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Gaza. Sei palestinesi uccisi dall’esercito israeliano. Intervista a Esraa Elazaaneen

E’ salito a 6 il numero dei palestinesi uccisi ieri dall’esercito israeliano alla frontiera della Striscia di Gaza con Israele. Lo ha confermato il ministero della Salute palestinese a Gaza,

Durante scontri scoppiati in una manifestazione a est del campo al Bureij, nella parte centrale della Striscia, secondo il ministero, sono rimasti feriti 50 palestinesi, come ha riportato l’agenzia di stampa palestinese Wafa.

Qui di seguito l’intervista di Chiara Cruciati della Nena News a Esraa Elazaaneen, animatrice dei team medici che soccorrono le persone colpite durante le manifestazioni del venerdi a Gaza

Esraa Elazaaneen è un’infermiera. Ha solo 23 anni, due in più di Raza al-Najjar, la giovane paramedica di Gaza uccisa lo scorso primo giugno da un cecchino israeliano, colpita al petto da una pallottola. Esraa è la leader del team di infermieri volontari di Beit Hanoun che a ogni manifestazione della Grande Marcia del Ritorno presta soccorso alle decine, centinaia di manifestanti feriti lungo le linee di demarcazione tra la Striscia di Gaza e Israele. Una marcia che prosegue, senza interruzioni, dal 30 marzo scorso e che si sta intensificando: non più solo il venerdì, ma quasi ogni giorno migliaia di gazawi protestano e chiedono la fine dell’assedio e il diritto a tornare nelle proprie terre.

«I campi del ritorno sul confine orientale della Striscia di Gaza – ci racconta – tengono viva l’eredità palestinese, si balla la dabka, si cucina, si parla della migrazione forzata e del diritto al ritorno». Un clima di festa costantemente interrotto dal fuoco israeliano, 193 uccisi e oltre 20mila feriti dal 30 agosto: «Sono state create squadre di paramedici e infermieri volontari, tutti giovani. Ogni team è formato da 25 infermieri di entrambi i sessi, laureati alla facoltà di infermeria e qualificati a fornire servizi medici a chiunque ne abbia bisogno».

«Ci occupiamo del primo soccorso – continua Esraa – Curiamo ogni ferita, blocchiamo le emorragie, fissiamo le fratture, facciamo rianimazione cardiopolmonare e assistiamo chi sta soffocando per l’inalazione di gas lacrimogeni. Ma il nostro lavoro non si limita agli accampamenti: facciamo visita a casa ai feriti per fornire loro altre cure e per insegnare ai familiari come trattarli. Organizziamo incontri per i residenti di Beit Hanoun, sessioni di educazione alla salute e corsi di primo soccorso perché siano pronti a intervenire nelle emergenze».

Pochi giorni fa su Al Jazeera Mohammed Abu Mughaiseeb, medico palestinese e responsabile di Medici senza Frontiere a Gaza, cercava di raccontare cosa sono stati gli ultimi sei mesi a Gaza: «Non ho mai visto niente di simile prima d’ora. Pensavo di aver visto tutto. Come medico viaggio per tutta la Striscia e vedo sempre più giovani sulle stampelle, con tutori esterni alle gambe o in sedia a rotelle. Il loro futuro è nero».

Forse è questa la misura dell’emergenza che l’enclave palestinese sta vivendo. Un’emergenza ormai cronica, costante, impossibile da affrontare con un sistema medico al collasso, senza mezzi né sufficiente elettricità per tenere aperte 24 ore su 24 le sale operatorie. E le ferite fisiche si trasformano subito in un trauma collettivo: «Le ferite non sono diverse in termini psicologici – ci dice Esraa – Tutte quante provocano dolore e spesso disabilità permanente».

Una croce sulle spalle di una terra già disastrata, una repressione “politica”: con il tasso di disoccupazione più alto al mondo, al 43,7% (di cui il 63%, secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, che non ha un’occupazione da almeno un anno), un’età media di 17 anni e due terzi della popolazione con meno di 24 anni, la tenuta socio-economica di Gaza non ha futuro se le nuove generazioni – le più colpite dalla repressioni delle proteste – saranno fisicamente impossibilitate a raggiungere la propria indipendenza economica. Soffocata dall’assedio, da tre offensive militari e ora dal peso insostenibile di oltre 20mila feriti.

I paramedici, dice Esraa, fanno quel che possono ma gli strumenti a disposizione non bastano: «Il nostro team sopravvive con le donazioni individuali di Beit Hanoun. Ma non è sufficiente. La nostra missione è umanitaria e umanitaria è la nostra responsabilità personale. Continueremo a lavorare, ma per dare speranza alla nostra comunità abbiamo bisogno di equipaggiamento. Per questo mandiamo un messaggio fuori, a chiunque possa aiutare la nostra squadra».

Ad attenderli ci sono proiettili veri, ricoperti di gomma, gas lacrimogeni, con i cosiddetti strumenti di dissuasione che si trasformano in armi vere e proprie. Rivolte anche verso chi soccorre: «L’occupazione israeliana non fa distinzione tra paramedici, infermieri, dimostranti. Molti dei feriti sono paramedici, alcuni sono stati uccisi o resi disabili a vita. Ferite che sono la conseguenza della loro attività umanitaria. Ma non è un deterrente, noi non più abbiamo paura».

Nena-News.it

 

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