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Il Grande Gioco sino-pakistano. Ecco perché ci interessa e agita gli Usa

Karachi. C’è un nuovo «Great Game» in Asia che può cambiare gli equilibri mondiali. È il progetto di «Corridoio sino-pakistano», 60 miliardi di dollari in autostrade, ferrovie, porti, terminal petroliferi – che solleva gli entusiasmi nei palazzi del potere di Islamabad, Lahore e Karachi ma anche le preoccupazioni degli americani che vedono in questo piano strategico del presidente cinese Xi Jinping una sfida alla loro egemonia sulle rotte oceaniche e dei rifornimenti energetici.

C’è un nuovo «Great Game» in Asia che può cambiare gli equilibri mondiali. È il progetto di «Corridoio sino-pakistano», 60 miliardi di dollari in autostrade, ferrovie, porti, terminal petroliferi – che solleva gli entusiasmi nei palazzi del potere di Islamabad, Lahore e Karachi ma anche le preoccupazioni degli americani che vedono in questo piano strategico del presidente cinese Xi Jinping una sfida alla loro egemonia sulle rotte oceaniche e dei rifornimenti energetici.

I TONI SONO QUELLI di una svolta epocale. «L’amicizia tra Cina e Pakistan sarà eterna: il corridoio è una pietra miliare nelle relazioni bilaterali e per l’economia di tutta la regione», dice a Lahore nell’antico palazzo coloniale del Raj britannico il governatore del Punjab Mohammad Sarwar, un businessman di successo che prima di rinunciare alla cittadinanza inglese militò con i laburisti e fu anche il primo deputato musulmano del parlamento di Londra.
Non è da meno a Karachi il governatore del Sindh. Siamo nella città natale di Mohammed Ali Jinnah, il fondatore del Pakistan, sorto drammaticamente dalla partizione con l’India del 1947.

«Karachi è una città strategica per pakistani e cinesi, qui passa il 60% dell’economia, il 90% dell’import-export e a Gwadar ci sono i terminali del petrolio saudita e del gas del Qatar», sottolinea Imran Ismail, come Sarwar un altro uomo d’affari nominato dal nuovo premier Imran Khan, il leader del Movimento per la giustizia (Pti) che con le elezioni vinte nel luglio scorso guida «un governo del cambiamento», in alternativa alle tradizionali dinastie dei Bhutto e degli Sharif e in alleanza con partiti radicali musulmani.

Promette lotta alla corruzione e una sorta di welfare state islamico. «Nessun musulmano può dirsi tale se non crede che il profeta Maometto sia l’ultimo profeta», proclama il neo-premier usando gli argomenti dei partiti più radicali.

«Mio marito non è soltanto un politico ma un leader», dichiara la terza moglie di Imran Khan, una sorta di predicatrice sufi che nelle occasioni ufficiali si presenta con il niqab a coprire interamente il volto ma senza nascondere grandi ambizioni.

Centimetri di stoffa che misurano distanze storiche. «In questa università con 44mila studenti venti anni fa solo il 4% delle donne metteva il velo», dice Mohammed Ajmal Khan vice-rettore dell’Università statale di Karachi.

«E QUESTO – AGGIUNGE – lo dobbiamo anche all’influenza di Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita». La quale, naturalmente, come uno dei maggiori finanziatori del Pakistan, è il primo paese che Imran Khan ha chiamato a fare la sua parte nel progetto del secolo tra Pechino e Islamabad.

«Vogliamo lavorare al successo del Corridoio. Manderemo anche dei team in Cina per imparare come si allevia la povertà e si distribuiscono due pasti al giorno ai poveri», questo è il primo tweet inviato dopo la vittoria elettorale da Imran Khan, popolare capitano vincitore del mondiale di cricket nel ‘92.

Non è un caso che l’ex playboy, ormai devoto dell’Islam e che piace anche ai generali – i veri detentori del potere in Pakistan – abbia sottolineato in maniera così clamorosa i legami con la Cina.

