Nancy Fraser è una filosofa e teorica femminista statunitense. Si è occupata di filosofia politica ed etica normativa. Insegna scienze politiche e sociali a New York. Ha scritto insieme a Axel Honneth “Redistribuzione o riconoscimento?” un importante testo di filosofia politica contemporanea. Di recente ha pubblicato insieme a Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya Femminismo per il 99%. Un Manifesto (Laterza).
Tutta l’intervista è interamente sottotitolata.
Prima parte.
Seconda parte
Il testo completo:
Innanzitutto grazie di essere con noi.
Grazie a voi.
Per iniziare, potresti dirci qualcosa riguardo al tuo percorso politico e intellettuale? Quali sono state le tue esperienze formative?
Certo. Sono una sessantottina, cresciuta a Baltimora, nel Maryland, che è una città in cui vigevano le leggi Jim Crow, leggi di segregazione razziale. L’esperienza politica formativa della mia gioventù è stata la battaglia per la desegregazione – che è un classico percorso della new left. Ho fatto parte del movimento per i diritti civili durante le scuole medie e superiori. All’università, bhe anche prima di iniziarla, ho partecipato al movimento contro la guerra in Vietnam, nell’ala di sinistra, anti imperialista, poi agli Studenti per una Società Democratica (SDS) ed infine il femminismo e così via. Durante questo percorso sono diventata una marxista non ortodossa e ho fatto attività politica per un po’ dopo aver terminato l’università. Poi ho deciso di tornare all’università per un dottorato in filosofia, ma ho portato con me la mia nuova visione di sinistra e devo dire che non penso che il mio impegno e i miei valori fondamentali siano cambiati dagli anni ‘60 ad oggi. Poi ho iniziato a lavorare sulla democrazia, i diritti sociali, il multiculturalismo, la redistribuzione, il riconoscimento, la critica al capitalismo, la teoria femminista, ecc.
Oggi sei a Bologna per presentare ‘Femminismo per il 99%: un manifesto’. Qual è lo scopo del manifesto e a chi è rivolto?
Penso che sia rivolto a un pubblico eterogeneo. Il caso più ovvio è rappresentato da chi è già coinvolto o interessato al femminismo e a quanti si stiano proponendo un cambio di direzione, una rottura con il femminismo liberale mainstream e una svolta verso un femminismo che sia davvero anticapitalista e di sinistra.
Allo stesso tempo ritengo che stia raggiungendo un pubblico di lettori più ampio a sinistra, anche tra correnti di pensiero e attivisti di sinistra per i quali il femminismo potrebbe non essere la prima priorità, che potrebbero essere più interessati all’ecologia, al socialismo, o a qualunque altra cosa, ma che trovano che questo possa essere un modello per organizzare qualunque altro loro interesse in maniera consapevolmente anticapitalista e che guardano alla formazione di una più ampia alleanza a sinistra tra tutto l’insieme di movimenti anticapitalisti. Vedremo. Penso che i lettori includano attivisti ma il libro è stato anche utilizzato nelle università in alcuni corsi di femminismo e di gender studies, cose di questo tipo. È difficile da dire, ma penso che il pubblico di lettori sia ampio ed eterogeneo.
Stiamo assistendo ad un forte attacco ai diritti riproduttivi delle donne: la legge approvata in Alabama è un esempio, in Italia osserviamo la stessa tendenza. Cosa credi ci sia dietro questo genere di attacchi?
È interessante. Immagino che la maggior parte di questi attacchi venga dal populismo etnico nazionalista di destra che negli Stati Uniti è Trump, il trumpismo e alcune forze a cui ha dato potere. Dall’altra parte anche la lunga tradizione di attacco ai diritti e alle libertà riproduttive che negli USA sono stati associati in particolare con il movimento cristiano evangelico e naturalmente con la chiesa cattolica, ma negli Stati Uniti penso si tratti più dagli evangelici che dei cattolici. Queste forze supportano Trump e sono diventate parte della sua coalizione nonostante il suo orientamento, diciamo, non sia esattamente cristiano…voglio dire, dice di ‘afferrare le donne dalla figa’ e così via. Ma queste forze vedono un’opportunità e lui sta nominando giudici e persone alla magistratura che sono impegnate in una politica antiabortista. In Italia non so, credo che la Chiesa Cattolica giochi un ruolo importante, ma magari con Papa Francesco è un po’ diverso.
