In un'intervista al canale Fox, Donald Trump, alla maniera del professor Pazzaglia nostrano, ha scoperto che è “meglio intendersi con la Russia, che, non intendersi” e, riferendosi ai suoi rapporti con Vladimir Putin: “Riuscirò ad accordarmi con lui? Non ne ho idea”; ma quando gli sono state ricordate le accuse occidentali contro la Russia e la sua leadership, Trump ha semplicemente replicato "E il nostro paese, allora, non ha colpe?". Gli ha fatto eco indirettamente il Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov che, in un'intervista al settimanale austriaco Profil, ha dichiarato che Mosca è pronta a percorrere la propria metà di cammino per il miglioramento dei rapporti con gli USA, che avevano ricevuto un duro colpo con la precedente amministrazione americana. “Le sue dichiarazioni sulla necessità della creazione di un dialogo normale tra i nostri paesi ispira una certa speranza per sviluppi positivi nei rapporti bilaterali”. Nonostante sia presto, a parere di Lavrov, per delle previsioni sui passi concreti della nuova amministrazione, Mosca si dice “convinta che, ovviamente, in presenza di un reciproco interesse, Russia e Stati Uniti siano in grado non sono solo di fare progressi nella soluzione di questioni bilaterali, ma anche di portare un contributo al superamento dei problemi chiave contemporanei”.
Uno dei quali, tra i più aspri, è rappresentato senz'altro dalla crisi ucraina, a proposito della quale il fatto del giorno (anzi, della notte) è la telefonata Trump-Porošenko. Tra le dichiarazioni, per così dire, scontate, la “necessità del completo cessate il fuoco nel Donbass”. Sulla questione di chi debba cessare il fuoco, il resoconto diffuso dall'amministrazione presidenziale ucraina si fa ovviamente nebuloso, anche se ammette che le parti “hanno prestato particolare attenzione al raggiungimento della pace per via politico-diplomatica”. Nel comunicato della Casa Bianca, si dice che "Lavoreremo con Ucraina e Russia e anche con le altre parti interessate, per aiutarle a riportare la pace sui confini".
E, nonostante le sortite dei giorni scorsi della nuova rappresentante USA alle Nazioni Unite, Nikki Haley, circa la “escalation di violenza” nel Donbass, a causa delle "azioni aggressive della Russia in Ucraina", sembra che Trump, nel colloquio con Porošenko, non abbia mai menzionato la Russia. Anzi, secondo il politologo Aleksandr Kazakov, consigliere del leader della DNR Aleksandr Zakharčenko, non solo Trump avrebbe evitato di lanciare accuse all'indirizzo di Mosca, ma i due presidenti si sarebbero detti “d'accordo” sulla strada diplomatico-negoziale.
Ora, dice Kazakov, Trump avrebbe potuto sostenere esplicitamente Kiev, oppure avrebbe potuto condannare palesemente la “politica orientale” di Kiev, o infine, avrebbe anche potuto “raccomandare” a Porošenko di rimanersene zitto e buono in attesa che i “grandi fratelli” (USA, Russia e forse anche UE) decidano il destino dell'Ucraina. Nelle due prime ipotesi, ci si potrebbe attendere una escalation da parte di Kiev: rispettivamente, o perché “rincuorata” dall'esplicito sostegno, o perché comunque non avrebbe nulla da perdere. Se tra oggi e domani cesseranno gli attacchi e i bombardamenti delle truppe e dei battaglioni nazisti sul Donbass, vorrà dire che Donald avrà “consigliato” a Petro la terza ipotesi e in tal caso, conclude Kazakov, ciò potrebbe essere “l'inizio della fine del progetto dell'Ucraina banderista di majdan”.
