“Siamo scappati dal nostro paese perché ormai è diventato impossibile vivere. O vieni costretto a combattere con le forze del regime o gli islamisti ti costringono a vivere secondo i dettami della sharia oppure puoi essere preso ed ucciso per ritorsioni tra le due fazioni” questo riportano tutti i profughi che giungono nei paesi europei. Comprendere l’attuale situazione siriana diventa, a causa di un’informazione non sempre corretta e spesso parziale, sempre più complicato. Come capire i diversi ruoli e la partita in gioco su più livelli, da quello legato allo scacchiere internazionale a quello regionale e locale? La posizione strategica della Siria ha, infatti, coinvolto i paesi confinanti e l’intera comunità internazionale rendendo lo scontro tra le diverse fazioni interne come un’emanazione delle differenti potenze regionali e mondiali. Diverse sono, infatti, le parti in gioco in questo momento: dallo scontro tra Stati Uniti d’America, Francia e Inghilterra da una parte e Russia e Cina dall’altra per il dominio di influenza nel Vicino e Medio oriente; fino allo scontro regionale e settario tra la Turchia, l’Arabia Saudita ed i paesi del Golfo, portatori dei valori dell’islam sunnita, e l’Islam sciita dell’Iran. L’unica certezza è che lo scenario siriano ha subito, come del resto avviene spesso nel vicino oriente, diversi cambiamenti e stravolgimenti di campo in questi cinque anni di guerra civile. Le prime manifestazioni del 2011 contro il regime di Bashar Al Assad nella città di Dera’a, zona agricola nel meridione, erano state viste come una nuova stagione “siriana” della primavera araba. La Turchia, i paesi del Golfo e l’Arabia Saudita, con l’avvallo americano, non avevano esitato a finanziare l’ESL (Esercito Siriano Libero) che si era costituito dopo le numerose diserzioni dei comandanti dell’esercito regolare siriano e la costituzione del CNS (Consiglio Nazionale Siriano) che raggruppava tutte le forze d’opposizione ed era diventato l’interlocutore con le diverse nazioni per il reperimento di fondi ed armi.
Gli scontri aumentano e si diffondono in tutto il paese e le vittorie dell’ESL da nord a sud, nei primi mesi del 2012, fanno dichiarare a diversi analisti e studiosi mediorientali che il regime siriano sarebbe caduto in poco tempo. Le iniziali vittorie ottenute sul campo portano anche un maggiore impegno e flusso di armi e finanziamenti. La Nazione più attiva è la Turchia che fornisce armi all’ESL e dà rifugio ai vertici militari dell’opposizione. USA, Francia e Gran Bretagna cominciano a fornire equipaggiamenti e finanziamenti, mentre l’Unione europea inasprisce l’embargo sulla Siria. Gli Stati del Golfo Persico, in maniera simile a quanto avvenuto durante le rivolte della Primavera Araba, da aprile 2012 finanziano e inviano armi ai ribelli. I destinatari sono prevalentemente i gruppi di ispirazione salafita. La presa di posizione a favore dei ribelli di molte nazioni, provoca la reazione degli Stati tradizionalmente alleati della Siria. La Russia, che ha un accordo con il governo di Assad per l’utilizzo del porto di Tartus, invia del personale tecnico per la formazione dei militari siriani. L’Iran, che teme di perdere un prezioso alleato regionale, in aprile comincia ad inviare armi e finanziamenti al governo siriano. Sempre nell’estate del 2012 l’YPG, Unità di protezione popolare, braccio armato del Comitato Supremo Curdo, comincia a combattere il regime e nel giro di un mese libera quasi totalmente l’intero Kurdistan siriano, grazie anche al pieno sostegno delle popolazione curda del nord.
