Secondo i risultati ufficiali riportati dalla Commissione elettorale nel referendum di giovedì hanno votato per uscire dall’Unione europea 17.410.742 di elettori (51.9%) a fronte dei 16.141.241 (48.1%) che hanno votato a favore della permanenza; l’affluenza è stata del 72,2% su un totale di 46,5 milioni di aventi diritto, un dato assai superiore rispetto alla partecipazione media alle elezioni degli ultimi decenni, la più alta in una chiamata alle urne su scala nazionale nel Regno Unito dalle elezioni politiche del 1992.
Sono stati ammessi al voto anche gli immigrati provenienti dai 54 paesi del Commonwealth – tra cui Australia, Canada, India, Pakistan e Nigeria, Irlanda – a patto che fossero residenti nel Regno Unito.
La vittoria della Brexit è stata presentata e vissuta dalla destra nazionalista britannica come “l’indipendence day”, il giorno del recupero della piena indipendenza della potente Inghilterra dalle burocrazie continentali.
Ma a ben vedere il risultato del referendum di giovedì potrebbe avere conseguenze opposte a quelle alle quali aspirano coloro che hanno votato ‘Leave’ a partire da un punto di vista nazionalista e nostalgico dell’Impero che fu.
Sembra davvero paradossale che proprio nel giorno in cui il nazionalismo inglese/britannico segna uno storico punto a proprio favore, in conseguenza del voto riemergano con forza gli elementi di attrito e divaricazione nei confronti delle altre nazioni che compongono il ‘Regno Unito’.
Basta vedere le mappe del voto pubblicate da vari quotidiani britannici e riprese dalla stampa internazionale per accorgersi della assai diseguale distribuzione del voto, territorialmente parlando. A parte Londra – sede della burocrazia, città cosmopolita, metropoli fortemente influenzata dagli stretti legami economici con l’Unione Europea – dove il Remain ha stravinto con il 60% (anche se non in modo omogeneo e segnalando una netta opposizione tra ‘quartieri alti e periferie’), praticamente tutta l’Inghilterra vede l’affermazione del No all’Unione Europea. Come abbiamo visto dall’ottima e particolareggiata analisi di classe del voto realizzata da Andrea Genovese, sono soprattutto le ‘periferie’ e le città industriali che hanno vissuto in maniera più pesante l’impatto dell’unificazione europea in campo economico e sociale a dare il maggior numero di voti al fronte del ‘leave’. E non solo da parte della base elettorale dell’Ukip o del Partito Conservatore, ma anche da spezzoni consistenti dell’elettorato di centrosinistra e di sinistra che ha deciso di ‘disobbedire’ alla direzione del Partito Laburista e di mandare un messaggio forte e chiaro contro l’austerity, la distruzione della democrazia e dei diritti sociali che l’Unione Europea ha perseguito e ottenuto in tutti questi anni. Alla fine, tenendo conto della consistenza dell’area metropolitana di Londra, in Inghilterra il ‘leave’ ha prevalso 53 a 47, quindi con punte molto più alte nel resto del territorio inglese.
Quando però si esce dai confini dell’Inghilterra e si analizza l’orientamento della popolazione delle altre nazioni britanniche la mappa cambia.
Il Galles costituisce una sorta di ponte, con un vantaggio abbastanza consistente del ‘Leave’ nonostante sia i laburisti, sia il partito nazionalista gallese di centrosinistra – il Plaid Cymru – abbiano fatto campagna a favore del ‘remain’. Alcune aree industriali e minerarie del Galles hanno subito un vero e proprio assalto da parte delle logiche e delle istituzioni europee, intere regioni sono state desertificate dal punto di vista economico grazie prima alle politiche di Margaret Thatcher e poi dell’Unione Europea. Politiche i cui strascichi non hanno mancato di condizionare la campagna referendaria, con l’annuncio della potenziale chiusura dell’acciaieria di Port Talbot da parte della multinazionale indiana TATA Steel. Il risentimento e la disillusione si sono quindi espressi maggioritariamente a favore del ‘Leave’ che si è affermato con il 52.5%. Unica eccezione la città di Cardiff, dove invece ha vinto il ‘Remain’.
