La protesta dei detenuti palestinesi continua a diffondersi a macchia d’olio nelle carceri israeliane. Sono, infatti, oltre 300 i prigionieri che hanno cominciato uno sciopero della fame di massa per protestare contro la famigerata “detenzione amministrativa”, illegittimamente utilizzata delle autorità di Tel Aviv. La contestazione, utilizzata da diversi anni ma prevalentemente a titolo individuale, ha preso invece una vera e propria connotazione di rivolta non-violenta. Una simile campagna di lotta è nata principalmente in sostegno a Bilal Kayed, militante del Fronte Popolare Liberazione Palestina (organizzazione della sinistra palestinese) che, dopo aver scontato una pena di 14 anni, al momento del rilascio ha ricevuto una notifica di detenzione amministrativa. Kayed ha interrotto lo sciopero della fame la settimana scorsa, dopo 71 giorni consecutivi di digiuno, alla notizia di aver ottenuto la garanzia di poter uscire in maniera definitiva alla conclusione del primo semestre di detenzione amministrativa: dicembre 2016!
La protesta del giovane militante del FPLP ha coinvolto oltre un centinaio di detenuti del suo stesso partito con la partecipazione dello stesso segretario generale del Fronte, Ahmed Sa’adat, incarcerato da oltre dieci anni. Alla campagna del FPLP si sono aggiunti anche gli oltre 280 prigionieri politici di Hamas, rinchiusi principalmente nelle carceri di Eshel e Nafha, che protestano contro le misure oppressive del sistema carcerario israeliano, utilizzate principalmente nei confronti di tutti i prigionieri politici: regime continuo di isolamento forzato, negazione di contatti con parenti o avvocati per mesi, continue perquisizioni e spostamenti da un carcere all’altro.
Secondo un rapporto di Addameer, associazione palestinese per i diritti dei prigionieri politici, i dati sono inquietanti: 7000 detenuti per motivi politici, 715 in regime di detenzione amministrativa, 40 donne e oltre 400 ragazzi, anche minorenni. In questa maniera il governo di Tel Aviv cerca di “contrastare ed eliminare” il moto di rabbia della terza Intifada, come affermato da diversi esponenti del FPLP.
La detenzione amministrativa è, infatti, uno strumento repressivo da sempre utilizzato dall’occupazione israeliana per imprigionare arbitrariamente i palestinesi. Attraverso il suo utilizzo l’esercito di Tel Aviv imprigiona i palestinesi senza accuse né processo per periodi da uno a sei mesi rinnovabili poi indefinitamente senza limiti di reiterazione. Ai detenuti amministrativi può essere impedito di vedere un avvocato fino a 90 giorni ed i detenuti non vengono informati o formalmente incolpati sui relativi capi di accusa, che normalmente vengono utilizzati ad uso esclusivo dei servizi di sicurezza israeliani.
Secondo il diritto internazionale, la detenzione amministrativa può essere usata solo per “ragioni imperative di sicurezza” in una situazione di emergenza, decidendo caso per caso. L’utilizzo della detenzione amministrativa da parte di Israele, al contrario, è spesso una pratica di massa, ordinaria, come alternativa al tribunale militare soprattutto quando i palestinesi arrestati rifiutano di confessare durante l’interrogatorio. Il segretario generale di “Mubadara” (Iniziativa Nazionale Palestinese), Mustapha Barghouti, ha dichiarato che “la Palestina è l’unico paese al mondo nel quale si è incarcerati senza un’accusa precisa e si rimane in detenzione amministrativa e senza un regolare processo anche per anni”.
La stessa reazione da parte delle autorità del IPS (Servizio Penitenziario Israeliano) indica quanto la campagna degli scioperi della fame stia innervosendo il governo Netanyahu. Secondo diverse testimonianze, infatti, tutti gli aderenti allo sciopero sono soggetti a stare in celle di isolamento dove vengono negati loro acqua fresca e ventilazione. Tutti i loro effetti personali, inclusi libri e giornali, vengono confiscati così come vengono negate lenzuola e cuscini. La stessa approvazione e utilizzo, un anno fa, della legge del governo sionista sulla “alimentazione forzata dei prigionieri in sciopero della fame” non sembra aver avuto gli effetti desiderati: piegare la protesta nelle carceri.
Le Nazioni Unite hanno classificato una simile legge come una “forma di tortura e trattamento degradante” perché nega la libertà individuale del singolo. Al contrario il primo ministro Netanyahu ha dichiarato che “la legge serve perché gli scioperi della fame sono una minaccia per Israele”.
In effetti la pratica dello sciopero della fame è diventata una delle colonne del movimento di resistenza palestinese sin dagli anni ‘70. L’interruzione dello sciopero della fame da parte di Bilal Kayed, con il recepimento delle sue istanze, fa capire sempre più che una protesta di massa, promossa anche a livello internazionale, mette il governo israeliano in estrema difficoltà. Dopo l’interruzione dello sciopero del giovane militante politico, nel suo comunicato ufficiale il FPLP ha dichiarato, infatti, che la protesta continuerà visto che “la battaglia di Bilal è una vittoria nei confronti dello stato sionista e della sua politica repressiva e grazie al quale sono state ottenute in passato concessioni significative per i diritti fondamentali dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane .”
Stefano Mauro
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