Nel dibattito catalano sul voto europeo, la critica all’austerità imposta da popolari e socialisti alle masse del continente, così come il dibattito sulla quantomeno discutible natura democratica delle istituzioni dell’Unione, sono stati quasi del tutto assenti.
Il silenzio su questi temi si deve in parte al fatto che la CUP non ha partecipato alle elezioni, considerando impossibile riformare dall’interno l’UE; in parte al fatto che i partiti unionisti hanno cavalcato il tema della difesa degli interessi spagnoli in Europa, in chiave anti-secessionista, mentre ERC e Lliures per Europa (la lista di Puigdemont) hanno dipinto la tribuna di Bruxelles come lo scenario sul quale recuperare l’iniziativa perduta in casa. Il voto europeo è stato cosí interpretato in chiave prevalentemente nazionale, anche per la coincidenza con il voto amministrativo, fattore che ha anch’esso contribuito alla crescita della partecipazione (a Catalunya si è passati dal 47% del 2014 all’attuale 64% per quanto riguarda le europee e dal 58% del 2015 all’odierno 64% per le amministrative).
Il dato più evidente che sembra emergere dalla complessa tornata elettorale del 26 maggio è che l’elettorato catalano ha ribadito la maggioranza indipendentista: per quanto riguarda le europee, la lista di Carles Puigdemont è stata la più votata a Catalunya (28%); in seconda posizione si è piazzato il PSOE (22%), tallonato da ERC (21%). Il successo di Puigdemont apre uno scenario che gli avvocati dell’ex presidente della Generalitat studiano da tempo: approfittare dei tribunali europei, che finora hanno lasciato in libertà gli esiliati catalani in Belgio, Germania e Inghilterra, per piazzare Puigdemont nel parlamento di Bruxelles e aprire finalmente una via politica per rispondere alla domanda di cambiamento proveniente dalla Catalunya. Come è scontato, il governo spagnolo si opporrà all’insediamento di Puigdemont nell’eurocamera, aprendo un conflitto che dovrà essere risolto da un giudice europeo. Vedremo se saranno i tribunali dell’Unione a spazzare via definitivamente la fiducia di alcuni settori del movimento indipendentista nelle istituzioni europee; o se invece gli stessi tribunali continueranno a alimentare le speranze nella nascita del nuovo stato catalano sotto l’egida europea, scelta che darebbe fiato alla direzione moderata del movimento indipendentista.
La mossa dell’ex presidente catalano sembra assai complicata, dato che la soluzione meramente repressiva sulla quale si è attestata la Spagna è chiaramente sostenuta dagli alleati europei. Certo è che l’elezione di Puigdemont nel parlamento dell’Unione rappresenta un ulteriore passo nel percorso di un politico che, come è stato detto efficacemente, “è militante del PDCaT, pensa come uno di Esquerra e agisce come uno della CUP”. E forse proprio questo pragmatismo, capace anche di gesti in certa misura radicali, gli ha reso possibile intercettare alle europee parte dell’elettorato di ERC, intenzionato a inviare al cuore dell’UE la faccia più nota del referendum del primo ottobre. Così rispetto alle europee del 2014, il confronto tra la lista attuale di Puigdemont e il partito al quale apparteneva all’epoca (Convergència i Unió) ci consegna una crescita di sette punti percentuali. ERC retrocede invece di due punti ma la somma del voto indipendentista supera il 49% e si attesta a sole tre decime dalla maggioranza assoluta.
Il voto catalano alle europee ha anche segnato un indubbio risultato positivo per il PSOE, che si pone alla testa dello schieramento unionista, risalendo ben otto punti percentuali rispetto al 2014. Su questo versante prosegue la lotta per l’egemonia: la frenata di Ciutadans, sceso dal 21% all’8%, non beneficia il PP, a sua volta passato dal 9% al 5%. E così tra i due litiganti il terzo gode. I poteri forti hanno trovato nel PSOE la migliore garanzia di governabilità: quella offerta da un partito che oltre a non spaventare la borghesia, garantisce la cooptazione nel progetto unionista di segno liberale anche di una parte consistente delle classi popolari catalane.
Per altri versi la sinistra di ascendenza statale, rappresentata da Catalunya en Comú – Podemos, non sembra aver convinto l’elettorato, se è vero che nel 2014 gli ex indignati e Esquerra Unida sommavano il 15% del voto catalano alle europee mentre oggi ne rappresentano solo l’8,5%. Catalunya en Comú – Podemos ha mantenuto il proprio equilibrismo tra indipendentisti e unionisti, senza assumere nel proprio discorso l’esercizio del diritto all’autodeterminazione, scelta che non ha pagato né alle elezioni generali di aprile né alle europee.
Per quel che riguarda invece le elezioni municipali, l’indipendentismo riconferma le proprie posizioni, anche se in questo caso è ERC a affermarsi come primo partito con il 23%, seguita dal PSC con il 21% e dal partito di Puigdemont con il 15%. Il successo di Esquerra sul terreno municipale conferma l’ottimo risultato delle elezioni statali di aprile e evidenzia che la lotta per l’egemonia all’interno del movimento indipendentista è tutt’altro che chiusa. Il dato che fa notizia è la vittoria del candidato di ERC a Barcelona: Ernest Maragall, politico di lunga data, ex socialista passato alle fila repubblicane quando il PSC ha abbandonato il diritto all’autodeterminazione, ha spodestato Ada Colau. La vittoria è emblematica: Barcelona, che non aveva aderito all’Associazione dei Municipi per l’Indipendenza, si scopre a maggioranza indipendentista. Il risultato della Colau però non è affatto disprezzabile, così come quello del PSC, entrambi finiti a ruota di ERC, tanto da complicare assai lo scenario per il nuovo sindaco della città, probabilmente costretto a governare in minoranza, data l’impossibilità di raggiungere un patto tra forze che incrociano il proprio veto. Il risultao di Manuel Valls, appoggiato da Ciutadans e accreditatosi come il rappresentante ideale dell’unionismo liberale è deludente: improvvisamente paracadutato dalla Francia, l’ex ministro socialista ha fallito clamorosamente l’obbiettivo. Ancora più esiguo il risultato del PP, che però conserva due consiglieri. Molto deludente il risultato della CUP, che perde i due consiglieri che aveva e rimane fuori dal consiglio comunale di Barcelona. A Girona si conferma il partito di Puigdemont, già sindaco della città, mentre la seconda forza è rappresentata dalla candidatura costruita dalla CUP assieme ai movimenti sociali; terza forza il PSC seguito da ERC e Ciutadans, mentre il PP rimane fuori dal consiglio. A Lleida ERC strappa il comune al PSC, che invece si afferma a Tarragona. In tutta Catalunya, il PP ottiene un solo sindaco, mentre il popolare Xavier Albiol si afferma a Badalona presentandosi senza l’ingombrante sigla del partito. Ciutadans conferma il dato delle precedenti municipali, rimanendo senza alcun sindaco. Non è il caso della CUP, che elegge il primo cittadino in numerosi centri minori, dove ottiene percentuali lusinghiere, come nel caso di Berga, dove la candidatura della sinistra anticapitalista e independentista ottiene un lusinghiero 40,75%. Se si prendono in considerazione i regidors eletti, ossia i membri dei consigli comunali, la CUP ne ha totalizzati ben 335 su tutto il territorio catalano, quarta forza preceduta dal PSC con 1.315 eletti, Junts per Catalunya con 2.798 e ERC con 3.107. Peggiori i risultati di En Comú – Podemos, con 258 regidors, Ciutadans con 244 e il PP con 67 eletti.
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