiosa minoranza per cercare una soluzione alle loro richieste. In dieci anni i rappresentanti dei quindici milioni di kurdi di Turchia hanno elaborato strategie varie, più di confronto, dialogo e lotta pacifica, che di scontro armato, richiamo delle dure fasi degli anni Novanta che mietevano vittime (40.000) e deportavano milioni di persone in giro per l’Anatolia.
Il neonato Partito democratico del popolo (Hdp), ultima creatura d’una linea entrista che non rinnega origini e finalità, ha conseguito un risultato d’efficacia e prestigio enormi e con gli ottanta parlamentari e il 13% dei consensi è oggi una quarta forza che spariglia progetti dell’autoritarismo islamista e d’un kemalismo dal fiato corto. Dall’8 giugno, ingoiato il boccone amaro d’un appuntamento mancato, Erdoğan avrebbe potuto elaborare la “folle idea” d’un esecutivo con questa quarta Turchia. Un’ipotesi irta di difficoltà per le concessione da porgere a un pezzo di società anch’essa secolare, ampiamente progressista nei ruoli e nei generi. Non l’ha fatto perché avrebbe dovuto limare tanto conservatorismo che la sua gente serba pur in comunione al consumismo tecnologico che il partito-regime ha diffuso e cavalcato per oltre un decennio. Ora con lo spettro di bombe e pallottole questo passo sembra irrealizzabile. Ma se la prossima via sarà quella di nuove consultazioni, analisti e sondaggisti prevedono il peggio per l’attuale establishment. La caduta di popolarità dell’Akp potrebbe proseguire. L’Istituto Gezici parla addirittura d’un consenso non superiore al 35% e i problemi che affliggono il Paese riguardo alla sicurezza, all’incubo Isis vissuto fra tolleranza e guerra, e anche alla frenata economica, sarebbero tutti addossati al partito islamico.
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