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Quale futuro per l’Ucraina golpista?

 

L'Ucraina ha ricevuto dalla UE la seconda tranche – 55 milioni di euro – a fondo perduto, rientranti nell'accordo sottoscritto nel 2014 tra Kiev e Bruxelles per un aiuto di 250 milioni di euro. La donazione è stata decisa dalla Commissione europea, che ha valutato positivamente le riforme condotte da Kiev. Di quali riforme si tratta? Innanzitutto, della lotta alla corruzione, per cui il paese, secondo Transparency international, è al 130° posto, su 167 paesi considerati, per “Percezione della corruzione”. Ma forse l'elargizione rappresenta anche un riconoscimento per la proclamazione della “democrazia europeista”, confermata, tanto per fare un solo esempio, dagli oltre 100 miliziani della DNR prigionieri nelle carceri segrete ucraine. La responsabile per i diritti umani della DNR, Darija Morozova, ha parlato di circa 15 luoghi di detenzione segreti del SBU ucraino, denunciati anche dalla commissione ONU per i diritti umani, in cui sarebbero rinchiusi miliziani di DNR e LNR – ieri, un miliziano liberato, ha raccontato delle torture e delle percosse ricevute in uno di tali luoghi – e ha dichiarato che, dal momento che Kiev non manifesta la volontà di giungere allo scambio di “tutti per tutti”, la DNR è disponibile a scambiare “690 soldati ucraini contro 47 miliziani”.

I milioni di euro della UE rappresentano forse un “premio” ai nazisti di Pravyj sektor che ieri, ad esempio, hanno bastonato chiunque si azzardasse a portare fiori di fronte al consolato russo di Odessa, per la sciagura del Tu-154; o anche agli altri neonazisti del battaglione “Donbass”, il cui capo Semen Semenčenko aveva proposto il blocco totale del Donbass, rifiutato da Kiev solamente perché ciò “significherebbe una catastrofe energetica per l'Ucraina”. O costituisco forse una “testimonianza in contumacia” di quanto stabilito nei giorni scorsi dal tribunale rionale Dorogomilovskij di Mosca che, su istanza dell'ex deputato della Rada ucraina, Vladimir Olejnik, ha riconosciuto i fatti del 2014 quale colpo di stato, sostenuto da USA e UE, giudicando illegittimo l'attuale regime ucraino. Regime che “trasforma l'Ucraina in un focolaio di instabilità in Europa e direttamente ai confini della Russia" dice la sentenza, sottolineando che in Ucraina “non vengono rispettati i diritti umani, si tortura, si uccide, ci si beffa delle vittime innocenti”. Chiamati a testimoniare, vari esponenti del deposto governo ucraino, rifugiati a Mosca, hanno ricordato le minacce UE in caso di mancata sottoscrizione dell'accordo di associazione e come tutti gli avvenimenti di majdan fossero diretti da funzionari USA, mentre istruttori georgiani, polacchi e dei Paesi baltici dirigevano i tiri dei cecchini, sia contro i manifestanti, sia contro la milizia del berkut. La ex Ministro della giustizia ucraina, Elena Lukaš, ha dichiarato la sentenza dovrà essere automaticamente riconosciuta dai 12 paesi, Ucraina compresa (tutte le ex Repubbliche sovietiche, meno i 3 Paesi baltici) che hanno sottoscritto la Convenzione del 1993 sulla difesa e i rapporti legali nelle questioni civili, familiari e penali.

Ma è in ogni caso difficile pronosticare per quanto ancora quegli stessi milioni di euro e di dollari riusciranno a tenere in piedi il regime golpista, tanto più ora che la priorità delle operazioni antirusse occidentali sembra concentrata su scacchieri più meridionali. La situazione economica e sociale è sempre più critica. Sebbene per il Global Sustainable Competitiveness Index del “SolAbility” l'Ucraina sia salita dal 86° al 64° posto, il “Fondo Blejzer”, citato da RIA Novosti, ritiene che il paese non riuscirà a risollevarsi dalle perdite del 17% del PIL subite negli ultimi due anni e sia destinato a diventare il più povero d'Europa, con una crescita del PIL nel 2017 non superiore allo 0,5%. Il politologo Andrej Suzdaltsev pensa che ben presto gli ucraini, col visto o senza, cominceranno a cercare opportunità in giro per l'Europa, ove si verificherà un'ondata di “profughi economici”, privi del diritto al lavoro e quindi ridotti in massa alla schiavitù del lavoro nero. E sarà forse così, ad esempio, per i tremila operai (e i circa centomila lavoratori dell'indotto) della Fabbrica di trattori di Kharkov, una delle maggiori in epoca sovietica, privatizzata nel 2004 e ora in completa dismissione.

Per i sondaggi ufficiali ucraini, il 69% dei cittadini ritiene che il paese vada nella direzione sbagliata e il 30% si attende solo un ulteriore peggioramento della situazione. Secondo il Centro “Parole e fatti”, Petro Porošenko non ha mantenuto i 4/5 dei suoi impegni elettorali, tra cui lotta alla corruzione, miglioramento della situazione economica e la promessa di disfarsi dei suoi affari, quali la “Roshen”, la Banca di Investimenti internazionali, la “Ukrprominvest-Agro”, il “Canale 5” e tutti gli affari offshore. D'altronde, ironizza il politologo Viktor Neboženko, “è un politico o un businessman? La sua situazione politica è tale che qualunque mutamento a favore del paese minaccia il suo potere personale e le gigantesche possibilità di arricchimento”, al pari degli affari dei suoi compari ai vertici di Procura generale, Banca centrale, Commissione energetica nazionale e altri feudi fonte di guadagni.

