Presidente kemal-islamista – Mentre il mondo s’interroga su quale sarà l’impatto geopolitico dell’elezione del più improponibile dei presidenti statunitensi, scenari di crisi e situazioni delicatissime come quella della Turchia erdoğaniana tengono banco sul doppio binario interno e internazionale. Elementi di forza, di debolezza e obiettivi futuri dell’uomo del destino che ottanta milioni di cittadini turchi sostengono o subiscono possono essere valutati nel cangiante orizzonte degli eventi. Il colpo istituzionale che il leader dell’Akp ha messo di recente a segno è l’accordo con l’anziano boss del partito nazionalista Bahçeli per l’appoggio alla legge che introdurrà ufficialmente quel presidenzialismo, in realtà già attuato da Erdoğan dal 10 agosto 2014, giorno della sua elezione. L’Mhp, pur in ribasso rispetto a precedenti consultazioni, conta 40 seggi in Parlamento, può dunque venire in soccorso dei 317 deputati filogovernativi e superare l’agognata quota dei 330 voti per trasformare la Repubblica in senso presidenziale. Un voto previsto per il prossimo gennaio, seguito a primavera da un referendum popolare confermativo. Per garantire un assenso totale del suo schieramento Bahçeli chiede in cambio la pena di morte. Uno scambio da brividi. Con l’aria che tira nella nazione anatolica non è detto che non l’ottenga. Ma potrebbe anche risultare una promessa per il futuro.
Polarizzazione vantaggiosa – Intanto Erdoğan incasserebbe il via libera a un’investitura istituzionale nel ruolo di uomo forte che non dispiace a tanti fan dei ‘Lupi Grigi’. Il suo volto repressivo, aumentato a dismisura nel dopo golpe, piace perché è a largo spettro; perseguita giornalisti, attivisti di sinistra, popolazione kurda, fino a giungere all’incarcerazione di deputati dell’unica opposizione parlamentare, quell’Hdp che ha superato alle urne l’Mhp. L’acceso rilancio di tematiche nazionaliste, fino alle stoccate razziste contro le minoranze presenti sul territorio turco (e non parliamo qui dei profughi siriani) sono stati musica per le orecchie delle frange più retrive presenti in casa Bahçeli che, attualmente, soprassiedono sull’islamismo presidenziale. Domani si vedrà. Del resto accanto alla foga oratoria usata contro i traditori golpisti, i gülenisti della prima e seconda ora che ben conosce, il coriaceo Recep ha arricchito il repertorio retorico già in uso da un triennio, quando il conflitto con l’organizzazione Hizmet diventò palese e quando la stessa opposizione urbana si faceva sotto con la rivolta di Gezi park. Allora insultava i giovani contestatori, ma dall’estate 2015 verso giornalisti, oppositori sgraditi (gülenisti o meno) e cittadini kurdi usa ormai il termine “terroristi”, come se tutti imbracciassero i kalashnikov del Pkk.
Tanti nemici, ampio futuro – Tutti nemici di una Patria, a difesa della quale c’è una chiamata totalizzante, e il vittimismo d’un tempo diventa prima linea per la sicurezza, l’onore, la prosperità. In quest’ottica i nemici non mancano, visto che già da premier Erdoğan aveva intrapreso vie di contrasto, alcune scelte, altre subìte. Ma nella crescente polarizzazione il suo ego smisurato ottiene l’effetto di compattare i sostenitori, che diventano l’arma migliore nelle tre ore di tentato golpe, un colpo goffo, che notizie a posteriori rivelano quasi annunciato e diretto, pur fra tentennamenti, da Oltreoceano. L’orgoglio e la resistenza del cittadino medio, prima che attivista dell’Akp, sicuramente anche d’altro colore politico, ha indicato al “padre turco” la via da seguire nelle settimane successive, accanto ad arresti ed epurazioni. Creare una nuova base, farla riconoscere nella prospera Turchia dell’ultimo quindicennio innanzitutto come nazione che fieramente cerca una giusta ricollocazione nella storia attuale. Senza dimenticare il passato. Ora gli analisti discorrono se la sponda che la Turchia nazional-islamista in salsa ultraconservatrice ricerca sia più neo ottomana, panislamica o panturca, come sintetizza Lucio Caracciolo nel suo ultimo editoriale su Limes (n.10 2016) Osservando i pur contraddittori passi compiuti nei recenti mesi di fuoco, dentro e fuori i propri confini, la tendenza sembra essere quella di tenere fermi alcuni punti.
