Il primo ministro israeliano Netanyahu ha fatto marcia indietro. Ieri notte, dopo aver annunciato l’accordo con l’Unhcr per il trasferimento di 16mila richiedenti asilo africani in Occidente, ha sospeso tutto nonostante – ricorda il quotidiano israeliano Haaretz – l’intesa fosse stata già firmata.
“Sospendo l’implementazione dell’accordo – ha scritto Netanyahu su Twitter – Dopo aver incontro i rappresentanti, sottoporrò l’accordo ad una riesamina”.
A monte il mezzo incidente diplomatico con i paesi potenzialmente coinvolti: secondo quanto affermato ieri i tre Stati che avrebbero accolto i rifugiati sarebbero stati Canada, Germania e Italia. La Farnesina e l’ambasciata tedesca in Israele, già ieri pomeriggio, avevano negato di aver ricevuto alcuna richiesta, da Israele o dall’Unhcr.
L’intesa prevedeva il trasferimento entro i prossimi cinque anni di 16mila degli oltre 40mila richiedenti asilo africani da anni in Israele, a cui Tel Aviv non ha mai voluto riconoscere l’asilo politico e che ha tentato di deportare. Negli ultimi mesi erano emersi sulla stampa accordi segreti con Ruanda e Uganda che in cambio di denaro avrebbero accettato di ricevere quote di africani, per lo più eritrei e sudanesi. Accordi che le organizzazioni internazionali e l’Onu avevano condannato per i pericoli insiti nella deportazione in paesi non certo sicuri.
La stessa Corte Suprema israeliana aveva bloccato le deportazioni, sentenza che il governo israeliano aveva tentato di aggirare inviando i richiedenti asilo in paesi terzi. Da cui l’idea dell’intesa con l’Alto Commissariato per i rifugiati: Canada, Germania e Italia, aveva detto il premier, non sono paesi “pericolosi”.
Secondo quanto affermato ieri da Netanyahu in conferenza stampa, Israele avrebbe mantenuto sul proprio territorio altri 16mila rifugiati, senza però riconoscere loro l’asilo: sarebbero stati considerati “residenti permanenti”, sarebbero stati trasferiti dal sud di Tel Aviv dove la maggior parte di loro vive e sarebbero stati destinati a luoghi e lavori stabiliti unilateralmente dal governo.
Ora tutto è sospeso. Non solo per le proteste dei paesi coinvolti, apparentemente a loro insaputa, ma anche per quelle del Likud, il partito del primo ministro: diversi suoi membri hanno criticato Netanyahu per aver agito in autonomia, senza averne discusso prima con loro.
La questione dei 40mila richiedenti asilo africani è da tempo inserita in un clima che la destra israeliana al governo alimenta a proprio favore: sfruttando la rabbia dei residenti nel sud di Tel Aviv, Tel Aviv ha lanciato una campagna contro i cosiddetti “infiltrati” – così vengono definiti i rifugiati, sulla base della legge contro l’infiltrazione degli anni ’50 utilizzata contro il diritto al ritorno dei profughi palestinesi – che si è tradotta in aggressioni fisiche, marce razziste e incarcerazioni.
Migliaia di africani sono stati detenuti nel centro di Holot, nel mezzo del deserto del Naqab, fino all’ultima intesa, con Ruanda e Uganda, che dava loro due opzioni: o la deportazione “volontaria” nei paesi africani con in tasca 3.500 dollari o il carcere a tempo indeterminato.
I primi a ricevere gli ordini di deportazione, un gruppo di eritrei, ha rifiutato preferendo una prigione israeliana agli abusi e i pericoli che li attendevano in Africa. Il loro arresto aveva provocato il mese scorso le proteste africane: scioperi della fame nei carceri e fuori marce per chiederne il rilascio immediato.
Il governo aveva anche istituito delle squadre di civili, pagati per individuare migranti illegali e segnalarli alle autorità. Politiche che avevano acceso le proteste di intellettuali, accademici, attivisti e di sopravvissuti all’Olocausto che avevano promesso di nascondere nelle loro case i rifugiati ricercati.
da Nena News
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa