Quando denunciamo le responsabilità europee e statunitensi nella nascita e nella crescita delle organizzazioni jihadiste che stanno seminando il terrore dal Medio Oriente all’Europa, dall’Asia all’Africa non ci riferiamo soltanto al fatto che decenni di guerre, destabilizzazione, embarghi e interventi imperialisti di vario tipo hanno creato il terreno fertile affinché un numero sempre maggiore di musulmani si aggreghino allo Stato Islamico, ad al Qaeda o a Boko Haram.
In alcuni casi le responsabilità sono dirette, esiste una precisa filiera che parte dai governi e dagli stati maggiori dei paesi membri dell’Unione Europea e degli Stati Uniti e che arrivano fino alle reti del terrore che le organizzazioni jihadiste creano nei territori.
Ne abbiamo parlato in passato della presenza del jihadismo nella penisola balcanica. Una penetrazione che risale agli anni ’90, quando l’amministrazione statunitense e le potenze europee, Germania in primo luogo, soffiarono sulle divisioni etnico-religiose già esistenti nell’allora Jugoslavia per destabilizzare uno stato che nel corso di alcuni anni, dopo guerre civili sanguinose e criminali missioni militari occidentali, ha cessato di esistere.
Un’operazione che ha potuto contare sull’attiva e interessata collaborazione delle petromonarchie e poi della Turchia, che hanno riversato miliardi di dollari sulla Bosnia, sulla Macedonia, su alcune province della Serbia come il Kosovo e il Sangiaccato, per favorire l’affermazione di forze fondamentaliste ed in alcuni casi esplicitamente jihadiste da utilizzare per allungare i tentacoli dell’Arabia Saudita sui Balcani. Abbiamo parlato più volte, nei mesi e negli anni scorsi, della penetrazione dello Stato Islamico particolarmente in Kosovo ed in Macedonia, dove la sigla terroristica ha potuto contare sulle infrastrutture, mai sciolte del tutto, ereditate dai gruppi della guerriglia albanese tuttora in parte attiva e caratterizzata da una identità sempre più integralista islamica.
Negli ultimi giorni nuove notizie hanno suscitato allarme sulla reale entità della presenza jihadista nel narcostato creato dalla Nato e dalle petromonarchie. I campi di addestramento dello Stato Islamico in Kosovo sarebbero ben cinque, e si troverebbero a Ferizaj, Gjakovica, Dečani, Prizren e Pejë. Qui centinaia di aspiranti jihadisti, per lo più di etnia albanese provenienti da vari paesi, oltre a studiare l’arabo e una versione paranoica del Corano, imparano ad usare le armi e gli esplosivi e varie tecniche di guerriglia, addestrati da alcuni uomini del Califfato e da ‘ex’miliziani dell’Uck, il cosiddetto “esercito di liberazione” kosovaro che grazie alla guerra scatenata dall’Alleanza Atlantica contro la Jugoslavia nel 1999 riuscì ad imporsi nell’ex provincia autonoma di Belgrado diventata ‘indipendente’.
Il tutto avviene in un piccolo territorio che di fatto è ancora un protettorato dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione Europea, istituzioni che in Kosovo possono contare sulla presenza di varie basi militari, di centri di comando e di controllo, di decine di migliaia di militari, osservatori e funzionari civili. Ad esempio il campo di addestramento di Daesh di Ferizaj si troverebbe a pochi chilometri da Camp Bondsteel, la più grande base militare che gli Stati Uniti abbiano mai realizzato fuori dal proprio territorio dopo la guerra del Vietnam, che ospita mediamente 7000 tra soldati e impiegati civili. Vicino a Gjakovica, altra città kosovara che ospita uno dei campi di addestramento del Califfato, ha sede il distaccamento aeronautico Amiko (Aeronautica militare italiana in Kosovo), il che non ha impedito che Daesh proliferasse ad un passo dalle installazioni della missione Kfor. E lo stesso avviene a Pejë, dove sorge il Villaggio Italia, e a Prizren, dove la presenza dell’Alleanza atlantica è altrettanto consistente.
Quando lo Stato Islamico non era ancora considerato un problema dagli Stati Uniti, Lavdrim Muhaxheri, il comandante della famigerata “brigata balcanica” di Daesh, ha lavorato a Camp Bondsteel, e lo stesso dicasi per Blerim Heta, un kamikaze albanese che si è poi fatto saltare in aria a Baghdad.
La vicenda è stata riportata a galla da alcuni reportage realizzati da alcuni media internazionali dopo l’arresto di quattro cittadini kosovari accusati di essere membri della rete terroristica dello Stato Islamico. Notizie di arresti sono frequenti in Kosovo, in Macedonia, in Bosnia, nella stessa Serbia. Secondo i dati forniti nei giorni scorsi dal ministro dell’Interno kosovaro, Skender Hyseni, almeno 57 foreign fighters sono morti in combattimento, una quarantina sono stati fermati prima che potessero partire, 102 sono stati arrestati perché sospettati di aver partecipato ad attività terroristiche.
Ma a finire in manette sono solo una piccola percentuale dei miliziani del Califfato o degli aspiranti jihadisti, mentre la maggior parte continuano ad operare indisturbati nelle enclavi fondamentaliste balcaniche.
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