Non essendo sinora riuscito ad allargarlo a un quinto membro, gli Stati Uniti, e a un sesto, la Polonia, Pëtr Porošenko è riuscito però a ridurre a tre, nell’incontro di ieri a Berlino, il “Quartetto normanno” che dovrebbe garantire l’applicazione degli accordi di Minsk per una soluzione pacifica nel Donbass. Vladimir Putin è stato lasciato a casa su richiesta del presidente ucraino, che sperava così di riuscire a portare dalla propria parte Francia e Germania, soprattutto sui nodi centrali del “Minsk-2”, finora platealmente violati da Kiev: cessate il fuoco, ritiro delle artiglieri pesanti, introduzione nella Costituzione ucraina (non in via transitoria, ma permanente) delle norme sulla decentralizzazione e sullo status speciale “per alcune province delle regioni di Donetsk e di Lugansk”.
>Ma la riunione berlinese, come scriveva domenica scorsa la tedesca Mittelbeyrische zeitung, vede un presidente ucraino dai giorni contati, che sta andando incontro a un autunno rovente e si è svolto, secondo Sputniknews, all’ombra della escalation delle tensioni nel Donbass: “tedeschi e francesi devono salvare la loro creatura, gli accordi di Minsk. Pertanto Hollande e Merkel debbono illustrare a Porošenko la loro visione della situazione nel Donbass, correggendo la posizione dell’Ucraina”. Da parte sua il plenipotenziario per la DNR al Gruppo di contatto, Denis Pušilin, aveva dichiarato che DNR e LNR si attendono che Germania e Francia convincano Porošenko all’attuazione degli accordi di pace e reagiscano alle sue violazioni da parte di Kiev. Su tali violazioni, aveva detto nei giorni scorsi Pušilin, verrà posto l’accento alla prossima riunione del Gruppo di contatto, fissata per il 26 agosto a Minsk.
L’incontro di Berlino si è tenuto però sullo sfondo di voci sempre più insistenti sulla ripresa del conflitto armato e le milizie della Novorossija temono che l’offensiva di Kiev potrebbe iniziare proprio nelle ore susseguenti le celebrazioni, a Kiev, della Giornata dell’indipendenza, che cadeva ieri, 24 agosto.
Per l’occasione e con un giorno di anticipo, il papa e Barack Obama – per il primo, la cosa è naturale: non poteva posticipare l’angelus al lunedì; per il secondo: ha approfittato della domenica per sbrigare pratiche accessorie, come alcuni tagliano l’erba in giardino o altri vanno a pesca – avevano porto domenica gli auguri agli ucraini e al loro presidente per il 24° anniversario dell’indipendenza, ricordata ieri a Kiev con una parata civile e militare (ma senza mezzi da guerra, tutti impegnati nel Donbass) e la deposizione di fiori ai monumenti agli eroi nazionali, tra cui ora spicca anche Stepan Bandera, collaboratore dei nazisti nel ’42-’43.
Come aveva affermato ieri su Lifenews lo scrittore ucraino di origine bielorussa Vsevolod Nepogodin, a giudicare dallo stuolo di ministri stranieri e dalla effettiva direzione dello Stato da parte dell’ambasciatore USA Geoffrey Payett, “quella che si festeggia oggi dovrebbe essere chiamata piuttosto “Giornata della dipendenza”. Proprio Payett, insieme agli istruttori USA che stanno addestrando i militari ucraini a Javorov, perché non ci siano dubbi sull’orientamento del paese da lui diretto, ha porto ieri gli auguri facendosi immortalare sullo sfondo dell’insegna della regione di Donetsk(!) e iniziando con lo slogan banderista “Gloria all’Ucraina”. Dato che non ce la sentiamo di appioppare un due in storia al signor Payett, lo bocciamo però sicuramente in onestà politica.
A Donetsk, alcune migliaia di cittadini hanno organizzato una manifestazione di protesta contro la politica di Porošenko e contro la “Festa della dipendenza dell’Ucraina”.
E dunque, il 24 agosto del 1991 l’Ucraina proclamava l’indipendenza dall’Unione Sovietica: una pura formalità, dopo gli avvenimenti di tre giorni prima a Mosca e in attesa del disfacimento istituzionalizzato dello Stato plurinazionale sovietico che, tra un bicchiere e l’altro, i presidenti di Russia, Bielorussia e Ucraina, Boris Eltisn, Stanislav Šuškevič e Leonid Kravčuk (lo stesso Kravčuk che ora chiede a Porošenko di accelerare la separazione dell’Ucraina dal “territorio occupato” del Donbass, dove “vivono non solo banditi e separatisti, ma anche patrioti”) avrebbero evocato nel dicembre successivo, seminascosti nei boschi della Belovežskaja Pušča.
In occasione degli auguri, Obama ha sottolineato che l’amicizia tra USA e Ucraina si andrà sempre più rafforzando e ha confermato il sostegno americano a Porošenko: “Nel momento in cui il popolo ucraino lavora per condurre le riforme fondamentali, nonostante l’aggressione russa a est e l’occupazione della Crimea, gli Stati Uniti rimarranno conseguenti nel loro sostegno all’Ucraina”.
