Ha resistito fino all’ultimo giorno utile, arrivando ad un pelo dal far saltare il primo parlamento a maggioranza esplicitamente indipendentista che la Catalogna abbia votato dalla fine del franchismo. Ma alla vigilia dello scioglimento del Parlament e dell’indizione di nuove elezioni a causa del mancato raggiungimento di un accordo di governo, Artur Mas si è dovuto fare da parte sull’onda delle pressioni di una Cup che coraggiosamente ha tenuto duro, convincendo in extremis Junts pel Si a chiedere e ottenere dal President la rinuncia ad associare la sua faccia alla proclamazione di indipendenza.
Una vittoria innegabile per la sinistra indipendentista catalana che pure ha dovuto pagare – e probabilmente pagherà ancora nei prossimi mesi – un alto prezzo politico pur di portare a casa quanto promesso durante la campagna elettorale che il 27 settembre scorso ha visto la vittoria congiunta di due coalizioni indipendentiste, una anticapitalista – la Cup-Crida Constituent – e l’altra formata dai nazionalisti liberali di Artur Mas (Cdc) e da quelli socialdemocratici di Esquerra Republicana.
Indipendentiste entrambe, come detto, ma con una visione assai diversificata in quanto a progetto sociale, economico e culturale. Contro l’Ue e la Nato la prima, atlantista ed europeista la seconda; anticapitalista e socialista la prima, liberista o al massimo keynesiana la seconda.
La Cup, passata da 3 a 10 seggi grazie ad una capillare opera di radicamento sociale e di presenza costante e qualificata all’interno dei conflitti sociali e territoriali – la cui controparte spesso è stato proprio il governo di Artur Mas con i suoi tagli, le privatizzazioni, i provvedimenti autoritari – ha chiarito fin da subito che la Repubblica Catalana dovrà nascere all’insegna della discontinuità, se possibile della rottura.
Ma di fronte al ‘no’ della Cup, ribadito seppur di misura in assemblee locali, assemblee generali dei militanti e degli attivisti e dagli organi dirigenti della formazione, Artur Mas e “Junts pel Si” si sono impuntati dichiarando che lui e solo lui, il leader di Convergenza Democratica e padre padrone della politica locale, avrebbe potuto guidare un governo che si impegna a iniziare la rottura con Madrid.
Eppure in campagna elettorale Mas aveva più volte ribadito che non avrebbe rappresentato un ostacolo alla confluenza delle diverse tendenze indipendentiste, tanto che nella lista di Junts pel Si alle elezioni occupava solo la quarta posizione.
Anche i pessimi risultati del centrodestra catalano alle ultime elezioni legislative spagnole consigliavano a Mas di fare un passo indietro: il 20 dicembre Convergenza è stata infatti abbondantemente sopravanzata sia dall’alleanza tra Podemos e i partiti federalisti di sinistra e centrosinistra locali (En Comù Podem), sia dalla stessa Esquerra.
Ma più la debolezza della compagine di Mas diventava evidente più il President uscente e il suo cerchio magico puntavano i piedi, spalleggiati – occorre dirlo – da un vasto arco di associazioni trasversali indipendentiste che invece di chiedere all’ex “premier” di farsi da parte per ottenere un accordo soddisfacente per tutti, hanno concentrato le pressioni e le critiche nei confronti della Cup. All’interno della coalizione, nelle ultime settimane, il dibattito si è trasformato in polemica portando alla rinuncia al suo scranno di Antonio Baños, capogruppo della sinistra indipendentista al Parlament, il quale ha affermato di non essere in grado di difendere e rappresentare la linea votata dal Consiglio Politico della formazione.
Il braccio di ferro è stato drammatizzato da un sistema mediatico catalanista e da ampi settori dell’associazionismo nazionalista che hanno spalleggiato la rielezione di Mas accusando la Cup di ‘tradimento’, ‘egoismo’ quando non addirittura di ‘comunismo spagnolista’, mentre coerentemente la formazione anticapitalista aveva chiarito che qualsiasi altro candidato, indipendente, di Erc o anche di Cdc avrebbe visto il suo consenso. L’evoluzione del negoziato ha evidenziato all’interno dello schieramento sociale e politico indipendentista, compresi ampi settori di quello radicale, una concezione della rottura nazionale come feticcio, e non come strumento utile a cambiare i rapporti di forza e ad imprimere una sterzata alle politiche liberiste messe in campo da un centrodestra locale che non è mai stato a favore della formazione di uno stato nazionale catalano, e che ha abbracciato questo obiettivo recentemente, solo quando si è reso conto che la crescente mobilitazione nazionalista della società catalana avrebbe rischiato di privare la borghesia catalanista della sua storica egemonia.