Non molto diverso rispetto all’aborto, temo. Penso sia una combinazione tra la chiesa e certamente anche il governo di destra che sta utilizzando idee come la famiglia tradizionale come fondamento, il che implica anche il rifiuto di vari diritti ottenuti negli anni Settanta del Novecento
Quindi c’è qualcosa di simile agli Stati Uniti.
D’altra parte negli ultimi anni stiamo anche assistendo ad una potente mobilitazione del movimento femminista, una nuova ondata. Qual è la tua valutazione di questa ondata di proteste femministe nel mondo? Che prospettive vedi?
Direi anzitutto che sullo sfondo dell’emergere di questa nuova ondata femminista – e presumo tu stia parlando solo degli ultimi due anni, di questa cosa molto nuova – sullo sfondo c’è prima di tutto una grande crisi sociale. È una crisi dell’economia, dell’ecologia, dell’ordine politico, della riproduzione sociale e in questa crisi la vecchia egemonia neoliberista è gravemente indebolita e incrinata.
Molte persone non credono più nel senso comune neo-liberalista e non credono che il mercato da solo produrrà per loro una vita migliore, non credono che il libero scambio possa migliorare la loro vita, che se i ricchi diventano più ricchi questo abbia effetti positivi per loro, eccetera. Quindi c’è una rottura nel normale pensiero liberalista dominante e che si estende anche al femminismo liberale, almeno negli Stati Uniti e in molti paesi europei e latini americani. Il femminismo liberale è stato in effetti riassorbito in quella che io definisco una progressiva alleanza neoliberista con le forze della finanziarizzazione, della deindustrializzazione e della liberalizzazione dell’economia.
Quindi, il femminismo si trova in una impasse, nella misura in cui è agganciato ai neoliberisti in questa alleanza neoliberale progressista. È nei guai. Direi che la sconfitta di Hillary Clinton nelle elezioni del 2016 è una sorta di evento paradigmatico, perché la Clinton è la faccia pubblica del femminismo liberale negli USA, a Wall Street e così via. È un grande indicatore dello stato problematico del femminismo liberale. Mentre la gente perde fiducia nell’ordine prestabilito e va alla ricerca di un’alternativa, c’è un processo naturale di radicalizzazione sia a destra sia a sinistra. A sinistra ci sono persone che hanno in passato seguito la via femminista liberale e hanno capito che non è più percorribile, ora cercano un altro tipo di femminismo, un femminismo di sinistra.
In più io parlo della crisi della riproduzione sociale, che in questo momento è molto acuta perché l’attuale forma del capitalismo recluta in maniera massiccia le donne nel lavoro salariato. Allo stesso tempo abbiamo salari declinanti, lavori più precari e la gente deve fare più ore di lavoro salariato per mantenere una famiglia. Questo significa che c’è meno tempo per il lavoro di cura e per le attività familiari. Allo stesso tempo questa forma di capitalismo finanziario preme sugli stati affinché taglino la spesa sociale, quindi c’è un ritiro di quei servizi pubblici che hanno sostenuto la riproduzione sociale. C’è un attacco su due fronti alla riproduzione sociale. Dal fronte del reclutamento delle donne nel mercato del lavoro con la necessità di più ore di lavoro e a volte di più lavori allo stesso tempo. Dal fronte del taglio dei servizi sociali e dei beni pubblici di riproduzione sociale. Questo è un durissimo attacco alla riproduzione sociale e rende la questione stessa della riproduzione sociale molto urgente, centrale.
