Dalla fine dell’Unione Sovietica e del campo socialista, è visto come un “dato naturale” acquisito il passaggio dei paesi dell’Europa orientale alle dirette dipendenze di USA, NATO e UE. E però, anche tra le 15 repubbliche che componevano l’URSS, poche sono quelle immuni dalle mire occidentali. Senza considerare quelle più ligie agli ordini del Pentagono, come repubbliche baltiche, Georgia, Ucraina, anche le rimanenti oscillano ostentatamente tra accordi con Mosca e intese con Washington.
Ne è un esempio l’idea del NPS russo (Consiglio nazionale per i pagamenti), sulla creazione di un proprio sistema di transazioni, svincolato da quelli americani, per evitare che possa verificarsi su scala nazionale quanto accaduto nel 2014 con alcune banche russe i cui fondi, legati a Visa e MasterCard, furono bloccati dai server yankee. Ora, se il Ministero delle finanze è favorevole all’idea del NPS e all’introduzione di una moneta elettronica unica per i paesi della EAÈS (Unione economica euroasiatica: Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizija, Russia) che – perduranti le sanzioni occidentali – potrebbe ridurre la dipendenza da dollaro e euro, non altrettanto entusiasmo si manifesta a Erevan, Minsk, Astana o Bishkek.
Si tratterebbe, in soldoni, di qualcosa del tipo del “rublo convertibile” utilizzato a suo tempo negli scambi tra paesi del SÈV – Consiglio di mutua-assistenza economica, o Comecon – che, di fatto, esisteva solo sotto forma di registrazione sui conti bancari e attraverso cui si esprimevano i debiti e le obbligazioni dei paesi e delle singole imprese.
Ora, l’ipotesi è vista da Mosca come una specie di “salvagente” nella prospettiva di più pesanti sanzioni antirusse, che potrebbero prevedere l’esclusione dal SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunications) e il divieto di servirsi di dollaro e euro. Le altre capitali, però, pur non ricorrendo alla vecchia tesi albanese del “rublo convertibile” quale strumento con cui “i capi revisionisti di Mosca dominano i loro satelliti e dettano le linee guida fondamentali dello sviluppo economico”, non fanno certo a gara per legarsi al Cremlino, e Washington e Bruxelles ne approfittano a proprio vantaggio.
L’ipotesi della moneta elettronica virtuale discende dall’idea – avanzata nel 2003 dal presidente kazakho Nursultan Nazarbaev – di una moneta comune tra i paesi dello Spazio Economico Unico (Russia, Bielorussia, Ucraina e Kazakhstan) stante una zona di libero commercio e unione doganale. La proposta attuale rappresenta un compromesso con quella del 2003: non richiedendo un alto livello di unificazione tariffaria e valutaria, permetterebbe di dar vita a un sistema di pagamenti interni svincolati da euro e dollaro.
Tale variante di “rublo convertibile” potrebbe estendersi, oltre che ai paesi della EAÈS, anche a molti di quelli del SNG (Armenia, Azerbajdžan, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizija, Moldavia, Russia, Tadžikistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Ucraina) e, in prospettiva, della SCO (Shanghai Cooperation Organisation: Cina, Russia, Kazakhstan, Kirghizija, Tadžikistan, Uzbekistan) e BRICS.
Il fatto è che, oggi, non tutte le capitali EAÈS valutano al pari di Mosca la positività di una eventuale moneta virtuale. Astana è una di queste e il peso economico e politico del Kazakhstan, tra le ex repubbliche sovietiche, non è certo trascurabile. Dopo la conclusione della convenzione sul mar Caspio, che (teoricamente) esclude ogni altro stato non rivierasco dagli accordi per la sicurezza in quel bacino, rimangono aperte con Mosca diverse questioni sui confini. Il Kazakhstan è l’indiscusso leader economico dell’Asia centrale, con un PIL 8-10 volte maggiore dell’Uzbekistan, secondo paese più grande della regione. Ma principali partner economici del Kazakhstan non sono la EAÈS o la Russia, bensì la UE, verso cui sono diretti il petrolio e i prodotti minerari e metallurgici kazakhi.
