“La verità giudiziaria è ancora più pignola della verità storica ed è la prima volta che si documenta in tribunale l’esistenza di un accordo che rese possibile alle forze armate di alcuni Stati di lavorare al di là della sfera di sovranità nel territorio di altri Stati. Tutti i firmatari del Piano Condor avevano il diritto anche fuori dai propri confini di identificare, perseguire ed eliminare fisicamente i propri sovversivi, cioè chiunque avesse idee dissonanti con l’impostazione politico-economica neo-liberista”. Enrico Calamai, viceconsole italiano in Argentina durante la dittatura, commenta così la sentenza di Buenos Aires di pochi giorni fa che condanna 15 degli aguzzini della dittatura militare di estrema destra riconoscendo per la prima volta che operarono all’interno del Piano Condor, l’alleanza del terrore tra i regimi fascisti di tutto il continente sponsorizzata e sostenuta dagli Stati Uniti.
Calamai riuscì a mettere in salvo e a far espatriare centinaia di oppositori politici braccati dal regime fornendogli i passaporti a suo rischio e pericolo, e ha raccontato la sua esperienza in un libro che non a caso si chiama “Niente asilo politico” e che spiega come il metodo della desaparicion degli oppositori da parte del regime occultò agli occhi delle opinioni pubbliche internazionali la violenza di Stato fornendo un alibi ai governi che desideravano mantenere buoni rapporti con l’Argentina. “I governi che avevano gli strumenti per sapere e per intervenire – dice Calamai – non fecero niente”.
Nelle ambasciate “non si concedeva più l’asilo politico” come era avvenuto invece appena tre anni prima con la mattanza alla luce del sole in occasione del golpe del generale Augusto Pinochet in Cile.
“Se fossero state aperte le porte delle ambasciate queste si sarebbero riempite di rifugiati e la loro stessa presenza avrebbe dimostrato iconograficamente che in Argentina era in corso la caccia all’uomo. E l’ambasciata italiana ha fatto in modo che nessuno potesse entrare e soprattutto ciò che si è subito fatto è stato installare dei bussolotti all’ingresso, tipo quelli delle banche, in cui chi cercava di entrare doveva entrare individualmente e doveva giustificare la propria richiesta, cosa impossibile mentre fuori c’erano appostati i militari argentini”.
Calamai ricorda il caso di cinque cileni che, dice, sono “un esempio dell’esistenza del Piano Condor, braccati già in Argentina il primo fine settimana dopo il golpe. Sono arrivati in consolato dicendo che avevano cercato di entrare nell’ambasciata italiana a Buenos Aires, pensando che si sarebbe comportata come l’ambasciata a Santiago del Cile ma li avevano respinti. Riusciti poi ad entrare dicendo che volevano informazioni su borse di studio erano però poi rimasti tre mesi in una specie di sottoscala perché l’ambasciata non poteva cacciarli ma in quei tre mesi li hanno isolati dal mondo, messi sotto pressione, non è stato mai chiesto per loro il riconoscimento dello status di rifugiati”.
Aveva chiari segnali che il suo impegno per cercare di mettere in salvo chi era braccato non era ben visto? “Certo, questo è sicuro. Le istruzioni verbali, perché non si potevano mettere per iscritto, le direttive del Ministero degli Esteri erano di non creare problemi con i militari al potere”.
Oggi Calamai fa parte del Comitato “Giustizia per i nuovi desaparecidos”, che significa questo nome? “Significa che la desapariciòn non è mai finita, malgrado il Nunca Mas con cui si chiuse nell’83 il capitolo della dittatura argentina. La desaparicion – prosegue Calamai – è diventato un metodo repressivo innovativo estremamente comodo perché quando non hai il cadavere non hai il delitto o hai tracce estremamente labili. La desapariciòn purtroppo oggi si pratica in tantissimi Paesi malgrado una convenzione internazionale contro la scomparsa forzata delle persone”.
E anche oggi gli alibi, le complicità e le responsabilità, per Calamai, rischiano di non essere osservate. “Una cosa interessante è notare che l’Europa oggi ha creato una fitta rete operativa e omissiva che fa sì che moltissimi richiedenti asilo che cercano di arrivare qui muoiano nel viaggio, sia in Africa che nel mare. La cosa che colpisce è che c’è anche una somiglianza tra il processo di Khartoum con il quale l’Europa finanzia alcune dittature africane, come il Sudan e l’Egitto, perché blocchino coloro che scappano dai governi stessi, quindi in realtà sta permettendo la caccia all’uomo in tutti quei Paesi, come succedeva con il Piano Condor, e questo processo di Khartoum ha come parallelo il processo di Rabat sulla costa occidentale dell’Africa.
L’obiettivo, prosegue, è quello di “esternalizzare le frontiere per far diventare sempre più difficile captare la tragica realtà che viviamo, queste migliaia di persone che trovano la morte nel tentativo di venire in Europa”.
Che si propone questo comitato? “L’obiettivo primo e ultimo è di rompere questa catena infinita di omicidi, questo massacro e per far questo intanto informare nei limiti del possibile e con grandissime difficoltà perché appunto il sistema mediatico non ne vuole sapere. E dall’altra arrivare ad un procedimento penale a livello o nazionale o europeo o internazionale o all’istituzione di un tribunale di opinione che puntualizzi le responsabilità sia politiche che individuali e possibilmente le persegua”.
Redazione Contropiano
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