E’ un brutto segnale, prevedibile ma brutto, per qualsiasi paese. Se poi quel paese è lo Stato di Israele con la sua narrazione alla spalle, il fatto assume la valenza di un “segno dei tempi” in cui ci è toccato di vivere.
Il parlamento israeliano, la Knesset ha approvato il progetto di legge sullo “Stato-nazione” – la famosa Clausola 7 b – secondo cui Israele è ebraico in modo “esclusivo” . Il progetto legislativo è diventato legge dello Stato dopo un acceso dibattito parlamentare di otto ore, ottenendo 62 voti a favore e ben 55 contrari. Segno che, fortunatamente, la società politica israeliana non è unanime su questo gravissimo passaggio.
La norma è la quatordicesima “legge base” dello Stato (come noto Israele non ha una Costituzione). In base ad essa, solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione in Israele. Il testo legislativo tocca anche la questione delle colonie, legittimandole: “Lo Stato vede lo sviluppo di insediamenti ebraici come un interesse nazionale e prenderà misure per incoraggiare, avanzare e mettere in atto questo interesse”. Viene inoltre “degradata” la lingua araba, da status di lingua nazionale a “speciale”.
Dal testo definitivo sono state tolte alcune clausole contestate, come la creazione di comunità per soli ebrei, che avrebbe concesso ai residenti di cacciare o respingere gli arabi.
Subito dopo la votazione, il premier Benjamin Netanyahu ha affermato: “Questo è un momento cruciale – lunga vita allo Stato d’Israele”. Durante la riunione parlamentare, Avi Dichter, promotore della legge e capo del comitato per gli Affari esteri e la Difesa, si è rivolto ai legislatori arabi: “Eravamo qui prima di voi, e ci saremo dopo di voi”. Da parte loro, i rappresentanti della minoranza rabo/palestinese hanno strappato il testo della legge come segno di protesta.
Gli arabi israeliani – i palestinesi – rappresentano ben il 20% di una popolazione di nove milioni di abitanti, e sono per la maggioranza di fede musulmana con piccole minoranze druse e cristiane. Nonostante essi godano per legge di pari diritti, i cittadini palestinesi in Israele hanno sempre lamentato di essere sottoposti a discriminazioni ed essere trattati come “cittadini di serie B”.
I palestinesi possono esercitare il diritto di voto, eleggere i loro parlamentari alla Knesset – nelle elezioni del 2015, la Union List, la coalizione arabo-israeliana guidata dal quarantunenne Ayman Odeh, ha conquistato quattordici seggi, diventando per la prima volta nella storia la terza forza politica di Israele – ma sa già in partenza che, comunque vada, non sarà mai rappresentato in un governo, sia esso di destra, di centro o di sinistra, perché prima di ogni altra cosa viene l’identità ebraica dell’esecutivo.
La popolazione palestinese in Israele subisce discriminazioni nella ripartizione dei finanziamenti per i servizi pubblici; ciò significa che la maggior parte delle città a popolazione prevalentemente palestinese ubicate all’interno di Israele ricevono stanziamenti di bilancio decisamente inferiori per la sanità, l’istruzione e altri servizi sociali rispetto alle città a maggioranza ebrea.
Secondo una relazione del 1998 dell’Adva Centre di Tel Aviv, le disparità sociali ed economiche in Israele sono particolarmente evidenti nei confronti degli arabi israeliani. La relazione fornisce alcune cifre illuminanti, ad esempio emerge che il reddito medio dei palestinesi che hanno cittadinanza israeliana è il più basso tra tutti i gruppi etnici del paese; che il 42 % dei palestinesi cittadini israeliani all’età di 17 anni ha già abbandonato gli studi; che il tasso di mortalità infantile tra i palestinesi cittadini israeliani è quasi il doppio rispetto a quello degli ebrei: 9,6 per 1000 nascite contro 5,3.
Selim Joubran, giudice arabo della Corte Costituzionale, ha denunciato quattro anni fa come tra ebrei e palestinesi in Israele “ci sono divari nell’educazione, nell’impiego, nell’assegnazione di terreni per le costruzioni e l’espansione della comunità, scarsezza di zone industriali e infrastrutture, molti errori nei segnali stradali in arabo”.
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Sulla legge approvata in Israele, riproduciamo l’articolo di Gideon Levy comparso sul settimanale “Internazionale” del 19/7/2018.
La legge che dice la verità su Israele
Di Gideon Levy
Il parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato una delle leggi più importanti della sua storia, oltre che quella più conforme alla realtà. La legge sullo stato-nazione (che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei, declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale) mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è. La legge mette fine anche alla farsa di uno stato israeliano “ebraico e democratico”, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno.
Se lo stato è ebraico non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico, poiché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell’origine etnica. Quindi la Knesset ha deciso: Israele è ebraica. Israele dichiara di essere lo stato nazione del popolo ebraico, non uno stato formato dai suoi cittadini, non uno stato di due popoli che convivono al suo interno, e ha quindi smesso di essere una democrazia egualitaria, non soltanto in pratica ma anche in teoria. È per questo che questa legge è così importante. È una legge sincera.
Le proteste contro la proposta di legge erano nate soprattutto come un tentativo di conservare la politica di ambiguità nazionale.
Il presidente della repubblica, Reuven Rivlin, e il procuratore generale di stato, i difensori pubblici della moralità, avevano protestato, ottenendo le lodi del campo progressista. Il presidente aveva gridato che la legge sarebbe stata “un’arma nelle mani dei nemici di Israele”, mentre il procuratore generale aveva messo in guardia contro le sue “conseguenze internazionali”. La prospettiva che la verità su Israele si riveli agli occhi del mondo li ha spinti ad agire. Rivlin, va detto, si è scagliato con grande vigore e coraggio contro la clausola che permette ai comitati di comunità di escludere alcuni residenti e contro le sue implicazioni per il governo, ma la verità è che a scioccare la maggior parte dei progressisti non è stato altro che vedere la realtà codificata in legge.
Era bello dire che l’apartheid riguardava solo il Sudafrica
Anche il giurista Mordechai Kremnitzer ha denunciato invano il fatto che la proposta di legge avrebbe “scatenato una rivoluzione, né più né meno. Sancirà la fine di Israele come stato ebraico e democratico”. Ha poi aggiunto che la legge avrebbe reso Israele un paese guida “per stati nazionalisti come Polonia e Ungheria”, come se non fosse già così da molto tempo. In Polonia e Ungheria non esiste un popolo che esercita la tirannia su un altro popolo privo di diritti, un fatto che è diventato una realtà permanente e un elemento inscindibile del modo in cui agiscono Israele e il suo governo, senza che se ne intraveda la fine.
Tutti questi anni d’ipocrisia sono stati piacevoli. Era bello dire che l’apartheid riguardava solo il Sudafrica, perché lì tutto il sistema si basava su leggi razziali, mentre noi non avevamo alcuna legge simile. Dire che quello che succede a Hebron non è apartheid, che quello che succede in Cisgiordania non è apartheid e che l’occupazione in realtà non faceva parte del regime. Dire che eravamo l’unica democrazia della regione, nonostante i territori occupati. Era piacevole sostenere che, poiché gli arabi israeliani possono votare, la nostra è una democrazia egualitaria. O fare notare che esiste un partito arabo, anche se non ha alcuna influenza. O dire che gli arabi possono essere ammessi negli ospedali ebraici, che possono studiare nelle università ebraiche e vivere dove meglio credono (sì, come no).
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