Alle 4 del mattino del 22 giugno di 75 anni fa la Wehrmacht iniziava l’operazione “Barbarossa” e invadeva l’Unione Sovietica lungo tre direttrici: ideologica- Leningrado, politica – Mosca ed economica – Kiev. Lo stesso giorno anche Italia e Romania dichiaravano guerra all’Urss, seguite il 23 giugno dalla Slovacchia e il 27 dall’Ungheria. Lo scontro con “il bolscevismo mondiale”, verso cui le potenze “democratiche“ occidentali erano riuscite a dirottare i quattro quinti della macchina bellica nazista, si sarebbe concluso quattro anni dopo con la bandiera rossa issata sulle rovine del Reichstag. Ma intanto, appena un giorno prima di quel 22 giugno, l’Esercito Rosso aveva ricevuto in dotazione l’arma che forse più di tutte, accanto al carro T-34, rappresentò il vessillo dell’industria militare sovietica, la “Boevaja Mašina 13”, ovvero il lanciarazzi multiplo “BM-13”, conosciuto come “Katjuša” e che, come “organo di Stalin”, per il caratteristico sibilo emesso al momento del lancio, avrebbe terrorizzato i soldati tedeschi da Mosca a Berlino.
La “BM-13” fu uno dei primi sistemi al mondo di artiglieria a reazione, usata per colpire forti raggruppamenti di uomini e mezzi, dislocati in ampi spazi di terreno: quindi senza particolare precisione di tiro. Gli studi su tali tipi di armi erano stati avviati sul finire degli anni ’20 e nel marzo 1941 furono assemblati i primi pezzi del nuovo complesso, formato da 8 longarine, ciascuna delle quali poteva lanciare due razzi da 132 mm. Nel giugno si sperimentò la loro installazione su camion (inizialmente sul sovietico ZIS-6; poi, a guerra iniziata, sull’americano Studebaker US6) e un giorno prima dell’invasione nazista, appunto il 21 giugno, i primi esemplari furono consegnati all’esercito. Ogni batteria era servita da 5-7 uomini; tutti e 16 i razzi venivano sparati in 7-10 secondi a una distanza di 8,5 km e ogni razzo aveva una carica di 5,5 kg di tritolo. Secondo le cronache, la BM-13 era ancora impiegata durante il conflitto in Afghanistan. Ma questa è storia.
Ieri, 21 giugno 2016, al poligono sperimentale di Sary-Šagan, in Kazakhstan, la Russia ha effettuato alcune prove di nuovi sistemi di difesa antimissilistica, per saggiarne le caratteristiche tecnico-tattiche. Dall’agosto del 2015, riporta la Tass, il sistema di difesa antimissile russo è entrato a far parte della Prima armata delle forze speciali di difesa antiaerea e antimissilistica. Le caratteristiche del nuovo distaccamento delle forze armate russe, affermano al Ministero della difesa, “consentono di sventare la minaccia di possibili attacchi missilistici nucleari, innalzare la soglia di risposta nucleare, accrescere il livello di risposta dei massimi organismi di direzione militare e politica e, utilizzando mezzi informatici anti-interferenza ad alta precisione, scovare livello, obiettivo e destinazione dell’impatto nemici”, con l’utilizzo di strumenti antiradar, stazioni di disturbo e attivando falsi obiettivi.
Di tali sistemi si compone anche il cosiddetto “ombrello” a difesa di Mosca, in cui rientrano i sistemi reattivi semoventi “Pantsir-S” e gli S-400 “Triumf”, che hanno sostituito i precedenti S-300PM. Gli S-400 possono colpire fino a 36 obiettivi, a 400 km di distanza e 27 km di altezza, lanciando contemporaneamente 72 razzi, con un sistema di rilevamento che permette di scoprire anche aerei a volo radente lontani 600 km. E intanto è in fase di messa a punto il sistema S-500 “Prometeo”, in grado di colpire contemporaneamente dieci obiettivi balistici alla velocità di 7 km/s. Mentre gli S-400 colpiscono gli obiettivi lontani, i sistemi mobili “Pantsir” si occupano degli aerei e missili alati nemici in un raggio di 20 km, a un’altezza di 15 km: a differenza di sistemi occidentali simili il “Pantsir” è in grado di lanciare anche con il mezzo trainante in movimento. Mosca è inoltre difesa da un anello di apparati di disturbo elettronico “Mosca-1”, che scansiona lo spazio aereo per un raggio di 400 km, ma funzione anche come “cervello di lancio” del sistema missilistico. Il controllo dello spazio aereo è affidato anche alle stazioni di radiolocalizzazione “Cielo-U”, “Don-2NP”, in grado di rilevare oggetti di 5 cm a una distanza di duemila km, operando per mezzo di 4 supercomputer “Elbrus-2” in grado di completare un miliardo di operazioni al secondo.