«È stato il Pakistan che nel 1972 aprì la strada allo storico viaggio di Nixon in Cina proprio grazie ai nostri buoni rapporti con Pechino.
E ora i cinesi hanno deciso di stanziare 46 miliardi di dollari, il maggiore investimento straniero nella storia del Pakistan: questo significa in maniera concreta di come stanno cambiando gli equilibri internazionali, un messaggio anche per Washington», dice nel suo ufficio di Islamabad Ahmad Chaudry, direttore dell’Istituto di Studi Strategici.

CON GLI STATI UNITI non corre buon sangue. Il presidente Donald Trump non è soddisfatto della mancata collaborazione con Islamabad in Afghanistan e nella lotta al terrorismo, dimenticando che furono proprio gli Stati uniti a volere che il Pakistan usasse i jihadisti, allora chiamati mujaheddin, per sconfiggere negli anni Ottanta l’Unione Sovietica che nel 1979 aveva occupato Kabul. Così Washington ha bloccato 300milioni di contributi alle forze armate pakistane e ora mette i bastoni tra le ruote a Islamabad che per risollevare la sua economia vorrebbe ricorrere ai prestiti del Fondo monetario.

Gli Stati uniti si oppongono perché dicono che questi soldi andranno a rifondere i debiti del Pakistan con la Cina. E quando il segretario di Stato Mike Pompeo il 5 settembre è andato in visita a Islamabad il suo omologo pakistano non è neppure andato all’aereoporto a riceverlo.

LA RIPICCA DI POMPEO è stata una delle visite americane più brevi della storia: si è fermato solo due ore, giusto il tempo per una fugace stretta di mano al nuovo premier.

Sullo sfondo ci sono i rapporti con l’India che occupa dal 1947 metà del Kashmir: Washington in questi anni, anche con i contratti militari, ha palesemente favorito gli indiani. Una tensione perenne tra due Paesi con l’atomica in un’area nevralgica del mondo.

Perché gli americani sono cosi nervosi per l’influenza di Pechino in Pakistan? Il corridoio sino-pakistano è imperniato sul porto di Gwadar con cui la Cina intende aggirare lo Stretto di Malacca, riducendo di oltre 10 mila chilometri e 26 giorni la distanza marittima dagli strategici giacimenti di idrocarburi nella regione del Golfo. Con questo progetto la Cina si sottrae al controllo della marina americana che oggi, volendo, potrebbe chiudere quando vuole i rubinetti del rifornimento energetico cinese.

IL «CHINA-PAKISTAN Economic Corridor» (Cpsc) prevede entro il 2030 una rete imponente di infrastrutture, comprese quelle energetiche, che collegheranno il porto pachistano di Gwadar con la città di Kashgar, nella regione cinese dello Xinjiang, a 3.200 chilometri di distanza.
Gwadar si affaccia sull’Oceano Indiano, sulle rotte del 44% per cento delle importazioni di greggio di Pechino (ma anche del 66% dell’India e del 75% del Giappone). Pechino non ha sbocchi sul Mare Arabico, una spina nel fianco per il paese perché gran parte delle merci in uscita ed entrata via mare devono attraversare l’Oceano Indiano e incunearsi nello Stretto di Malacca per raggiungere i porti del Mar cinese meridionale. Attraverso lo Stretto passano ogni giorno sulle petroliere oltre dieci milioni di barili di greggio.

IL CORRIDOIO FERROVIARIO e stradale destinato a collegare Kashgar con Gwadar cambia drasticamente la situazione: i container potrebbero raggiungere le coste del Pakistan via terra evitando lo Stretto. Oggi una portacontainer impiega 45 giorni dalla Cina al Medio Oriente mentre dal porto di Gwadar ne servono dieci. L’iniziativa si inserisce nella strategia cinese definita «filo di perle» che consiste nel consolidare partnership strategiche con gli stati asiatici piazzando capisaldi lungo una linea marittima che collega il Mar Cinese Meridionale al Golfo del Bengala e poi all’Oceano Indiano e al Mar Rosso. Pechino ha insediato distaccamenti in porti tailandesi e birmani, nello Sri Lanka, in Bangladesh e a Gwadar in Pakistan.

GLI ACCORDI DEL PAKISTAN con la Cina segnalano le profonde trasformazioni in corso nell’ordine mondiale: ecco perché negli Stati uniti il nuovo «Grande Gioco» asiatico viene considerato una sfida diretta alla superpotenza americana.

* da il manifesto

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