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Boko Haram: ventimila morti in Africa dal 2009

L’ennesimo attentato, presumibilmente organizzato dalla setta islamista fedele a Daesh, Boko Haram e compiuto da due ragazze kamikaze, ha provocato mercoledì tra 8 e 11 morti (le fonti non concordano sul numero) e alcune decine di feriti, nel campo profughi di Banki, nello stato federato del Borno, nel nordest della Nigeria. All’inizio di aprile, nella stessa regione, un attacco ai villaggi di Gurum e Dokshi aveva provocato una ventina di morti; altrettante vittime si erano avute in marzo, per un attentato suicida in una moschea a Maiduguri, capitale del Borno.

Nonostante a partire dal 2015 l’esercito nigeriano abbia riconquistato buona parte dei territori prima occupati da Boko Haram, scrive Jeune Afrique, (ma ieri Amnesty International ha accusato l’esercito nigeriano di aver deliberatamente massacrato, lo scorso dicembre a Zaria, 350 musulmani del Movimento Islamico, che raccoglie la  piccola minoranza sciita, in una Nigeria a forte maggioranza sunnita) gli islamisti continuano negli attacchi suicidi, che anzi sembrano moltiplicarsi, man mano che diminuisce la loro forza militare, tanto che il loro numero è quasi quintuplicato tra il 2014 e la fine del 2015, passando da 32 a 151, non solo in Nigeria. In sole due giornate, nel luglio 2015, l’organizzazione aveva fatto 200 morti e nelle prime due settimane dello stesso mese il totale delle vittime era stato di 338; ma 70 morti si erano avuti in marzo e 107 nell’aprile 2015, 638 morti nell’agosto 2014, lungo una scia di sangue che, da luglio 2014 a luglio 2015 aveva registrato 92 attacchi con 3.239 vittime: “je suis…”. Si stima che almeno 20.000 persone siano rimaste uccise dall’inizio delle azioni dell’organizzazione jihadista nigeriana Boko Haram, nel 2009, che alcuni osservatori danno ora in fase di disgregazione.

Poche settimane fa, Abd Allah Soidri scriveva su Jeune Afrique che gli attentati delle organizzazioni islamiste hanno colpito anche Europa e Asia, ma è in Africa che ci sono stati il maggior numero di attacchi e di vittime, concentrati soprattutto in Nigeria, Camerun, Niger e Ciad, oltre che Libia, Egitto, Costa d’Avorio, Mali, Somalia, Kenya, Tunisia, Burkina Faso. Sempre più bambini e bambine vengono rapiti dai terroristi di Boko Haram per essere impiegati negli attentati suicidi: la denuncia è in un recente rapporto Unicef, pubblicato in occasione del secondo anniversario del sequestro, due anni fa, di 276 studentesse a Chibok, nel Borno. Dal 2014 al 2015 il numero delle giovani vittime costrette a compiere attentati si sarebbe decuplicato: da 4 a 44. In Camerun, secondo Jeune Afrique, la metà degli attacchi suicidi diretti da Boko Haram è stato compiuto da bambini; dappertutto un attacco su cinque viene compiuto da giovanissimi: di essi, i tre quarti sono bambine. A fine marzo, nell’estremo nord del Camerun, confinante con la Nigeria, è stata fermata una kamikaze dodicenne con addosso una cintura con 12 kg di esplosivo. Pare che la ragazzina, originaria di Maiduguri, fosse stata rapita a Baga, quando Boko Haram aveva conquistato la cittadina.

“Questi bambini sono vittime, non assassini”, sottolinea a Jeune Afrique Manuel Fontaine, direttore regionale Unicef per l’Africa occidentale e centrale; questo “è uno degli aspetti più orribili della violenza perpetrata da Boko Haram”. Secondo Fontaine, i bambini costituiscono oltre la metà degli sfollati in fuga da Boko Haram; tra il 2014 e il 2015 il loro numero è aumentato del 60%: dal 2013, 1,3 milioni di bambini hanno dovuto essere evacuati. Le conseguenze sono disastrose per sanità, educazione, malnutrizione; secondo l’Unicef, solo lo scorso anno, 670.000 bambini sono stati privati di istruzione e 200.000 bambini sono gravemente malnutriti.

Peccato che l’Unicef eviti di parlare dei motivi sociali interni (senza contare gli interessi internazionali) che anche in Nigeria, come in altre aree del mondo, agiscono sullo sviluppo dell’organizzazione jihadista; a cominciare dal dissesto finanziario del paese, causato dall’accaparramento delle immense risorse petrolifere da parte di compagnie straniere – Shell, Chevron, Texaco, Eni, ecc., che gestiscono il 90% del petrolio nigeriano – mentre le raffinerie statali non riescono a smaltire che una minima parte della loro capacità di 445.000 barili al giorno (sui 2 milioni di barili che si accreditano a questo che è il primo produttore africano) e, infine, dal basso prezzo del greggio, crollato del 70% dal 2014.

Peccato si taccia sul perché anche la Nigeria, al momento dell’indipendenza e ancora negli anni ’60 esportatore di prodotti agricoli – indicativa della generale situazione alimentare africana, quella della produzione di pomodori in Ghana o in Senegal – sia costretto ora a importarli, con logiche conseguenze per una popolazione impoverita. Peccato si taccia sul fatto che mancanza di nutrizione, sanità e istruzione siano sì estremizzate e utilizzate dalle sette islamiste, ma siano il prodotto e rispondano in pieno a quella politica imperialista, un tempo di dominio coloniale e commerciale, oggi di saccheggio finanziario, attuata dai monopoli occidentali, che a suo tempo fu sintetizzata in USA come la volontà di conservare intatto o accrescere il “dislivello esistente tra la nostra ricchezza e la povertà altrui” (George Kennan, citato da Noam Chomsky).

Peccato l’Unicef non dica che le piaghe del cosiddetto Terzo Mondo continuino a essere tutt’oggi la conseguenza di qualche centinaio d’anni di spoliazione di quei paesi (nella sua opera sull’imperialismo, Lenin riportava come, ad esempio in Africa, solo tra il 1876 e il 1900, la percentuale di terra di proprietà delle potenze coloniali europee fosse passata dal 10 al 90%) cui ogni sviluppo è stato artificialmente impedito a favore di un pugno di élite industriali e finanziarie straniere che, nella salvaguardia dei propri interessi, impongono alle imprese locali tipo e misura di produzione, ne decretano la chiusura, decidono interventi di rapina, cambi di regimi e massacri di intere popolazioni da parte delle dittature imposte dai monopoli, guerre totali, ovunque sull’orbe terraqueo debbano salvaguardarsi le fonti dei loro extraprofitti.

Peccato si taccia che la schiavitù di fatto in cui è costretta ancora oggi l’80% della popolazione mondiale, sia conseguenza della lotta tra predatori su quella parte del mondo che l’ipocrisia occidentale, denunciata già cinquant’anni fa da Antonio Pesenti, definisce “in via di sviluppo”, ma cui di fatto ogni progresso è volutamente interdetto, essendo stati trasformati in semplici fornitori di forza lavoro e materie prime a buon mercato e “colonie commerciali” per i prodotti capitalisti. Un tipo di “via di sviluppo” adatto al continuo germogliare dei vari Daesh, Boko Haram o chi per loro, su un terreno continuamente fertilizzato dai moderni colonizzatori.

Fabrizio Poggi

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