Anche la Kirghizija potrebbe esprimere contrarietà all’idea, non foss’altro per l’influenza USA, confermata poche settimane fa con la visita di alti rappresentanti di NSC e USAID a Bishkek, la prospettiva di un nuovo accordo bilaterale USA-Kirghizija, l’incremento dei rapporti con la UE e l’astensione kirghiza (insieme al Kazakhstan) sulla risoluzione antirussa all’ONU per la questione della Crimea.
In campo economico, non sembrano esserci grandi progetti comuni tra Mosca e Bishkek, nonostante lo scorso anno alcune centinaia di milioni di dollari russi fossero affluiti al bilancio kirghizo, e non tutto è lineare nemmeno nella partecipazione kirghiza alla EAÈS. In particolare, ci sarebbero problemi per il contrabbando di prodotti cinesi e il loro smercio verso Kazakhstan e Russia.
Pure da parte uzbeka pare non si manifesti particolare entusiasmo nei confronti delle iniziative di Mosca, come ODKB (Organizzazione per la sicurezza collettiva: nonostante il primo incontro, nel 1992, si fosse tenuto proprio a Tashkent, oggi ne fanno parte solo Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizija, Russia e Tadžikistan) o EAÈS.
Anche i rapporti Mosca-Minsk sono da tempo soggetti ad alti e bassi. Se nessuno ha mai messo in discussione il cosiddetto “Stato unitario” Russia-Bielorussia, sono continui gli attriti economico-commerciali: su controlli di frontiera, importazioni di prodotti alimentari soggetti alle contro-sanzioni russe, prezzo del gas russo, armi triangolate da Minsk, attraverso Sofia, ai ribelli “moderati” siriani.
Ai massimi livelli, tra Minsk e Mosca, oggi si parla meno di “stati fratelli” e più spesso di “partner”. Nonostante le positive prospettive del recentissimo summit Putin-Lukashenko, l’ultima goccia amara sembra rappresentata dai circa 10 miliardi di dollari di introiti sul re-export dei prodotti petroliferi russi che, a quanto pare, Minsk potrebbe perdere da qui al 2024, per l’eliminazione nel 2019, da parte di Mosca, del dazio sulle esportazioni di prodotti energetici.
Il volume degli investimenti russi in Bielorussia si aggira sui 9 miliardi di dollari, mentre si va sempre più estendendo il ventaglio degli investimenti cinesi in macchinari, auto, chimica, armamenti, ecc. Per le prospettive di integrazione russo-bielorussa, poi, Vjaceslav Sutyrin nota con una certa freddezza, su Evrazija.ekspert, come “il cosiddetto “posizionamento neutrale” della Bielorussia venga attivamente rilanciato in occidente e, conclude, “i paesi neutrali non hanno né amici né alleati. Tali paesi non sono uniti a nessuno; nessuno crede loro e loro non si fidano di nessuno. Così che anche la neutralità di Minsk può essere accolta con indifferenza sia a est che a ovest: è ancora fresca la memoria sulla “neutralità” moldava e ucraina”.
Su Svobodnaja pressa, Sergej Aksenov disegna il quadro dei rapporti tra Mosca e i partner EAÈS, sintetizzando che questi ultimi, per lo più, stanno conducendo un gioco a più tavoli con Russia, USA e UE e non hanno intenzione di venir coinvolti nelle sanzioni antirusse. Sempre più aperte sono le concessioni al nazionalismo, da parte delle élite politiche repubblicane: la carta più usata dappertutto dalle strutture angloamericane presenti nei territori ex-sovietici, insieme a quella dell’islamismo, soprattutto nelle repubbliche centro-asiatiche. Attriti dettati dal nazionalismo si sono inaspriti nell’ultimo anno anche tra Russia e Armenia, tradizionale alleato russo nel Caucaso, dopo l’arrivo al governo di Nikol Pashinjan.
