Nella ricerca di verità per Giulio Regeni, di giustizia per i familiari, di dignità per la nazione italiana abbiamo assistito alla prima mossa della Farnesina che ha richiamato a casa l’ambasciatore Massari. E alla promessa, fatta solennemente dal ministro Gentiloni, che altre misure adeguate alla gravità del caso potranno esser prese dal governo Renzi. In questi giorni s’è cercata una sponda nell’Alto rappresentante agli affari esteri Mogherini per coinvolgere l’Unione Europea sulla vicenda, affinché quest’importante istituzione contribuisca a far pressione sull’Egitto. L’affare non è certo un fattaccio di cronaca nera, come polizia e magistratura locali stanno cercando di presentarlo da oltre due mesi. Riguarda questioni altamente politiche come i diritti civili totalmente calpestati con pratiche disumane di sequestri, galera, sevizie, morte violenta applicati a cittadini e stranieri. Il nostro ministro degli esteri, che nel corso di tutta questa settimana si consulterà con l’ambasciatore rientrato dal Cairo, ha anche annunciato che è disposto a portare nell’assise Onu la vergogna delle torture e punta anche a premere sulla Banca Mondiale, toccando il terreno scottante delle finanze egiziane sempre bisognose di aiuti. Occorre capire se questa linea di fermezza che, peraltro, non sembra smuovere minimamente l’entourage del presidente Al Sisi che col procuratore generale Suleiman ha manifestato stupore e irritazione per le posizioni italiane, potrà proseguire il percorso.
Riguardo a un possibile contrasto economico (visto che siamo il secondo partner nell’import-export dopo la Germania, non solo con Eni e la vicenda dello sfruttamento del giacimento Zohr ma, con Edison, Ansaldo, Breda, e poi sul fronte infrastrutturale con Italcementi, Tecnimont, Pirelli) Gentiloni sorvola sui contrattoni di questi marchi importanti e portanti per gli stessi interessi italiani. Invece pensa di frenare il flusso turistico, iniziando a considerare quel Paese pericoloso per ogni sorta di viaggio. Lavoro e affari, per ora, non rientrerebbero nella sfera pericolosa. Probabilmente il governo vuole capire la reazione di Confindustria e dei poteri finanziari nostrani, se saranno disposti a mettere il business sul piatto della difesa dei diritti. Lo scenario ha pienamente imboccato la sfera politica e se rottura diplomatica ci potrà essere, non verrà meno a quest’orientamento. Certo è che nel difficile momento vissuto dal mondo arabo affacciato sul Mediterraneo, col caos libico, la presenza dell’Isis, le minacciose ondate migratorie, il ruolo della giunta del Cairo può tornar utile a un Occidente che, a sua volta, non deve irritare la locale lobby militare. Anche perché le mani tese alla spregiudicatezza di Al Sisi non mancano, a iniziare dal vicinato arabo. In questo fine settimana il presidente-generale ha ospitato un alleato potente e solvente, il sovrano saudita Salman, che è stato accolto, applaudito, osannato da tutti i parlamentari egiziani. Motivo dell’incontro: ribadire la comune lotta contro il terrorismo, che a detta del re saudita: “dev’essere combattuto finanziariamente, militarmente, ideologicamente”. Per farlo, e per trovare seguito nello stato che egli considera fratello, il Saud ha fatto riferimento alla ‘causa palestinese’, buona per ogni avvicinamento di soggetti arabi che, immediatamente dopo averla ricordata e sfruttata, la lasciano cadere fino alla futura rispolverata.
Il dignitario di Riyad ha sostenuto di mirare a un’alleanza-ponte sul mar Rosso per creare una forza di difesa panaraba, idea peraltro lanciata un anno fa dallo stesso Egitto. Ma ha anche fatto riferimento a un vero ponte da edificarne tramite l’isola di Tiran, così da collegare il Sinai alla penisola arabica. Su quest’isola, originariamente saudita e affittata dal 1950 all’Egitto, passerebbe il collegamento per le attuali sette miglia marine che separano il golfo di Aqaba dal mar Rosso. L’opera potrà incrementare le capacità lavorative in zona e legare le sorti dell’establishment cairota ai petrodollari sauditi. Egualmente si pensa a istituire un porto franco commerciale nella zona del Sinai. Coi 16 miliardi di dollari messi sul piatto, Riyad acquista l’acquiescenza del nuovo raìs egiziano e della lobby che lo circonda e lo protegge. Pensa di potersene servire in quell’”Alleanza contro il terrorismo” rivolta più che contro il Daesh, contro le spine nel fianco al suo dominio sulla penisola e nella regione, come indica la crisi yemenita e i contrasti ai ribelli Houthi, considerati l’ennesimo cavallo di Troia iraniano. Al Sisi, finito nel trambusto del caso Regeni per lo zelo assassino dei suoi collaboratori, cui comunque addestra e sollecita la foga criminale, non manca di nuovi approdi politici ed economici. Per Gentiloni la partita si fa dura. Ancor di più per la giustizia richiesta per Giulio e tutti gli scomparsi d’Egitto.
Enrico Campofreda
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