Geopolitica nazionale – Rilanciare un ruolo centrale sul pur incandescente orizzonte mediorientale, perché lì due nazioni, nate dalla spartizione neocoloniale del secolo scorso, sono frantumate dai conflitti in atto. Perciò si potranno prevedere spartizione di terre e pur tenendo alta la tensione (giocata, comunque, favorevolmente per il consenso interno) si pone il Paese di fronte al combattentismo kurdo e quello del Daesh. Per evitare che si consolidino i territori di entrambi Ankara rivolge le proprie truppe principalmente contro l’ipotesi d’un ampliamento dell’area del Rojava, poiché Pyd e Pkk restano i suoi nemici giurati. Al di là di annettersi territori di una Siria smembrata, il presidente turco vuole che l’unico Kurdistan resti quello di Barzani. Mentre per altri tratti dell’Iraq la presenza diretta o interposta di avversari regionali quali Iran e Arabia Saudita, rendono più difficile e rischioso il Risiko. Finora il rilancio di un’ampia conflittualità in quel territorio era frutto dell’assenza di un pluriventennale “equilibrio da Guerra fredda”. Con la Russia di Putin impegnata direttamente nel caos siriano questo andamento potrebbe mutare. Per ora nessuna fiamma s’è spenta, anzi i civili sono sacrificati a tutte le ragioni di Stato imperialista e islamico, ma le stesse aperture verso Mosca, suggellate dai recenti accordi sul Turkish Stream sembrano servire più alla carriera personale dei due presidenti autocrati che al quadro internazionale. Tutti lo giudicano un avvicinamento interessato, assieme ad altri affari che riguardano vie di commercio orientali e turismo.
Erdoğanizzazione turca – Il futuro prossimo si gioca pure su un’erdoğanizzazione della società turca, col repulisti di ogni angolo dello Stato: forze armate, polizia, intelligence, magistratura, parlamento, ambasciate, amministrazione statale, scuole pubbliche, private e università, organi d’informazione, industria culturale. Libero, per ragioni di sicurezza e salvezza nazionale, dai Fethullahci, dagli avversari politici dell’Hdp e di chi si dovesse opporre alla restaurazione, anche all’interno del partito-regime (Gül ne sa qualcosa, Davutoğlu pure), dai terroristi kurdi o d’altra provenienza, perché chiaramente il jihadismo si supporta lontano dai propri centri di potere, come fanno a Riyad. Tutto ciò accanto al citato rilancio regionale, a un riallineamento mondiale (vicino alla Russia) che incute timore a Washington per l’Alleanza Atlantica. Questa dopo il gelo causato dal tentato golpe, di cui ex generali accusano la Cia (cfr. intervista di Ahmet Hakan a İlker Başbuğ su Limes cit.) può diventare l’arma di ricatto turca sui bisogni della Nato. Appena eletto Trump ha ricevuto da Erdoğan l’ennesima richiesta di estradare l’imam della Pennsylvania. Potrebbe solo essere un argomento per ottenere di più su altri terreni, come accade con l’Unione Europea sulla questione profughi tenuti in casa. Verso costoro il presidente fa sapere d’essere disposto a concedere a tutti il passaporto turco, così da giocarsi la carta di tre milioni di siriani, prevalentemente sunniti, nel divide et impera delle etnie già presente, per l’affanno degli alauiti kemalisti. Ma anche questo, che pare un problema, può trasformarsi in una risorsa: molti siriani potrebbero accettare l’offerta così come gli alauiti potrebbero girare le spalle al kemalismo.
Paura e grandezza per il consenso – Certo, di mezzo c’è sempre l’Islam però se è vero che, in fondo, il riferimento alla grande famiglia della Fratellanza Musulmana serve al presidente più per la diplomazia politica su tante piazze mediorientali che per rigorismi da Shari’a che non gli appartengono, come non appartenevano al realismo ottomano soprattutto degli ultimi due secoli di vita. Non bisogna dimenticare che un cemento potentissimo con cui il modello del partito Giustizia e Sviluppo s’è saldato al mondo turco, rurale e urbano, è rappresentato dalla trasformazione individuale e collettiva. E dal miglioramento delle condizioni di vita. Seppure il Pil nazionale non viaggia più a due cifre come un decennio fa, non si può dimenticare la forza costituita da un ceto medio che solo trent’anni addietro, quando Özal sdoganava il liberismo, la Turchia non conosceva. Il su turbocapitalismo non è privo di magagne, produce come ovunque corruttela, risparmia sulla sicurezza e mette a repentaglio la vita operaia come la strage dei minatori di Soma rammenta, ma investe denaro pubblico e privato per infrastrutture esistenti e non presunte. Serviva davvero il ponte Osman Gazi, ennesima dedica a un’icona ottomana, che taglia il golfo di İzmit? Forse sì, forse no, di fatto 1,3 miliardi di dollari sono stati spesi e non sprecati. Hanno prodotto l’opera (eseguita da un’azienda giapponese) in poco più di tre anni. Fatti, non promesse. Come le linee ferroviarie d’alta velocità che fra il 2002 e 2014 sono passate da zero a 1.213 km, quanto quelle italiane. E per il 2023, l’anno del centenario, dovrebbero diventare 12.000. Business e potere contro libertà e diritti, e rischiano anche i premi Nobel. Gli scrittori Pamuk e Sönmez sono a Istanbul, non è detto che ci resteranno. Erdoğan è piantato lì come un totem.
Enrico Campofreda
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