In questo quadro, a partire dallo stato degli altalenanti rapporti russo-bielorussi e ai paletti posti da Vladimir Putin nell’incontro con Aleksandr Lukashenko, Sergej Bogatyrev su iarex.ru non usa mezze misure e, con accenti in buona parte da “grande-russo”, striglia l’intera area ex-sovietica ed ex-socialista che chiede aiuto a Mosca soprattutto quando si trova a corto di dollari statunitensi. “Vuoi l’aiuto fraterno dalla Russia?” scrive Bogatyrev, “diventane fratello, parte di essa. Tutto ciò che l’Occidente e le sue marionette imbastiscono attorno alla Russia, le porta solo benefici. La Russia è strategicamente interessata al dialogo con l’Occidente (soprattutto con l’Europa), ma un dialogo tra pari! Parigi, Berlino, Roma, Vienna: con esse Mosca ha di che parlare. Ma tutti gli altri, Ucraina, Moldavia, Baltici, Romania, Bulgaria e gli altri ‘paesi mercenari’ dovrebbero stare al loro posto e non disturbare gli adulti che parlano”.
Per quanto riguarda l’Occidente, che “finanzi pure questi selvaggi e si rallegri della propria “influenza”. La Russia aspetterà. Prima o poi, o i selvaggi ne avranno abbastanza dell’Occidente, o questo si stancherà dei selvaggi. E la Russia, in risposta alle richieste dei selvaggi poveri, offesi e afflitti, allargherà di nuovo i propri confini, ma ciò avverrà alle condizioni di Mosca”, conclude Bogatyrev.
Gli unici confini su cui Mosca non pensa di allargarsi, sembra dire Svetlana Gomzikova su Svobodnaja pressa, paiono quelli delle Repubbliche popolari del Donbass. L’ex procuratrice generale della Crimea e ora deputata della Duma, Natalja Poklonskaja, esorta il Cremlino a concedere la cittadinanza russa agli abitanti del Donbass e a riconoscere DNR e LNR. Con il golpe del febbraio 2014 fu liquidata la Costituzione ucraina e dalle sue rovine, nota il politologo Aleksej Anpilogov, sono emerse tre nuove entità statali che, secondo lo statuto dell’ONU, hanno diritto all’autodeterminazione. Orbene: la Crimea gode di tale diritto; Kiev pure. Anche DNR e LNR hanno stabilito la propria statualità, ma non hanno sinora ottenuto il riconoscimento internazionale.
Con l’aggressione georgiana del 2008, Mosca risolse d’un colpo le questioni dell’Ossetia meridionale e anche dell’Abkhazija, che dal 1993 si trovavano nella stessa situazione in cui oggi si trova il Donbass: riconobbe le due regioni e, oggi, i loro abitanti, possono quantomeno muoversi liberamente in Russia e goderne dei diritti.
L’esponente sindacalista della LNR, Andrej Kočetov, commentando le parole di Vladimir Putin all’annuale conferenza stampa del dicembre scorso, dice che “quando siamo rimasti faccia a faccia con l’esercito ucraino e i battaglioni nazisti, è stata la Russia ad accogliere i nostri rifugiati. È stato grazie agli aiuti umanitari che è stata impedita una catastrofe umanitaria nel Donbass. Naturalmente, tutti speravamo che la Russia prendesse una parte più attiva nel destino delle nostre Repubbliche, accogliendole nella propria compagine. D’altronde, vediamo bene quale pressione venga esercitata sulla leadership russa dai paesi della ‘democrazia occidentale’ e siamo pronti ad attendere e combattere ulteriormente contro il nazismo ucraino, alimentato dall’imperialismo mondiale. Le parole di Vladimir Putin ci ispirano fiducia, anche nel fatto che la Russia non permetterà in Donbass il ripetersi del cosiddetto ‘scenario croato’, quando la popolazione serba della Krajina serba venne massacrata sotto la copertura delle forze internazionali. In questi quattro anni di guerra, ci siamo così allontanati dall’Ucraina, che da tempo ci sentiamo parte, di fatto, della Federazione Russa. E aspetteremo con pazienza che la Russia ci riconosca anche de jure!”. La parola è al Cremlino.
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sergio
sono colpito dalle lucide e direi asettichr analisi