Diverse e numerose sono le battaglie che coinvolgono l’intero territorio siriano e le sue principali città, da Aleppo fino a Damasco, nei quali entrambe gli schieramenti competono sia per la brutalità delle azioni che per quelle relative alle ripercussioni e rappresaglie nei confronti delle popolazioni locali. Ne è un esempio eclatante l’utilizzo di autobombe ed attentati dinamitardi introdotte dalle fazioni ribelli legate ai movimenti radicali. I miliziani salafiti, col perdurare della crisi, cominciano ad assumere un ruolo di primo piano nel fronte ribelle a causa del loro forte impatto sul campo di battaglia, la crescita del loro numero e la maggiore disponibilità economica garantita dal finanziamento da Qatar e Arabia Saudita. Nonostante il comando strategico delle operazioni dei ribelli sia ancora mantenuto dall’ESL, i gruppi estremisti cominciarono ad acquisire sempre maggiore autonomia sul campo. La presenza di miliziani legati al fondamentalismo islamico, provenienti da tutta la galassia jihadista, è particolarmente forte nelle regioni orientali del paese. Il fanatismo dei gruppi islamisti (tra cui il Fronte al-Nusra è il più numeroso) provoca la reazione non solo degli sciiti alawiti (comunità del presidente Bashar al Assad) ma anche delle altre minoranze etniche e religiose. La pulizia etnica perpetrata da questi gruppi e l’instaurazione della sharia in alcune zone del paese porta, infatti, alcune comunità, cristiane, druse e sciite in particolare, alla creazione dei “Comitati Popolari” alleati con l’esercito lealista. Le minacce legate ad alcuni villaggi e territori sciiti ai confini con il Libano spingono ad un coinvolgimento diretto da parte delle milizie del partito libanese Hizbollah che inizia a combattere nelle zone confinanti con il paese dei cedri. La formazione di milizie etniche legate alla salvaguardia delle proprie comunità causa un indebolimento da parte della coalizione dell’ESL ed un arretramento dalle prime conquiste.
La battaglia di Qusayr, zona di confine con il Libano, durata oltre 3 mesi (aprile – giugno 2013) rappresenta la chiave di volta della guerra civile. Per la prima volta l’esercito lealista e le milizie di Hizbollah riescono a sconfiggere il fronte ribelle facendolo arretrare ed aprire ampie zone sotto il suo controllo. Da un punto di vista politico l’ESL perde la leadership delle operazione e si frantuma a favore delle formazioni jihadiste. Il Fronte al Nusra, nella sfera di influenza qaidista, viene affiancato da una nuova formazione composta da jihadisti prevalentemente non siriani: lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante denominato con l’acronimo ISIS o nel mondo arabo Daesh. L’obiettivo del suo leader, Abu Bakr al Baghdadi, è la creazione di un califfato islamico all’interno dei confini siriani ed iracheni. I nemici dell’ISIS sono sia il regime siriano, sia tutte le comunità etniche che non si rifanno ai dettami dell’Islam sunnita (cristiani, curdi, sciiti alawiti e duodecimani, drusi) sia gli stessi ex alleati dell’ESL, considerati secolaristi e, quindi, miscredenti. Il conflitto tra ESL e ISIS, a cui si allea il Fronte al-Nusra, si diffonde in tutto il paese disgregando completamente la coalizione che inizialmente era nata per far cadere il regime dittatoriale di Bashar al Assad.