C’è poi un ulteriore elemento: la crisi dei sindacati nei settori tradizionali manifatturieri. La demoralizzazione dello storico movimento dei lavoratori porta a una posizione di debolezza. È interessante che in un certo senso le lotte per la riproduzione sociale stiano diventato la punta avanzata in molti paesi. Questo mette le donne e il femminismo al centro. È un misto di tutte queste cose: la rottura dell’egemonia neoliberale, l’impasse del femminismo liberale, la ricerca di un femminismo di sinistra, la centralità della riproduzione sociale come punta avanzata della lotta per trovare una soluzione alla crisi attuale. Io penso che tutto questo stia portando alla ribalta la radicalizzazione di molte donne. È interessante notare come stiano entrando in massa nel movimento molte donne che non era politicamente attive o particolarmente femministe.
La crisi della riproduzione sociale, che tu hai chiamato anche una crisi della cura, pensi sia risolvibile in tempi brevi, persino all’interno del capitalismo? Voglio dire, lasciando per un attimo da parte il fatto che dovremmo uscire dal capitalismo per risolvere la crisi della cura, pensi che il capitalismo abbia gli strumenti per farlo?
È una domanda difficile. Il capitalismo può risolvere la crisi del lavoro di cura?
Ho due idee su questo. Uno è che nel corso della sua storia secolare il capitalismo si è dimostrato piuttosto creativo, capace di riformarsi, di ristrutturarsi. Il capitalismo laissez-faire liberale del 19esimo secolo aveva già a sua volta provocato una crisi acuta della riproduzione sociale che è stata risolta con una nuova forma di capitalismo – chiamata social-democratica o capitalismo a gestione statale – che affidava allo stato il lato della riproduzione sociale e gli dava la responsabilità di forzare – per così dire – il capitale a fermarsi nell’attacco feroce alla vita familiare e così via. Sto parlando della metà del ventesimo secolo. Il capitalismo non è stato in grado di risolvere il problema definitivamente, piuttosto di abbassare momentaneamente la tensione e arrivare a un compromesso. Ora, ovviamente, la forma del capitalismo finanziarizzato neoliberale ha eroso il precedente accomodamento social-democratico e ci ha riportato in una crisi acuta.
Il capitalismo è in grado di riformarsi ancora? Non penso si possa dire di no in maniera assoluta, ma ora è piuttosto difficile vedere una via o un accomodamento. Per come la vedo io, una ragione di questo è che il capitalismo ha dentro di sé una tendenza profonda alla crisi della riproduzione sociale. Questa crisi non è sempre acuta, come nel caso della social-democrazia può essere più o meno attenuata, però è sempre presente. Penso che sia una caratteristica intrinseca della società capitalista, collocata nel fatto che per definizione una società capitalista è una società che separa l’ambito dell’economia ufficiale monetizzata del lavoro salariato – quello che chiamo produzione economica o produzione di beni per profitto – dalla sfera della vita familiare, domestica e di comunità in cui le persone si impegnano in una serie di attività non monetizzate, come dare alla luce e accudire i bambini, l’educazione, la socializzazione dei nuovi lavoratori all’interno del sistema, il mantenimento dei legami sociali, fornire cibo, vestiario, riparo e cose del genere.
Quindi abbiamo un sistema che istituisce una divisione piuttosto netta tra due serie di attività, due aree: uno monetizzato coordinato attraverso il mercato, l’altro non monetizzato e coordinato in una maniera più informale; e il secondo è il regno dell’affetto, dell’amore, dell’intimità, della vita personale, ecc. ecc.
Ora, il problema è che l’economia capitalista si basa su questa sfera non monetizzata come una condizione di fondo che rende possibile l’esistenza del settore del lavoro salariato e del settore del profitto.