Fatto sta che nonostante ricatti, pressioni e indebite ingerenze da parte di altre forze politiche la Cup ha tenuto duro sul ‘no’ a Mas ma ha continuato a trattare con Junts pel Si, ottenendo nelle ultime ore la dissociazione da parte di alcuni esponenti della coalizione indipendentista moderata dal dogma della riconferma del President uscente. E proprio ieri pomeriggio, quando i giornali di tutto il mondo già titolavano “fallimento nazionalista, si torna a votare” alcuni media locali hanno cominciato a battere la notizia di un accordo raggiunto sul filo di lana che prevedeva “un passo indietro” di Mas e l’elezione a capo della Generalitat – il governo catalano – di Carles Puigdemont. L’attuale sindaco della città di Girona, dirigente di Convergenza Democratica e presidente dell’Associazione dei Municipi per l’Indipendenza, verrà investito oggi pomeriggio (a mezzanotte, se non si fosse raggiunto l’accordo, l’assemblea sarebbe stata sciolta) come President di un governo che promette di dar vita nei prossimi 18 mesi ad una Repubblica Catalana Indipendente.
In cambio della rinuncia di Mas la Cup si impegna, attraverso un accordo scritto, a garantire la stabilità del nuovo esecutivo per il prossimo anno e mezzo, promettendo di non schierarsi mai a fianco dei partiti che ostacolano la ‘road map’ indipendentista. Inoltre due deputati della sinistra indipendentista, pur rimanendo all’interno del gruppo della Cup, parteciperanno stabilmente all’attività parlamentare di Junts pel Si. Un modo per mediare tra posizioni politiche diverse già con i deputati e i dirigenti della lista che possiede la maggioranza relativa dell’assemblea (62 seggi) allo scopo di portare in aula provvedimenti che godano già del consenso anche della Cup. Al tempo stesso la coalizione promette comunque di non rinunciare alla sua prioritaria battaglia contro tagli, privatizzazioni e repressione.
Nel documento reso noto ieri sera la Cup annuncia anche che due dei suoi deputati si dimetteranno in segno di autocritica; la formazione infatti si scusa esplicitamente per aver tirato troppo la corda nella trattativa-braccio di ferro con gli indipendentisti moderati, rischiando così di far saltare la formazione del nuovo esecutivo e di tradire “la fiducia e i sentimenti” della maggioranza indipendentista della popolazione.
Se sarà dura per molti dirigenti e militanti della sinistra anticapitalista mandare giù l’amaro (ma oggettivamente obbligato) boccone del sostegno incondizionato (almeno per 18 mesi) ad un esecutivo con la barra sostanzialmente a destra, anche tra i militanti e i simpatizzanti di Junts pel Si non si respira una grande aria di trionfo, nonostante il carattere storico di quanto sta avvenendo a Barcellona. Basta leggere i commenti sui social network alle notizie sul raggiungimento dell’accordo per la formazione del nuovo governo per imbattersi in una sfilza di giudizi amareggiati da parte di nazionalisti catalani di varie tendenze che inneggiano a Mas, definito ‘eroe’ e ‘padre della patria’, e che lamentano che sia stato sacrificato a causa della “intransigenza” della Cup e dell’ “opportunismo” di CdC ed Erc. Com’era inevitabile l’accordo tra due formazioni così diverse per identità politica, programma, ideologia e identità non poteva che scontentare e al tempo stesso soddisfare tutti rispetto al raggiungimento dell’obiettivo prioritario. Fornire al composito fronte indipendentista una guida istituzionale che si incarichi di guidare l’attuale Comunità Autonoma verso la costituzione di uno stato indipendente.
Basta vedere la isterica reazione del governo e delle principali forze politiche spagnole – a partire dal premier uscente, il popolare Mariano Rajoy – per rendersi contro che tra Madrid e Barcellona sarà un muro contro muro. Spiazzati anche Podemos e alcuni settori minoritari del Partito Socialistia che avevano chiesto ai catalani pazienza promettendo di farsi promotori di un referendum per l’autodeterminazione che gli apparati di potere spagnoli non concederanno mai e che comunque non avrebbe alcun senso in mancanza di una riforma costituzionale che non è alla portata dell’attuale quadro politico. La formazione di un governo indipendentista a Barcellona fa virare le trattative tra le forze politiche statali verso la formazione di un governo di ‘grande coalizione’ tra Popolari e Socialisti, che anche la nuova destra di Ciudadanos potrebbe pensare di sostenere in nome di un ‘fronte nazionale’ spagnolo da opporre ai ‘separatisti catalani’. Un governo che avrebbe l’appoggio incondizionato dell’Unione Europea – e di vari governi del continente – che non ha mai fatto mistero di osteggiare l’indipendenza della Catalogna e di sostenere un governo ‘forte’ in grado di imporre agli spagnoli di diversa nazionalità altri sacrifici, altri tagli, altre privatizzazioni.
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