Fanno esplodere tre ordigni in piena notte e si firmano black bloc. Non a Roma o Parigi, a Shubra El-Kheima e Al-Dokki, distretti settentrionali del Cairo. Lesionato uno dei palazzi che ospita l’Intelligence egiziana, otto poliziotti feriti, e un attentatore, secondo quanto riferisce una testimonianza, parcheggia l’auto-bomba e fugge su una moto che lo seguiva. Un copione studiato nei dettagli, da chi è bene capire. Perché questa tipologia di ‘semina del terrore’ che cerca, per quanto può, di limitare il sangue versato negli attentati, è presente da circa tre anni nel grande paese arabo. Ha accompagnato l’ascesa del generale, ora presidente e di fatto dittatore, e ne suggella il potere. Una strategia che sembra mirata e aiuta a sostenere il disegno securitario di Al-Sisi, che due giorni fa aveva ulteriormente stretto il controllo della sua casta sulla vita politica e sociale. Sono stati introdotti inasprimenti di pena verso chi è accusato di terrorismo (da mesi non solo la Fratellanza Musulmana, ma qualsiasi opposizione) e soffocata ulteriormente l’informazione che può essere perseguita con l’arresto e multata con sanzioni salatissime (fino a 50.000 euro) per notizie considerata “false” e comunque d’ostacolo alla linea presidenziale. E allora Sisi si vara la norma (il Parlamento egiziano non esiste più dall’estate del 2013) e inscena l’attentato? E’ un’ipotesi, se non per questa per qualcuna delle tante esplosioni incrociate in trenta mesi.
Le risultanze in fatto di controllo socio-politico sono favorevolissime all’immagine d’un raìs e un esercito garanti “dell’incolumità della nazione”. Certo è possibile che frange della galassia repressa, i movimentisti di Tahrir non quei tamarod diventati nel 2013 i galoppini consapevoli o meno della restaurazione politica, si diano fogge simili al laicismo anarcoide degli incappucciati no global. Com’è ancora più probabile – lo diciamo da tempo – che nuclei giovanili dell’attivismo della Brotherhood possano aver intrapreso strade armate accanto ad altri soggetti inseriti nel confronto-scontro in atto. Del radicalismo islamico che nel Sinai ha stretto una collaborazione pro jihadista con l’Isis, s’è parlato in più occasioni e in relazione a loro azioni specifiche. Questo genere d’attacco a uomini e cose non è solamente scenografico, punta a colpire duro, uccide tramite assalti, agguati, esplosioni. Come nei luoghi dove il Daesh vuole stabilire un proprio controllo (Siria, Iraq, Rojava, Libia) i jihadisti del Sinai, con Ansar Beit Al-Maqdis in testa, mirano a disarticolare autorità e presenza sul territorio delle truppe del Cairo. Taluni angoli della penisola sul Mar Rosso si prestano; i militari di Sisi possono solo bombardarli dall’alto, muovendosi a terra rischiano visto che coi locali beduini i miliziani islamici hanno stabilito rapporti e legami. Ma fra scontri con armi leggere e mezzi corazzati ce ne passa. Eppure la promessa “pulizia” del Sinai non avviene e prevalgono i tatticismi. D’ogni fazione.
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