Non si potrebbero avere il lavoro salariato e il suo sfruttamento, l’accumulo di plusvalore, non si potrebbe avere nessuno dei processi principali della storia dell’accumulazione di capitale se non fossero state disponibili scorte di lavoratori e lavoratrici che sono portatori di quella strana merce che è la forza lavoro.
Non si potrebbero avere senza uno spazio in cui i lavoratori possano andare a nutrirsi e riposarsi per riprendere le forze, in modo che possano tornare al lavoro il giorno dopo.
Non si potrebbero avere senza un posto che garantisse la produzione e la socializzazione di una nuova generazione di lavoratori per sostituire quella che sta invecchiando.
Quindi, questa sfera di riproduzione sociale è una condizione di base indispensabile per un’economia capitalista, ma non è monetizzata, perché viene trattata come una sfera separata.
Il capitale cerca di non pagare per questo lavoro, non gli accorda alcun valore, l’unico valore che riconosce è il valore monetizzato, il valore di scambio.
Quindi, il capitale cerca sempre di non pagare per il lavoro riproduttivo sociale, o nella misura in cui paga qualcosa, paga il meno possibile, ma questo significa che è sempre a rischio di destabilizzare questa sfera, opera da free rider: prende ciò di cui ha bisogno e non presta attenzione alla sostituzione e al reintegro di tutte le energie delle forze sociali, ovvero degli esseri umani, le cui capacità vengono sfruttate. E c’è una tendenza verso le crisi del lavoro di cura o della riproduzione sociale intrinseca al capitalismo, e ogni volta che hai una forma di capitalismo relativamente deregolato, come quella che abbiamo ora, vedi davvero questa dinamo dell’accumulazione che non fa altro che succhiare il tempo e l’energia delle persone dalla sfera della riproduzione sociale, senza restituire nulla.
Vediamo questa crisi emergere nella sua forma acuta. Ma, come ho detto prima, può essere temporaneamente attenuata, come nel caso della socialdemocrazia, anche se questa tendenza è sempre lì e penso che ciò significhi che qualsiasi società capitalista avrà sempre un grosso problema con la riproduzione sociale. Il motivo per cui dico di essere scettica sul fatto che oggi il capitalismo possa trovare una soluzione è che, a causa del grado di globalizzazione dell’economia, è molto difficile immaginare qualsiasi forma di keynesismo all’interno dello stato territoriale nazionale: a causa della corsa al ribasso, dell’intensa competizione tra stati per gli investimenti, per la pressione per tagliare le tasse sulle aziende, tasse che sono necessarie se vuoi finanziare il sostegno statale per la riproduzione sociale.
E hai queste “catene globali della cura” nelle quali le donne più privilegiate nei paesi più ricchi sono in grado di scaricare il lavoro di cura, che prima pesava su di loro, sulle donne più povere, di solito migranti o comunque donne discriminate per la loro razza.
Quindi, le donne più privilegiate possono lavorare in lavori dirigenziali e professionali, per cui possono dedicare lunghe ore a professioni molto impegnative, perché hanno queste donne straniere e precarie a basso reddito, senza diritti di lavoro e in condizioni lavorative molto difficili. Questo non risolve la crisi dell’assistenza, ma la scarica dagli strati più privilegiati della società a quelli meno privilegiati, perché, naturalmente, le assistenti alla cura che sono più povere hanno già le loro responsabilità di assistenza verso le loro famiglie, e devono riuscire in qualche modo a trovare qualcuno che se ne prenda cura, da cui le cosiddette “catene globali della cura”: ognuna scarica il suo lavoro di cura su un’altra persona meno privilegiata in giro per il mondo, attraverso la migrazione di donne straniere per svolgere questi lavori. [Risolvere il problema della cura per il capitalismo] Significa che si dovrebbe in qualche modo affrontare con un problema globalizzato, si dovrebbe affrontare le migrazioni… È molto difficile immaginare quale sarebbe una soluzione dal punto di vista capitalista, e anche se ce ne fosse una, non sarebbe una soluzione permanente, ma una limitata, temporanea, che stabilizzerebbe le cose forse per un decennio, fino a quando non si disfa e la tendenza alla crisi riprende forza.
