Fare informazione su un conflitto è sempre difficile, perché – come viene sempre giustamente ricordato – in una guerra la prima vittima è la verità.
Nel caso di Israele – stato espansionista e massacratore dei palestinesi – è ancora più complicato perché quello Stato gioca intenzionalmente su una doppia identità: Stato come tutti gli altri, ma anche “Stato degli ebrei” (c’è stata una riforma costituzionale apposita, di recente). Dunque non solo diventa difficile parlarne come un qualsiasi altro Stato, ma non appena se ne criticano le concrete operazioni militari scatta a livello mondiale un fuoco di sbarramento (in primo luogo mediatico, ma con esplicite minacce di ricorrere a mezzi “diversi”) mirante a etichettare come “antisemita” ogni voce critica. Il corollario emozionale è noto e potentissimo, perché il popolo ebraico ha effettivamente subito l’orrore dell’Olocausto per mano nazista. Ma questo orrore è utilizzato dai governi di Tel Aviv come scudo contro qualsiasi critica circostanziata.
Si spiega anche così il mutismo (nel migliore di casi) dei media occidentali davanti alla mattanza nazista messa in atto al confine di Gazaa ogni venerdì, da due settimane, nella “giornata del ritorno”. Un orrore in cui manifestanti palestinesi disarmati (pietre e copertoni di auto!) vengono letteralmente fucilati da cecchini comodamente posizionati in piazzole di tiro, come a una gara sportiva.
Un orrore che non trova condanne altrettanto forti fuori da quel paese, ma che lì dentro – invece, e forse fa ancora più orrore – viene supportato a livello politico e di massa con manifestazioni in cui, esplicitamente e senza alcuna “autocensura”, si incitano i militari ad “ucciderli tutti”.
Tecnicamente è incitazione al genocidio. E l’orrore più grande è che questo sentiment sia esibito da chi, in qualche misura, si ritiene erede delle vittime dell’Olocausto.
Qui di seguito un articolo apparso su mintpressnews.com, gestito da mediattivisti statunitensi che stanno cercando di farne un “cane da guardia” dell’informazione indipendente.
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I massicci raduni e le campagne su Facebook che invocano il genocidio dei Palestinesi vengono ignorati dai media mainstream occidentali e da Facebook stesso, nonostante la preoccupazione e le collaborazioni volte a fermare gli “appelli alla violenza”.
Dallo scorso ottobre, il governo israeliano ha accusato i Palestinesi e i loro alleati di “incitamento alla violenza” contro gli Israeliani, sebbene solo 34 Israeliani siano morti in quel periodo rispetto ai 230 palestinesi. L’aumento della violenza è stato attribuito a un’invasione israeliana condannata a livello internazionale delle terre palestinesi nella contesa Cisgiordania.
La preoccupazione del governo israeliano per le recenti violenze lo ha portato ad arrestare i Palestinesi per i contenuti pubblicati nei social media, poiché porterebbero potenzialmente a crimini. Quest’anno sono stati arrestati 145 palestinesi per “crimini” di “incitamento” sui social media. Questa pratica alla fine ha condotto il governo israeliano e Facebook a collaborare, e lo sforzo per frenare l’incitamento nei social media ha significato al blocco di diversi account Facebook di giornalisti e agenzie stampa palestinesi.
Tuttavia, i social media, così come i principali media occidentali, non hanno condannato l”‘incitamento” israeliano contro i Palestinesi, la cui pratica è sorprendentemente comune, considerata la scarsa o nessuna attenzione che riceve. Spesso questi post, immagini e manifestazioni anti-palestinesi sono pieni di richieste di genocidio, con grida di “Morte a tutta la nazione araba” e “Uccidili tutti”.
Persino il Times of Israel ha pubblicato un articolo su “Quando il genocidio è ammissibile” in riferimento al trattamento riservato da Israele ai Palestinesi. Sebbene alla fine il post sia stato rimosso, indica una mentalità fin troppo comune e pericolosa che i social media, il governo israeliano e i media occidentali “convenientemente” ignorano.
Un’agenzia di stampa israeliana ha perfino messo alla prova l’allora sospetto trattamento preferenziale e ha scoperto che Facebook e le autorità israeliane trattano in maniera differente le richieste di vendetta da parte di Palestinesi e Israeliani.
Anche i grandi raduni che chiedono il genocidio palestinese sono stati ignorati interamente dai social media e da quelli delle corporation. All’inizio di quest’anno, a Tel Aviv si è tenuta una massiccia manifestazione anti-palestinese in cui a migliaia hanno chiesto la morte di tutti gli Arabi. La manifestazione è stata organizzata per sostenere un soldato israeliano che ha ucciso un Palestinese già ferito sparandogli alla testa in una “esecuzione”.
Il soldato Elor Azaria è stato accusato di omicidio colposo per un’uccisione in territorio sovrano palestinese nella città di Hebron.
A Hebron vi è un insediamento ebraico illegale, ma nonostante la sua illegalità è protetto dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF). Ciò ha portato a frequenti scontri tra israeliani e palestinesi nell’area.
Alla manifestazione di Tel-Aviv hanno partecipato circa 2.000 persone e diverse icone pop israeliane hanno intrattenuto i partecipanti, tra cui Maor Edri, Moshik Afia e Amos Elgali, insieme al rapper Subliminal. I canti di “Elor [il soldato] è un eroe” e gli appelli per liberarlo erano frequenti. Una donna è stata fotografata con un cartello con la scritta “Uccidili tutti”.
Un giornalista ebreo presente sulla scena ha osservato che sembrava “più di qualsiasi altra cosa, una celebrazione dell’omicidio”. Nonostante l’evidente animosità e l’incitamento resi evidenti durante il raduno, non è difficile immaginare quale sarebbe stata la risposta se si fosse trattato di una manifestazione pro-palestinese con la richiesta di morte diretta agli ebrei. Il netto divario tra ciò che è ammissibile per i Palestinesi e ciò che è permesso agli Israeliani dovrebbe riguardarci tutti come il fatto che il diffuso pregiudizio dei social media, della stampa e molti governi minacciano di renderci ciechi dalle realtà del conflitto israelo-palestinese.
Traduzione per InfoPal di Bushra Al Said
da Infopal
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