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Gli scontri in Congo e le mire occidentali

Calma precaria a Kinshasa, dopo due giorni di violenze, scriveva stamani Jeune Afrique. Tra lunedì e martedì, la capitale della Repubblica democratica del Congo è stata sconvolta da scontri tra manifestanti e polizia, con un bilancio che, secondo le fonti ufficiali, è di 17 morti, tra cui alcuni poliziotti e, secondo il Raggruppamento delle forze di opposizione, raccolte attorno al leader dell'Unione per la democrazia e il progresso sociale, Etienne Tshisekedi, di oltre 50 vittime (44, stando a Human Right Watch). Incendiate numerose sedi sia del partito al potere, sia di partiti dell'opposizione. Date alle fiamme le sedi di FONUS (Forze di rinnovamento per l'unione e la solidarietà) e MLP (Movimento lumumbista progressista). Gli scontri sono iniziati il 19 settembre, alla vigilia della data considerata limite ultimo costituzionale per la convocazione delle elezioni presidenziali del 20 dicembre prossimo, allorché dovrebbe scadere il mandato dell'attuale capo dello stato Joseph Kabila. L'Unione Africana, che sta tentando di favorire il dialogo tra governo e opposizione, ha sospeso i lavori fino a venerdì. Da New York, dove si trova per l'assemblea generale dell'Onu, François Hollande ha accusato “lo stato congolese” di aver provocatolo “le violenze" e ha condannato l'incendio della sede del principale partito di opposizione congolese: "Nessun paese può accettare un simile comportamento e tali azioni”, ha tuonato Hollande, come se nessuno ricordasse le “maniere gentili” dei flic francesi nei confronti dei manifestanti contro la loi travail. Hollande ha ricordato come durante la sua visita a Kinshasa, nel 2012, avesse detto a Kabila che “non transigeremo sulle elezioni, la loro data e il processo costituzionale” e che avrebbe attivato “un controllo internazionale”.

Pare che ora sia giunto il momento di un altro intervento di “controllo internazionale” su un paese africano: soprattutto, sulle sue ricchezze.

La stessa Jeune Afrique, alla vigilia delle manifestazioni, che le opposizioni avevano annunciato come “marcia pacifica”, si chiedeva se si sarebbe trattato di “marcia pacifica o saccheggio e violenza?”. Il sito web del Ministero degli esteri russo scriveva ieri che “Le proteste, iniziate perché la Commissione elettorale indipendente non ha annunciato, nel giorno concordato, la data delle elezioni presidenziali, sono state accompagnate da casi di incendi, saccheggi e atti di vandalismo”.

Nazioni Unite, UE e Stati Uniti hanno reagito rapidamente. Jeune Afrique scrive che Tom Perriello, inviato speciale USA per la regione dei Grandi Laghi, ha detto che "Washington è pronta a imporre nuove sanzioni contro i responsabili" delle violenze e ha invitato il governo a fare chiarezza sulle proprie intenzioni nella questione delle elezioni. L'Unione europea ha chiesto "moderazione a tutte le parti" e ha domandato che il rinvio delle elezioni, a questo punto inevitabile, "sia il più breve possibile". Quest'ultima posizione sembra ispirare anche le diverse opzioni avanzate dalla componente dell'opposizione che, ancora prima degli scontri, stava discutendo – ma ai colloqui non partecipavano i settori che fanno capo a Étienne Tshisekedi et Moïse Katumbi – con il governo sulla eventuale durata di una presidenza di transizione. La posizione occidentale ha ricevuto la benedizione della Conferenza Episcopale Nazionale congolese, che ha chiesto al governo di dichiarare in modo “chiaro che l'attuale presidente non sarà candidato alle prossime elezioni presidenziali da organizzare al più presto possibile".

Ieri, l'ex Ministro per l'integrazione del governo Letta, Cécile Kyenge, di origini congolesi, ha dichiarato: "Condanno con la più grande fermezza le violenze. Sono orgogliosa di vedere la sollevazione del popolo congolese per i propri diritti".

Difficile dire quanto dietro quella sollevazione stiano veramente solo i “diritti del popolo congolese”. Senza voler stiracchiare il vecchio Mao – “Se siamo attaccati dal nemico è una buona cosa” – la prontezza con cui Francia, USA e UE si sono mosse per ammonire Kabila, non può non suscitare qualche dubbio sui reali obiettivi occidentali nei confronti di un paese vasto cinque volte la Francia e ricco di risorse, forse come nessun altro stato africano. Solamente in superficie: palme da olio, caffè, cacao, alberi della gomma e legni pregiati, oltre a ingenti risorse idroelettriche. Nel sottosuolo: oro, argento, rame, cobalto, zinco, cadmio, stagno, tungsteno; ma, soprattutto, circa il 30% delle riserve mondiali di diamanti. E negli ultimi anni vi sono stati scoperti altri minerali rari, tra cui il coltan (abbreviatura di columbite e tantalite: 80% delle riserve mondiali), un minerale refrattario utilizzato per cellulari e impianti stereo. Per non parlare delle riserve di uranio.

Non per nulla, di fronte a tanta ricchezza naturale, l'occidente ha avuto così a cuore, per trent'anni, le sorti del generale Mobutu, rimasto in sella così a lungo e arricchitosi spropositatamente con le briciole lasciategli dai successori degli ex colonialisti belgi. Non a caso, oggi, quei successori potrebbero puntare sul cavallo delle opposizioni, forse spaventati da qualche mossa giudicata troppo “autonoma” da parte di Joseph Kabila. D'altronde, Joseph è figlio del Laurent-Désiré Kabila, succeduto a Mobuto e poi, “colpevole” di aver iniziato la nazionalizzazione dell'industria mineraria, ammazzato nel 2001 (proprio come Patrice Lumumba, di cui Laurent-Desiré era stato un seguace prima del suo assassinio nel 1961), non prima che gli fosse stata scatenata contro una guerra civile per lo smembramento del paese e il controllo delle risorse, con l'intervento di Ruanda, Uganda e Burundi, che causò la morte da 2 a 4 milioni di persone. Nemmeno l'intervento in suo sostegno di Zimbawe, Angola, Namibia e Sud Africa, se riuscì a ricacciare nell'angolo gli “insorti” sponsorizzati dai monopoli occidentali, fu però sufficiente a salvare la vita a Laurent Kabila.

Già nella primavera scorsa, il governo di Kinshasa aveva apertamente chiamato in causa l'ambasciata USA, per la questione dei mercenari arruolati dallo statunitense Darryl Lewis (entrato in Congo con un visto di “esperto agricolo”) che, in combutta con Moïse Katumbi, secondo le autorità congolesi, stava organizzando forze antigovernative nel sud del paese.

Oggi, sarà ancora una volta il “controllo internazionale” a ricondurre “l'ordine” nel paese di Patrice Lumumba?

 

 

Fabrizio Poggi

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