Ora negli Stati Uniti c’è il governo di Trump. In Italia, come sai, c’è questo governo xenofobo di destra. Quindi, il problema per la sinistra è fondamentalmente: come possiamo opporci a questi governi senza allo stesso tempo sostenere l’establishment neoliberale che li ha preceduti? È questa la sfida, no?
Sì, è una grande sfida: consiste nel provare a creare una terza opzione per le persone. Non vogliamo tornare al neoliberismo in nessuna sua forma, e certamente non al neoliberismo progressista, che è in effetti responsabile, ha creato le condizioni che hanno permesso il rilancio di Trump, di Salvini, di tutti le varie forze di destra in tutto il mondo. Questa ondata di energia di destra è una risposta alla crisi creata dal neoliberalismo progressista, dai governi del centro-sinistra in tutto il mondo, che in realtà hanno consolidato il capitalismo finanziario e lo hanno lasciato scatenarsi in tutto il mondo.
Quindi abbiamo due opzioni molto sgradevoli, da un lato il populismo di destra che si presenta come a favore della classe lavoratrice, ma che ha una visione molto ristretta della classe lavoratrice come fatta di uomini bianchi, europei che lavorano nelle industrie manifatturiere, e che non riconosce gli immigranti come parte della classe lavoratrice, non riconosce il lavoro produttivo come lavoro, non riconosce le donne come parte della classe lavoratrice, e così via. Quindi questa è un’opzione pessima, dovrei aggiungere che quest’opzione non offre poi una risoluzione ai problemi a cui sostiene di rivolgersi, sostiene di aver l’intenzione di affrontare i problemi dei settori manifatturieri, sostiene di offrire lavoro sicuro e di salari alti, ma la realtà è che quest’opzione non ha le soluzioni a questi problemi che dichiara di poter risolvere. Trump, ad esempio, non ha fatto assolutamente niente per creare questi nuovi posti di lavoro che aveva promesso alla gente. Quindi non solo è un’opzione pessima ma anche impraticabile.
L’altra opzione invece è quella dei liberali, offerta in tutto il mondo dalle forze di centro-sinistra. E loro dicono “non vedete quanto sono terribili Trump e Salvini, non vedete che ci sono i fascisti alle porte, che ora non è il caso di tentare qualcosa di radicale, dovete tornare con noi, per serrare i ranghi con noi, lasciate che vi proteggiamo noi, noi siamo i liberali che vi proteggono dai fascisti.” Quest’analisi è completamente sbagliata perché, come ho detto prima, sono quei liberali che hanno creato le condizioni che hanno permesso l’ascesa della destra. In secondo luogo, il fascismo non sta alle porte, quantomeno sicuramente non lo è negli Stati Uniti. Detto ciò, capisco che in Italia la destra attuale abbia dei legami col fascismo storico, e ci sono dei, diciamo, gesti ritualizzati verso ciò, questo lo capisco, e non sono nella posizione di sapere esattamente com’è la situazione qua, sono qua da solo due giorni, quindi lascerò a parte per un momento l’Italia, ma sono certa che sarebbe sbagliato usare la parola fascismo per parlare di una minaccia imminente negli Stati Uniti, nel Regno Unito, nella Francia, nella Spagna, nei paesi dell’America Latina, ad esempio.
Quindi penso che ancora ci troviamo davanti a una situazione molto aperta, dove ci sarebbe lo spazio e il tempo per sviluppare un’alternative che si opponga a entrambi le opzioni, sia quella, come la chiamiamo noi, “alt-right”, destra ethno-nazionalista xenofobica – che tra l’altro è comunque neoliberale al midollo, come ho detto, non offre un’economia politica genuinamente pro-classe lavoratrice – questa dobbiamo rifiutare da un lato, e dall’altro dobbiamo rifiutare il ritorno a un neoliberalismo progressista. Quindi penso che la strategia che dovrebbe intraprendere la sinistra sia di rifiutare entrambi.