In Scozia invece ha prevalso nettamente il voto a favore dell’Unione Europea. Mancano ancora analisi approfondite sui flussi elettorali ma è abbastanza evidente che una parte consistente dell’elettorato nazionalista scozzese abbia seguito l’indicazione dell’Snp – partito maggioritario di centrosinistra che propugna il distacco da Londra – ed abbia votato compattamente ‘Remain’, così come gran parte dell’elettorato laburista e conservatore. Il risultato in Scozia è stato schiacciante: 62 a 38.
In Irlanda del Nord è andata in maniera simile – 55.7 a 44.3 a favore del Remain – considerando il fatto che non solo laburisti e conservatori sostenevano il no all’uscita dall’Ue, ma anche quasi tutto il fronte repubblicano irlandese (Sinn Fein in testa).
I partiti nazionalisti di centrosinistra scozzese, gallese e irlandese hanno assunto in questa occasione un punto di vista europeista convinto, anche più determinato che nel passato. Per vari motivi. Intanto per segnare un elemento di rottura ideologica e di differenziazione nei confronti dell’Inghilterra che ha trainato la battaglia per la Brexit. Negli ultimi anni, più in Inghilterra (ed in Galles) è cresciuta l’influenza dell’Ukip e della frange nazionaliste del Partito Conservatore Britannico, più Sinn Fein, Plaid Cymru e soprattutto lo Scottish National Party hanno accentuato il loro carattere europeista. Così facendo, però, i partiti nazionalisti scozzese e gallese hanno paradossalmente finito col “confondersi” – almeno su questo tema e nell’essenza del messaggio politico – con il Partito Laburista che negli ultimi anni ha visto svuotarsi il proprio elettorato proprio a vantaggio del PC e dello Snp, che si propongono come versioni nazionali(ste) della socialdemocrazia in alternativa a una forza politica – il Labour – sempre più liberista e inglese. Soprattutto gli scozzesi ma anche i gallesi hanno inserito nel proprio ‘dna’ politico la difesa del welfare state facendone un nucleo fondante del progetto nazionale. Ma il sostegno quasi acritico ad una Unione Europea che del welfare e dei diritti sociali e di cittadinanza vuol fare carta straccia rappresenta una contraddizione evidente all’interno del messaggio politico dei nazionalismi anti-inglesi.
Al di là della necessità di differenziarsi dal panorama politico inglese dominante, occorre dire che tutti e tre i partiti nazionalisti irlandese, gallese e scozzese hanno un nucleo ideologico fortemente europeista; l’Unione Europea è tuttora considerata, nonostante la critica all’austerità, alla scarsa democrazia e al sostegno finora accordato al nazionalismo britannico da parte di Bruxelles, come il male minore rispetto alla tracotanza di Londra, quando non l’ambito culturale, economico e geopolitico all’interno del quale costruire l’indipendenza dalla Gran Bretagna.
Ma i nazionalismi ‘periferici’ irlandese, scozzese e gallese hanno anche, paradossalmente, sostenuto il ‘remain’ in maniera strumentale. Prima del voto avevano avvertito che se l’Inghilterra avesse scelto di uscire dall’Unione Europea sarebbero aumentati i motivi e gli argomenti per accelerare quei processi di devolution politica ed economica che hanno già portato, nel 2014, alla celebrazione di un referendum sull’indipendenza in Scozia nel settembre del 2014. All’epoca il ‘no’ vinse con il 55% dei voti, ma negli ultimi due anni il sentimento indipendentista scozzese è cresciuto, così come il radicamento dello Scottish National Party che ha aumentato il numero di iscritti ed ha ottenuto buoni risultati elettorali. La progressiva moderazione della sua proposta in campo sociale ed economico ha portato alcune frange più radicali dell’Snp ad abbandonare il partito e ad unirsi ad una per ora magmatica e minoritaria coalizione indipendentista di sinistra, che ha lasciato libertà di voto ai propri aderenti e simpatizzanti.