Sono questi alcuni dei mezzi tecnici che hanno consentito alla Russia di fare un balzo nell’export di armamenti che gli analisti di Novorosinform valutano dai 3 miliardi di $ del 2000, ai 10,4 del 2014, con una dinamica della prima metà del 2016 che fa supporre una cifra sui 15 miliardi di $. Mosca, secondo i dati del Sipri, continua a essere il secondo esportatore mondiale dietro agli USA, con oltre ¼ di tutto l’export mondiale, diretto verso 66 paesi, ma principalmente India, Cina, Vietnam, Algeria, Venezuela e Medio Oriente. L’80% del commercio russo di armi va verso paesi africani e asiatici, ma negli ultimi 5 anni si è registrato un salto del 264% anche verso Europa. L’80% dell’export è dato da aviazione, sistemi di difesa antimissile e navi, mentre appena il 15% è rappresentato da armi leggere.
Il continuo aggravarsi delle tensioni internazionali; il crescente confronto innescato da USA e Nato a ridosso dei confini russi; l’isteria quotidianamente manifestata (o alimentata dall’esterno) da alcuni vicini dell’ex Patto di Varsavia per la “minaccia di aggressione” russa e il conseguente impeto di voler assestare un “colpo preventivo” al Cremlino, devono fare i conti anche con un complesso militare industriale che, se in buona misura sembra assecondare il “gioco” USA di una corsa agli armamenti sul modello che portò alla rovina dell’economia sovietica, è comunque anche in grado di recare enormi profitti nelle casse dei grossi consorzi nazionali. E allora ecco che Elena Latyševa su Novorossija, in occasione del 75° anniversario dell’aggressione nazista, lamenta come “la tragica data del 22 giugno non è mai stata attuale come oggi”, a partire dalle ripetute farneticazioni di Kiev che, alla vigilia di ogni nuova ondata di bombardamenti sul Donbass, “declama preventivamente una nuova aggressione russa. Tutto questo mentire e scaricare sull’altro la propria colpa futura, non somiglia forse alla tattica di Hitler e Goebbels?”, si chiede Latyševa. Dunque, solo ad attacco iniziato, alle 4 del mattino di quel 22 giugno 1941, Ribbentropp consegnò all’ambasciatore sovietico a Berlino, Dekanozov, la nota sulla dichiarazione di guerra, con tre allegati: quello del Ministero degli interni sull’opera di “diversione condotta dall’Urss contro la Germania e il nazionalsocialismo”; quella del Ministero degli esteri, sulla “propaganda e l’agitazione del governo sovietico” e quella dello Stato maggiore sul “concentramento di truppe sovietiche contro la Germania”. Alle 5.30, l’ambasciatore tedesco a Mosca, Schulenburg, consegnò a Molotov la nota del Führer, secondo cui Mosca stava conducendo una politica estera antitedesca e “aveva concentrato tutte le sue truppe in pieno assetto di guerra alla frontiera tedesca”, per cui Hitler “aveva ordinato alle forze armate tedesche di contrastare tale minaccia con tutti mezzi a disposizione”.
In questo modo, conclude Elena Latyševa, Hitler “si avviò sul suo cammino mortale. Agli odierni nemici della Russia converrebbe ricordare come si concluse l’arroganza di Hitler e fermarsi, prima che sia troppo tardi. Noi non vogliamo la guerra. Ma ci difendiamo con fermezza”.
Fabrizio Poggi
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