E vedo il femminismo per il 99 per cento come una corrente di una sinistra più ampia, è una corrente interessata specialmente ad assicurare che le questioni di genere vengano affrontate dalla sinistra più ampia, che queste questioni non vengano occultate come invece è successo talvolta con i movimenti del passato. Quindi il femminismo per il 99 per cento, in quanto una corrente di una sinistra più ampia, dovrebbe unirsi alle altre correnti di questa sinistra per pensare a come costruire un nuovo blocco egemonico.
E la mia idea, il mio suggerimento, consiste nel tentare di creare fratture in entrambi i blocchi esistenti. Con ciò intendo che dovremmo cercare di staccare, per quanto possibile, quella parte della classe operaia tradizionale che si è avvicinata alla destra. Io credo che una parte non marginale dell’appoggio a Trump derivi da persone che non sono razzisti per principio, razzisti convinti. Si può dire che sono opportunisticamente razzisti, ma non sono razzisti per principio. Sono disposti a votare un razzista nel caso che non ci sia nessun’altro che parli alla loro situazione, che offra una visione politica indirizzata a risolvere i problemi della de-industrializzazione, del declino dei salari reali, della precarizzazione del lavoro, del fatto che la promessa che fu fatto loro che ci sarebbe stata una vita migliore per i loro figli non è stata mantenuta – questa promessa non sarà mantenuta e loro lo sanno benissimo.
Quindi penso che se ci sarà un’alternativa di sinistra che parla a queste persone sarà possibile staccarle dal blocco di destra e portarle dalla nostra parte. Vi posso dire, ad esempio, che qua negli Stati Uniti, otto milioni e mezzo di persone in quegli stati che hanno dato a Trump la presidenza – Michigan, Wisconsin and Pennsylvania, il cuore industriale del paese che sta subendo una crisi gravissima di de-industrializzazione, ci sono tassi di dipendenza dagli oppioidi altissimi – in questi stati, otto milioni e mezzo di persone avevano votato precedentemente Obama, nel 2008 e di nuovo nel 2012 quando Obama ha copiato la retorica del movimento ‘Occupy Wall Street’ e fatto campagna da sinistra. Chiaramente appena in carica tutto questo è sparito nel nulla, però aveva fatto una campagna da sinistra e questi lo hanno votato. E molti di loro hanno anche votato per Bernie Sanders alle primarie del partito democratico e quando Sanders ha perso la nomination del partito democratico in favore di Hilary Clinton, questo è stato il momento in cui loro sono passati a Trump. Dimostra che se hanno un’alternativa di sinistra, che risulta credibile e con possibilità di successo, potrà essere possibile riconquistare il loro appoggio. E credo sia anche il caso, ad esempio, nell’UK con la Brexit, che è sviluppata come una forza con sottofondo di xenofobia e sentimento anti-migranti, ma che ha visto allo stesso tempo anche quelle parti del Partito Laburista nel nord industriale, o meglio, de-industrializzato, optare per l’uscita dall’Unione Europea, parti che però al contempo rimangono sostenitori ferventi di Jeremy Corbyn. Quindi la situazione è volatile, ci sono due direzioni in cui può andare. In aggiunta a questo, in Francia ci sono gli elettori, tradizionalmente di sinistra, che sono andati a votare Mélenchon al primo turno ma poi hanno votato Marine Le Pen al secondo quando Mélenchon non c’era più.
Questi esempi ci dimostrano che c’è una volatilità nella popolazione, nella classe operaia tradizionale, che vorrebbe far parte di un progetto antiliberista. Se questo progetto non viene offerto dalla sinistra voteranno i razzisti. Ma questo non vuol dire che queste persone siano irrimediabilmente razzisti, ci sono dei razzisti irrecuperabili nelle forze che appoggiano Trump, che non possiamo conquistare e con cui non vogliamo neanche parlare, ma questo gruppo può essere riconquistato.