Il 29 giugno 2014 il leader dell’ISIS, Abu Bakr al-Baghdadi annuncia l’instaurazione del califfato nei territori controllati tra Siria e Iraq e chiede a tutti i musulmani di aderirvi. Grazie alle armi sofisticate catturate in Iraq, al numero e alla determinazione dei combattenti, l’ISIS il 1º luglio scatena un’imponente offensiva nella parte centro settentrionale del paese che gli permette di sconfiggere le altre formazioni ribelli siriane. L’espulsione di tutte le sigle ribelli dall’est della Siria, permette all’ISIS di entrare in diretto contatto con le aree controllate dal governo siriano, verso il quale organizza un’offensiva su vasta scala. La guerra civile sconfina anche in territorio iracheno, dove l’ISIS conquista diverse zone del nord sotto influenza curda nelle quali vivono comunità cristiane e yazide. La ferocia nei massacri contro queste comunità, lo spostamento di 500000 profughi e l’instaurazione integrale della sharia da parte dello Stato Islamico spingono una coalizione di 11 paesi occidentali ad intervenire sia logisticamente, con l’invio di aiuti umanitari, sia militarmente con la fornitura di armi alle milizie curde.. Una prima coalizione guidata dagli USA ed altri paesi tra i quali, Bahrein, Giordania, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti ( paradossalmente tutti paesi che avevano finanziato i ribelli – ndr) comincia a bombardare le postazione sia dell’ISIS che del Fronte Al Nusra. La controffensiva curda riesce a fermare l’avanzata del gruppo jihadista sia in Iraq sia in territorio siriano dove le forze dell’YPG curdo, in alcuni casi, combattono insieme ai loro vecchi nemici: le truppe dell’esercito lealista.
Il 2015 si apre con scarsi risultati ottenuti dal fronte lealista nelle offensive di febbraio che sono il preludio ad un periodo estremamente difficile per il governo siriano. A partire da marzo si verificano una serie di pesanti sconfitte ai danni dell’esercito governativo che, per la prima volta dalla battaglia di Qusayr, è costretto a cedere importanti aree strategiche. Le ragioni di questa modifica dei rapporti di forza sono da ricercarsi nella cronica mancanza di uomini nelle file filogovernative, che si sono ridotti ulteriormente nella guerra civile a causa della fuga di milioni di profughi inermi. Inoltre gli alleati sciiti iracheni, iraniani e Hizbollah hanno ridotto la loro presenza sul campo o si sono focalizzati sul mantenimento di aree di interesse strategico, indicativamente nelle zone di confine con il Libano o nella zona delle alture del Golan. I ribelli siriani invece, nella componente jihadista, trovano una nuova unità creando una coalizione attiva soprattutto al nord, Jaish al Fatah (Esercito della Conquista), guidata dal Fronte al-Nusra e comprendente altri sei gruppi ribelli tra cui Ahrar al-Sham foraggiati da Arabia Saudita e Turchia.
La situazione attuale è diventata uno scenario nel quale intervengono diversi attori: locali (regime lealista, ESL, Curdi, Salafiti), regionali (Iran, Turchia, Paesi del golfo Persico, Libano, Arabia Saudita e Israele) e mondiali (USA, Russia, Francia, Inghilterra e Cina) che hanno causato e causano una sempre maggiore “balcanizzazione” del paese e una difficile prospettiva relativa al termine del conflitto. In questo scenario sembrano inutili i tentativi legati alle conferenze di pace Ginevra I e Ginevra II nelle quali gli interlocutori non sono i veri attori che stanno combattendo in Siria e c’è un totale rifiuto interlocutorio da parte delle organizzazioni jihadiste presenti sul terreno visto che l’obiettivo jihadista è il mantenimento del califfato islamico.
Ad oggi (Novembre 2015) la Siria è frammentata in differenti zone di influenza. La zona settentrionale, divisa in due regioni, è sotto il controllo curdo, anche se c’è un’estesa area di confine (governatorato di Raqqa) sotto il diretto controllo dell’ISIS che rimane vitale per l’organizzazione sia per il traffico di petrolio e reperti archeologici sia come via di passaggio per tutti i “foreign fighters” europei e stranieri in transito. Le forze jihadiste dell’ISIS controllano tutta la parte orientale, centrale del paese e dopo le ultime conquiste della zona di Palmira sembrano essersi attestate a circa 250 km chilometri da Damasco. Esistono ancora nella provincia di Idlib, alcune zone di influenza di Jaish al Fatah (Fronte Al Nusra), mentre le residue forze dell’ESL sono attestate in una sacca al nord ovest, nella zona di Aleppo, e nella zona meridionale di Dera’a. Le forze governative controllano circa il 60% del paese e sono assestate su tutta la parte costiera dello stato siriano (zona Alawita e cristiana), nella capitale Damasco e gran parte del meridione.