Negli auguri del papa era compresa la preghiera per l’Ucraina e la benedizione per Porošenko e, nell’ambiguità dello stile gesuitico, si evitava di nominare aggrediti e aggressori e si esprimeva “vicinanza spirituale con le vittime” – chi le sta provocando? – “e anche con tutti quelli che soffrono”; amen.
Da Mosca, si è tenuto a qualificare come ipocriti e spudorati gli auguri statunitensi per l’indipendenza ucraina. La presidente del Comitato della Duma per la sicurezza e la lotta alla corruzione, Irina Jarovaja ha detto che “evidentemente, secondo Obama, il genocidio del popolo del Donbass è il lavoro costruttivo di due nazioni; mentre invece i convogli umanitari della Russia per salvare dalla morte per fame, dalle ferite e dalle malattie i civili del Donbass, nella rappresentazione del premio Nobel per la pace costituiscono un’aggressione”.
D’altronde, ha voglia Vladimir Putin di dire che russi e ucraini sono popoli fratelli! Porošenko non è affatto d’accordo e nei giorni scorsi l’aveva proclamato: gli ucraini non hanno più popoli fratelli “Quella ucraina è tutta un’altra civiltà. In tempo di guerra noi non abbiamo popoli fratelli. C’è solo l’unico popolo ucraino in marcia verso l’Europa”. Il popolo russo, secondo il presidente ucraino, vive nell’isolamento, non ha alcun rapporto con gli ucraini e “si trova in profonda crisi”.
E come si può parlare di fratellanza quando nei piani a breve scadenza c’è la guerra? Effettivamente, lo stesso Obama non si è limitato agli auguri, ma ha anche consigliato – qualche maligno, per rafforzare l’indipendenza, ha detto: ordinato – a Kiev di non scendere sul terreno del confronto militare con Mosca, dato che, secondo l’amministrazione presidenziale americana, “Washington punta tuttora al ristabilimento dei rapporti russo-americani” e, per “la Casa Bianca, la crisi ucraina rappresenta solo uno dei problemi nei rapporti strategici tra le due potenze mondiali”. Ma Porošenko, a differenza di Francesco, non è stato gesuiticamente ambiguo: sabato scorso, di fronte a reparti militari a Kharkov, ha spiattellato che gli accordi di Minsk del febbraio scorso hanno regalato a Kiev tempo prezioso per rafforzarsi sul piano militare e ha sentenziato che “sono tramontati i tempi del frivolo pacifismo”.
Proprio sabato scorso, Komsomolskaja Pravda scriveva della preparazione di Kiev a un blitzkrieg nel Donbass. In base alle informazioni in possesso del Ministero della difesa della Repubblica popolare di Donetsk, il rafforzamento e la dislocazione delle truppe e il continuo accrescimento di mezzi e munizionamento ucraini, sia in prossimità della linea di demarcazione che nelle retrovie, lascerebbero intravvedere sicuri preparativi di un’offensiva. Kiev disporrebbe di circa 90mila uomini; le milizie, secondo l’intelligence ucraina, sarebbero circa la metà, ma in grado di mobilitare gran parte della popolazione. La preparazione di varie linee di accerchiamento, indicherebbe un piano di attacco per spingere le milizie verso la frontiera russa, dove però sarebbero inchiodate alle spalle dalle truppe ucraine appostate in casematte fortificate o dislocate in trincee già scavate e allestite. Anche l’aviazione sarebbe stata messa da tempo in stato di allerta. A giudicare dalle carte mostrate dal vice comandante di corpo del Ministero della difesa della DNR, Eduard Basurin, scrive Komsomolskaja Pravda, il pensiero va all’attacco hitleriano all’Unione Sovietica, allorché i nazisti tentarono di accerchiare le truppe sovietiche in enormi sacche senza via d’uscita. Ma, come allora seppe fare l’Esercito Rosso, le milizie hanno mostrato lo scorso anno a Ilovajsk di saper contrattaccare e rinchiudere a loro volta il nemico in contro sacche per poi annientarlo. Ora, sembrerebbe che Kiev, dopo l’accerchiamento di Donetsk e Lugansk, si dovrebbe concentrare successivamente sulla direttrice Mariupol-Novoazovsk, fondamentale per il controllo della costa e la conseguente offensiva da sud.
Kiev spende ipocritamente gli ultimi soldi per la guerra, scriveva domenica scorsa l’austriaco Contra Magazin: “Nonostante la bancarotta sempre più prossima, nuove armi per l’esercito”, con riferimento ai nuovi 400 trasporto-truppe annunciati il giorno prima da Porošenko; “mentre parla di armistizio e riforme per il risanamento dell’economia, continua a gettare soldi nelle armi per la guerra contro i ribelli del Donbass”.
“La minaccia armata da est, è una prospettiva che si allunga nei decenni” aveva detto Porošenko a Kharkov.
Se mai i golpisti di Kiev ci hanno lontanamente pensato, è chiaro che ora, per la junta, sono davvero “tramontati i tempi del frivolo pacifismo”.
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