Quindi questa è la prima cosa da fare, spaccare in due il movimento populista reazionario. E poi bisogna fare la stessa cosa con il movimento neoliberale progressista, bisogna riconquistare le forze che sono state egemonizzate dai neoliberali, riconquistare quelle porzioni del movimento femminista, del movimento ambientalista, dal movimento LGBTQ, e del movimento antirazzista, che sono state risucchiate dal neoliberalismo tramite politici come Obama e Hilary Clinton. Molti di loro possono essere riconquistati, loro sanno di essere in crisi ora.
E, penso che se si potesse prendere qualsiasi forza sia già esistente nella sinistra – e forse ce ne sono alcune che non sono molto forti in US – ma se si potesse prendere quelle forze e compattarle, allora si potrebbe significativamente formare una sorta di terza forza, che possa interrompere la logica distruttiva di oscillare tra, nel vostro caso, Renzi e Salvini, o Obama e Trump, Clinton e Trump.
E questo è un circolo vizioso nel quale una parte è causa dell’altra e la rafforza, sono rivali e oppositori l’una dell’altra ma si rafforzano a vicenda.
Questo è in poche parole il tipo di strategia politica che io vorrei proporre.
Un’altra problematica che sta diventando molto importante, anche nei mesi recenti è il problema ambientale /ecologico; abbiamo visto una ondata di mobilitazione, ma abbiamo ancora una volta una combinazione di un certo tipo di ecologisti neoliberisti e altri ecologisti più radicali. Come può un movimento di sinistra portare avanti una strategia che includa anche la tematica ecologica?
Penso che il problema ambientale debba essere un argomento centrale per qualsiasi mobilitazione di sinistra oggi. Il cambiamento climatico è una crisi grave e urgente. Non abbiamo più molto tempo. E, qualsiasi sia la sua forma, è davvero improbabile che il capitalismo possa essere in grado risolvere il problema del cambiamento climatico, sia in grado di salvare il pianeta, di assicurarci l’aria da respirare, acqua da bere e che noi possiamo avere terreni da cui trarre nutrimento e così via.
È lo stesso tipo di problema che ho appena descritto per la riproduzione sociale. C’è una profonda tendenza, strutturalmente insita nel capitalismo, alla crisi ambientale. Ha la stessa logica. Il capitale ha bisogno delle risorse primarie su cui opera il lavoro umano, delle risorse naturali che il nostro lavoro trasforma per soddisfare i nostri bisogni; ha bisogno di energia, di materie prime e minerali. [Il capitalismo] Ha bisogno di tutte queste cose e cerca di pagare il meno possibile per queste materie prime e non paga assolutamente nulla per ricreare ciò che prende dalla Natura; non paga nulla nemmeno per riparare all’enorme danno che infligge alla Natura. Ci sono zone degli Stati Uniti dove puoi vedere con i tuoi occhi i disboscamenti sulle montagne, le cave a cielo aperto. È un incredibile aggressione alla Terra e di certo noi sappiamo che lo sviluppo di quello che Andreas Malm chiama ‘capitalismo fossile’ ha fatto sforare il limite delle emissioni di carbonio. Siamo andati oltre il limite della capacità di assorbimento di carbonio dell’universo, la capacità di assorbire CO2.
Così, questo è un altro esempio in cui un sistema [capitalistico] agisce da free rider sulle condizioni che ne permettono lo sviluppo e non riesce a pagare il costo per ricreare quanto ha preso. Questa è una contraddizione molto simile [a quella della riproduzione sociale] ed è una contraddizione molto seria e come ho detto è difficile immaginare un capitalismo che possa davvero porre rimedio alla situazione. Ci vorrebbe un livello molto alto di tassazione ed è difficile immaginare che le corporation siano desiderose di pagare il conto. Si dovrebbe infatti portare a termine la completa “de fossilizzazione” dell’economia, promuovere uno spostamento sulle sorgenti di energia rinnovabile; è difficile immaginare che il capitale accetti, dato quanto ha investito in petrolio, carbone e gas naturale, ecc.