Ma si aprirebbe con ciò stesso la strada per altri soggetti? Qualcuno, sembra pensarlo: proprio in questi giorni, dopo un lungo silenzio, è tornato a farsi vivo quel Mikhail Saakašvili che, licenziato anche da governatore della regione di Odessa e annusando ora forse il vento contrario che par spirare dall'Oceano, rivolge l'attenzione al vecchio continente, per ricordare che “l'Ucraina ha salvato l'Europa” dall'esercito “più aggressivo al mondo” e ha quindi diritto di dettare le proprie condizioni. Non più quindi “pregare: per favore non abbandonateci” sentenzia l'ex presidente “NATO” della Georgia; “al contrario, dobbiamo dire all'Europa: dovete fare questo, questo e questo, perché la UE e l'Europa in generale non sopravviverebbero senza l'Ucraina”!
Ma, proprio tirando in ballo la Georgia di Saakašvili e il suo attacco all'Ossetia meridionale nel 2008, respinto nel giro di qualche giorno dalla controffensiva russa, c'è chi si chiede come mai, anche per il Donbass, Mosca non possa mettere l'Ucraina con le spalle al muro. L'acutizzarsi della situazione nel Donbass, scrive Pëtr Akopov su rusvesna.su, solleva di nuovo un'ondata di indignazione nella società russa e non solo per le azioni di Kiev, ma anche per la "lenta e inadeguata" risposta di Mosca. “Se comunque non ci sarà più una riunificazione di Ucraina e Donbass, allora la Russia non potrebbe semplicemente includere DNR e LNR? Non si potrebbero perlomeno colpire le posizioni ucraine lungo il confine con DNR e LNR, per togliere loro ogni voglia di bombardare il Donbass?”. Akopov ricorda come, agli inizi della guerra, i critici di Putin lo accusassero di aver svenduto il Donbass, anche con gli accordi di Minsk, per i propri giochi diplomatici con l'Occidente, mentre avrebbe potuto risolvere tutto, già nell'estate 2014, alla “maniera osseta”. Ma, dice Kazakov, Mosca ha “preso sotto la propria protezione DNR e LNR sin dall'inizio, ma non le ha riunite a sé, perché tutta l'Ucraina è Russia e tutti gli abitanti, a esclusione forse della Galizia, costituiscono un unico popolo russo”.
Dunque, se la Russia combattesse contro l'Ucraina, sarebbe una guerra civile completa”, a fronte della guerra civile attuale “in una singola parte del mondo russo”. Al contrario, sostiene Kazakov, oggi “Kiev teme anche solo tentare di riprendersi il Donbass con la forza, sapendo quale forte colpo di risposta potrebbe ricevere”. Mosca si preoccupa dunque che l'Ucraina non si trasformi completamente in un avamposto atlantico, sapendo che “la gente che vive in Ucraina è gente nostra e le persone che muoiono in Donbass, da ambedue le parti, sono persone nostre e presto o tardi la russofobia dei banderisti sarà sopraffatta dagli ucraini. Per questo” conclude Kazakov, “per il Cremlino non esiste una linea rossa oltre la quale iniziare la guerra con l'Ucraina e l'unica linea rossa passa lungo il confine occidentale ucraino: il confine del mondo russo”.
Un mondo russo di cui scrive anche novorosinform.org, che sarebbe sempre esistito, prima che si cominciasse a disquisire di “piccola Russia”, Bielorussia e “Grande Russia”, con le prime due che non sarebbero più Russia. Prima cioè che, ad esempio, in Polonia, un paio di secoli fa, non si cominciasse a “soffrire” per la Piccola Russia (l'Ucraina) e a “soffrire” per l'Ucraina prima ancora che in quest'ultima si decidesse di “soffrire” e se ne chiedesse l'accorpamento, così come lo chiedeva, per sé, l'impero austro-ungarico… Ma, storia a parte, intanto, a oggi, gli attuali “Bandera”, gli eredi di quel Bandera che settant'anni fa rivendicava a colpi di stragi la propria “ucrainicità” di fronte ai polacchi, in attesa delle “raccomandazioni” di Donald Trump, preparano la mobilitazione generale. Appena due giorni fa, rusvesna.su ricordava che i distretti regionali avevano ricevuto l'ordine centrale di preparare gli appositi elenchi, riservisti inclusi. I prossimi giorni, nel Donbass, potrebbero già essere indicativi delle mosse di Washington.
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