E' così che si stanno facendo sempre più affrettate e trasparenti le lotte, mai cessate, per fare lo sgambetto ai rivali politico-affaristici e candidarsi all'attenzione degli sponsor occidentali. Ex oppositori quali Vadim Rabinovič e Evgenij Muraev hanno fondato “Vita”, l'ex governatore di Odessa (ed ex presidente georgiano) Mikhail Saakašvili ha creato il “Movimento delle forze nuove” e aL'vov, il centro del centro del nazionalismo e del neonazismo ucraino, Nadežda Savčenko ha tenuto a battesimo la propria piattaforma civile, “Runa” (“Rukh ukraïnskogo narodu”: Movimento del popolo ucraino) che, a detta dei fondatori, si batterà per un mutamento del sistema politico ucraino contando sulla “autentica élite ucraina, non legata alle oligarchie”. Già in ottobre, la Savčenko era stata espulsa dalla frazione parlamentare “Patria”, dell'ex “martire” Julija Timošenko, ma la notizia è balzata alle cronache solo il 15 dicembre, dopo che l'ex correttrice di tiro del battaglione neonazista “Ajdar” si era incontrata coi leader delle Repubbliche popolari, Aleksandr Zakharčenko e Igor Plotnitskij, mentre “Patria” si dichiara categoricamente contraria a qualsiasi colloquio con DNR e LNR. Il 22 dicembre, poi, la Rada aveva escluso Nadežda dalla delegazione ucraina all'Assemblea parlamentare europea e anche dalla Commissione difesa della Rada. Così che lei, per non scomparire dal cono dei riflettori e tenere il piede su due staffe, si affretta a dichiarare che “il popolo sente che l'odierno regime non è meno criminale di quanto non fosse all'epoca di Janukovič”.

Ma è pur vero che “il popolo ucraino” sembra sì prendere le distanze dal “Blocco Petro Porošenko”, ma solo per avvicinarsi a “Patria”, che ha ottenuto il 33,5% dei voti alle elezioni territoriali del 11 e 18 dicembre, giocando sugli slogan della riduzione delle tariffe municipali. “L'insoddisfazione sociale ha raggiunto l'apogeo”, commenta il politologo Ruslan Bortnik, citato dalla Tass, aggiungendo che “Patria” e “Blocco di opposizione” agitano sempre più “l'idea di elezioni anticipate, sia presidenziali che parlamentari, senza attendere il 2019, soprattutto dopo che, con l'elezione di Trump, ci si rende conto che Porošenko sta perdendo l'appoggio dei partner americani” e, probabilmente, anche di Francia e Germania, con i prossimi cambi della guardia presidenziali.

Vagliando il tutto, insomma, par di assistere a una riedizione, in salsa ucraina, del riadattamento del primitivo programma sansepolcrista alla repubblica di Salò, con le potenze “amiche” che giocano il tutto per tutto per sostenere la propria marionetta e gli ex ras che sventolano progetti “sociali” di “lotta alla corruzione” e ai “vertici oligarchici”. Come se ognuno degli esponenti golpisti, dopo aver affamato il popolo per quasi tre anni in nome della “nazione ucraina”; dopo due anni e mezzo di guerra contro il popolo del Donbass in nome della “integrità nazionale”, salvo ora proporre la riforma che rappresentò la scintilla della guerra nel Donbass: lo status nazionale della lingua russa; dopo aver eroicizzato le peggiori espressioni del nazismo vecchio e nuovo, lautamente sponsorizzato dai diversi raggruppamenti oligarchici in lotta tra loro, cercasse oggi di proclamare al mondo che “non ero io quello che ammazzava i civili nel Donbass”, “non era a me che Akhmetov dava i soldi per combattere contro il clan di Kolomojskij”, “non guardate me se qualcuno è stato lautamente pagato da Porošenko e dal Dipartimento di stato per sventolare i denti di lupo e le croci uncinate e scoprire i monumenti a Stepan Bandera”.

Come in ogni regime fascista della storia recente, così anche in Ucraina i gerarchi si sono sempre preoccupati in primo luogo del proprio arricchimento personale, inneggiando al regime, salvo poi tentare la fuga quando non c'era più nulla da arraffare. Di fronte alla profonda crisi di fiducia che il popolo ucraino mostra verso i golpisti; di fronte alle aperte manifestazioni di malcelata insofferenza dello stesso Occidente, costretto a sopportare i “mantenuti” galiziani solo per la loro funzione antirussa, i golpisti di Kiev cominciano a fare alla luce del sole quello che per tre anni hanno fatto sottobanco: la lotta a coltello col rivale in affari, per mostrarsi più adatto del concorrente a continuare recitare la parte del cortigiano devoto ai graziosi signori che siedono nelle cancellerie occidentali.

Chissà come andrà a finire, in un paese in cui il consigliere presidenziale Oleg Medvedev si “scervella” su tuitter se Ded Moroz e Sneguročka (Nonno gelo e Fanciulla della neve: il babbo natale russo e sua nipote) siano da considerarsi parte “della rete spionistica russa” e debbano “sottostare alla decomunistizzazione, in quanto retaggi del periodo sovietico”, oppure siano semplicemente eredità del folklore ugro-finnico, estraneo alla nostra cultura”.

Per ridurre il grado di contrapposizione sociale oggi esistente in Ucraina, scrive la Tass, servirebbe forse la pubblica rinuncia di Porošenko a ricandidarsi alla carica presidenziale; ma, afferma il deputato alla Rada Sergej Leščenko, “è molto dubbio che egli sia pronto a tale passo. Ciò vuol dire che ci aspetta una lotta per il potere che non lascerà pietra su pietra”. Appunto.

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