Penso di dover anche dire che, hai ragione, siamo di nuovo davanti a due blocchi: il blocco della destra populista e il blocco progressista neoliberale.
A destra in particolare siamo di fronte ad un ‘negazionismo climatico’: è possibile ascoltare stupefacenti slogan come “Il cambiamento climatico è una bufala, ma la minaccia musulmana è reale”. Sono dichiarazioni sbalorditive che vengono dalla destra. Quindi da quel lato troviamo un negazionismo totale.
E nell’ala neoliberale progressista c’è questa idea che, sì, c’è il cambiamento climatico e che noi dobbiamo fare qualcosa, ma che il mercato può risolvere il problema; creerà dei piani di gestione del carbonio; commercializzerà servizi “eco sostenibili”; creerà un mercato di compensazione dove ciascuno può piantare una serie di alberi da una parte e vendere questo sistema che non emetta carbonio a una industria dall’altra parte del mondo dove ci saranno emissioni di carbonio, come se queste cose potessero produrre qualcosa che lasci il mondo così com’è.
Questo è una truffa; è un’altra operazione finalizzata a fare un sacco di soldi che non sta facendo assolutamente nulla per de-fossilizzare la nostra economia.
Queste due proposte assolutamente assurde e non funzionali da queste due fazioni ancora una volta ci lasciano con il profondo bisogno di una sinistra alternativa e anticapitalista.
E penso che un punto di partenza per un movimento del genere dovrebbe essere qualcosa come una tassa globale sul carbonio, una tassa che sia a carico delle aziende e che potrebbe incominciare a creare un fondo globale per la conversione dell’economia alle rinnovabili.
Vedo dunque lo stesso problema, ossia la necessità di dividere il movimento ambientalista per conquistare queste parti che non sono legate a doppio filo alla soluzione del mercato, che possano cominciare a capire che questo è un problema che il mercato capitalista non può risolvere e tutte queste soluzioni altamente tecnologiche – che provvederebbero a perforare la terra nei luoghi vicini a dove il petrolio viene estratto e seppellire le emissioni di carbonio in queste zone o spedirle nello spazio – sono tutte fantasie.
È una totale fantasia ed è legata a idee molto pericolose che puoi solo immaginare. Le persone non hanno idea di cosa stanno facendo e che reazione a catena si può mettere in moto in questo tipo di cose.
Quindi, qualsiasi alternativa anticapitalista o socialista oggi deve avere una forte componente ambientalista e un movimento di sinistra radicale ecologista.
Grazie molte
È stato un piacere.
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giorgino
interessante la prima parte, su come vienescarivata suipiù deboli la crisi della riproduzione sociale, c’è da aggiungere a conferma che nei paesi di forte emigrazione femminile bambini ed adolescenti soffrono della “sindrome della badante”, avendo la genitrice assente per sollevare dal lavoro di cura le donne in carriera occidentali ( le femministe neoliberiste della tipologia concita degregorio o giuia buongiorno ecc)
però la frasier soggiace ad un trito luogo comune, “il capitalismo ha dimostrato una capacità di ristrutturarsi maggiore del prevediobile, esso si è dimostrato capace di superare le proprie crisi” (magari quella attuale), dimentica, solo per fare un esempio, che tali ristrutturazioni sono passate per guerre mondiali, la centralizzazione statale della produzione per l’economia bellica ha generato il capitalismo organizzato del primo dopoguerra. Anche negli usa il new deal ripiombava nella crisi a fine anni 30, questa fu risolta solo con la 2 guerra mondiale e la necessità della ricostruzione ( piano marschall keynesismo etc). . A quando il prossimo sfoggio di capacità di ristrutturarsi del capitalismo ??