Ora che nonostante giovedì tutte le 32 circoscrizioni scozzesi abbiano scelto di rimanere con l’Unione Europea, la Scozia si ritrova ingabbiata nel voto generale britannico e quindi gli argomenti a favore di un distacco da Londra acquistano maggiore rilevanza agli occhi dello Scottish National Party. L’ex premier scozzese ed ex leader dell’Snp Alex Salmond non ha quindi perso tempo e a qualche ora dalla diffusione dei risultati finali del voto ha affermato che l’Snp chiederà non solo che si celebri un nuovo referendum sull’indipendenza nel 2018, ma che nel frattempo Londra dovrà assicurare la permanenza di relazioni stabili e proficue tra Edimburgo e Bruxelles. “La Scozia ha consegnato un voto chiaro, senza equivoci, per la permanenza nella Ue e accolgo con favore questo sostegno al nostro status europeo” ha detto invece Nicola Sturgeon, l’attuale leader dei nazionalisti scozzesi.
In Galles il Plaid Cymru ha sollevato la necessità di tenere un referendum simile a quello ottenuto – e perso – dagli scozzesi due anni fa, ma che lo possa ottenere è difficile dirlo, vista la minore consistenza elettorale del partito nazionalista gallese rispetto ai fratelli di Glasgow ed Edimburgo.
Il discorso è assai diverso, e molto più complicato e rischioso, nella porzione d’Irlanda ancora occupata dalla Gran Bretagna.
Lo Sinn Fein ha sostenuto il ‘Remain’, oltre che per motivi ideologici e politici, anche per motivi pragmatici. Il fatto che Gran Bretagna e Irlanda facessero entrambe parte dell’Unione Europea di fatto costituiva una sorta di elemento di riunificazione surrettizia tra la Repubblica e l’Irlanda del Nord. Ora che l’Ulster viene trascinato fuori dall’Ue dal voto di giovedì il rischio è quello di un repentino allontanamento tra i due territori irlandesi, giudicato negativamente da parte dei nazionalisti attivi in entrambi i territori (anche se i gruppi indipendentisti più radicali e varie formazioni di sinistra hanno invece appoggiato il ‘leave’). “Con l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, l’Irlanda dovrebbe andare al voto per la propria riunificazione” ha detto il vicepremier dell’Irlanda del Nord, Martin McGuinness, storico leader dello Sinn Fein ed ex comandante dell’Esercito Repubblicano Irlandese (Ira). Perché con la Brexit, ha spiegato, ci sono “enormi conseguenze per l’intera isola d’Irlanda, che andrebbero contro le aspettative democratiche del popolo. E l’elettorato dovrebbe avere il diritto di votare per mantenere un ruolo nell’Ue”.
Il grosso problema, che McGuinness non cita, è che una parte consistente dell’elettorato delle Sei Contee ha votato ‘brexit’ e si identifica in una versione spesso estrema dell’identità nazionalista inglese/britannica. E’ abbastanza facile prevedere che i rapporti tra repubblicani e unionisti in Irlanda del Nord possano peggiorare dopo alcuni anni di relativa calma determinati dal processo di smilitarizzazione dello storico conflitto tra indipendentisti irlandesi e truppe di occupazione britanniche. Basta vedere la mappa del voto per accorgersi che l’Irlanda del Nord è ancora spaccata in due, anche sulla questione europea, tra territori a maggioranza ‘protestante’ e territori a maggioranza ‘cattolica’: mentre Belfast ha votato a favore del Remain le circoscrizioni vicine alla capitale hanno scelto il Leave, a differenza di quelle più prossime al confine terrestre con la Repubblica d’Irlanda.
Un discorso a parte merita Gibilterra, piccola enclave britannica sulla costa meridionale della Spagna. Il territorio, appena 30 mila residenti, è da sempre al centro di una disputa tra Londra e Madrid che negli ultimi anni ha acquisito di nuovo toni duri, soprattutto a causa delle rivendicazioni territoriali ed economiche aggressivamente avanzate dal Partito Popolare spagnolo. Giovedì più del 95% dei cittadini della piccola penisola hanno votato per restare all’interno dell’UE, una condizione che ha nei decenni assicurato prosperità ai residenti in virtù del loro particolare status: cittadini dell’Ue residenti in un territorio britannico all’interno di un altro paese dell’Ue. Ora che la situazione è cambiata le tensioni con Madrid potrebbero acuirsi e c’è già chi avanza varie ipotesi sul futuro status della Rocca: indipendenza (come San Marino o il Principato di Monaco) oppure una sorta di co-sovranità su Gibilterra da parte di Londra e Madrid.
Marco Santopadre
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