Appare decisivo, in questi ultimi giorni, l’intervento diretto della Russia di Putin che, fino adesso, aveva fornito solamente supporto logistico e armamenti al regime di Assad. “Sosterremo con tutti i mezzi necessari il governo di Assad contro gli jihadisti dell’ISIS” ha dichiarato il ministro degli esteri russo Lavrov qualche giorno fa e questo ha spinto gli USA ad aprire un dialogo con la coalizione rappresentata da Russia, Iran, Iraq ed ovviamente dal regime siriano. La coalizione, con sede logistica a Bagdad, nei colloqui con gli stati occidentali gioca con una posizione di forza e richiede quello che è stato sempre negato da USA, Turchia e Paesi del Golfo: coinvolgere il regime di Assad nei colloqui di pace e programmare una fase di transizione con un’eventuale “uscita di scena” del leader siriano. L’intransigenza della Russia e dei suoi alleati locali deriva anche dal fatto che le sue truppe sono sul terreno a combattere direttamente lo stato islamico e la galassia jihadista al contrario della coalizione occidentale che si muove in maniera poco efficace. La Francia ha cominciato a bombardare la Siria con una decisone unilaterale del suo presidente Hollande. Il dipartimento americano ha da parte sua commesso diversi errori che hanno indebolito la posizione dei suoi alleati sul terreno. Prima l’invio di armi che sono giunte al fronte jihadista, poi la formazione di una coalizione per degli attacchi aerei con l’Arabia Saudita più interessata a bombardare i ribelli sciiti Houthi in Yemen o la Turchia più interessata a colpire le basi del PKK curdo. Il programma di finanziamento di 500 milioni di dollari per la formazione militare di un gruppo della resistenza “filoamericano” che si è dimostrato disastroso, molti guerriglieri si sono subito arresi al nemico consegnando armi e jeep, e poco radicato sul territorio. Infine, la recente dichiarazione di Obama di questi giorni di inviare alcune forze speciali, una cinquantina in tutto e già, secondo molti analisti, presenti in territorio siriano per contrastare direttamente sul campo le forze di Daesh fornendo addestramento e logistica. Affermazione subito mitigata dal segretario di stato John Kerry che ha precisato che “gli USA non sono ancora intenzionati ad entrare direttamente nel conflitto siriano, ma non escludo un aumento del numero di soldati americani in Siria” giustificando questa scelta “non come centrata sul regime di Assad, ma contro Daesh”.
Diventa difficile comprendere e prevedere come evolverà il conflitto. Il regime siriano di Assad continua a resistere da cinque anni e l’evoluzione geopolitica della sua coalizione, guidata dalla Russia, sembra giocare su posizioni di forza a livello locale e internazionale. In questi giorni l’esercito lealista, con il supporto dell’aviazione russa, sta progressivamente avanzando nelle zone di Irbil e di Aleppo ed ha riconquistato l’aeroporto militare di Kwayres, reso purtroppo celebre per il massacro dei soldati che si erano arresi alle milizie jihadiste e fondamentale per nell’offensiva per la liberazione della regione di Aleppo. Il supporto logistico e militare da parte dell’esercito russo ha ridato nuovo impulso alle truppe lealiste e i bombardamenti russi stanno colpendo diverse roccaforti sia del fronte al Nusra sia di Daesh che stanno, però, assorbendo anche fazioni dell’opposizione moderata.
Purtroppo l’unica cosa certa, ad oggi, è che la guerra civile siriana si è trasformata in un conflitto regionale e mondiale che, in questi anni, ha causato 200.000 morti e oltre quattro milioni di profughi.
Stefano Mauro
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