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Il gas russo e l’aggressione ucraina al Donbass

Tengono necessariamente banco in queste ore la guerra inter-oligarchica sul North stream-2, aggravata ora dalle sanzioni USA – inserite nel National Defense Authorization Act, per 738 miliardi di dollari, quando mancano da ultimare una quarantina di km sui 1.200 complessivi del gasdotto – contro le compagnie russe e quelle europee appaltatrici.

E’ per voi che lo facciamo”, avrebbe detto agli europei l’ambasciatore USA in Germania, Richard Grenell, ripetendo così la famosa frase del boia al condannato: ti uccido, ma è per il tuo bene.

Se Angela Merkel si è limitata a deboli e indolenti sussurri sulla “inaccettabilità” delle sanzioni, il capo della frazione di Die Linke al Bundestag, Dietmar Bartsch ha chiesto contro-sanzioni.

Di riflesso al passo USA, anche l’accordo tra “Gazprom” e “Naftogaz” per il transito del gas russo attraverso l’Ucraina, che permette a Kiev di incamerare per altri cinque anni i proventi (circa il 3% del PIL) dal passaggio del gas: una sorta di compromesso, con USA, Ucraina, Polonia e Paesi Baltici contrari al gasdotto con una portata annua di 55 miliardi di m3, da un lato, e Germania favorevole, dall’altro, che però chiede anche il mantenimento del transito ucraino.

Kiev voleva un accordo di dieci anni per 60 o addirittura 90 miliardi di m3 annui; Mosca mirava a 15 miliardi, per un solo anno: saranno 65 nel 2020 e poi 40 l’anno fino al 2024.

Chiaro che, con tutto ciò, scarsa attenzione è prestata alla situazione in quella parte del sudest ucraino in cui da oltre cinque anni l’offensiva di Washington contro Mosca porta le insegne del neonazismo banderista, armato e istruito in Occidente contro le Repubbliche popolari del Donbass.

Anche nelle ultime 48 ore, in barba a ogni “accordo normanno”, le artiglierie ucraine hanno bersagliato villaggi di LNR e DNR a ridosso di quella “linea di separazione” delle forze di cui Merkel, Macron, Putin e Zelenskij avevano parlato lo scorso 9 dicembre a Parigi.

Così come, il 18 dicembre, sono naufragati a Minsk i colloqui per lo scambio dei prigionieri, previsto nei colloqui parigini; la rappresentante della LNR al sottogruppo umanitario del Gruppo di Contatto Tripartito (TKG), Olga Kobtseva ha dichiarato che la causa è stata “la mancanza da parte ucraina di un meccanismo per la selezione dei prigionieri”: Kiev avrebbe cioè consegnato detenuti comuni e non miliziani catturati.

Kiev dunque non fa che fingere di adempiere gli impegni derivanti dal “formato normanno”, che prevedono piena e completa attuazione del cessate il fuoco fino alla fine del 2019; attuazione di un nuovo piano di sminamento; accordo nel TKG per altri tre punti di separazione delle forze entro marzo 2020; liberazione e scambio dei prigionieri entro fine anno, sulla base del principio di “tutti per tutti”; accordo del TKG entro 30 giorni su nuovi punti di controllo lungo la linea di demarcazione.

Lo stesso, anche se meglio mascherato, avviene per l’obbligo di Kiev sullo status speciale da concedere alle aree del Donbass non controllate dalle autorità ucraine: Zelenskij ha presentato alla Rada una proposta di modifica della Costituzione, per il decentramento di potere, presentandola come misura di concessione al Donbass di quanto previsto dagli accordi di Minsk. Ma la proposta non contiene la clausola sullo status speciale del Donbass e non è stata concordata con le Repubbliche popolari, come richiesto dagli accordi.

Logico che Vladimir Putin dichiari che, per la soluzione del conflitto, “il problema maggiore è che non c’è desiderio di risolvere la questione col dialogo”; si cerca invece di “creare condizioni favorevoli per risolverla con carri armati, artiglieria, aviazione”; la soluzione arriverà solo quando “la leadership ucraina si sbarazzerà di un approccio assolutamente erroneo e passerà al dialogo“.

Eccessivo ottimismo, o linee di contatto Mosca-Kiev al momento tacite?

Sabato scorso, il Ministro degli esteri Sergej Lavrov ha dichiarato che Il piano di Kiev per l’ulteriore smilitarizzazione del Donbass si è rivelato una “nullaggine”. Le aree proposte da Kiev per l’arretramento delle forze sono “in mezzo al nulla” e non possono quindi garantire né la riduzione della tensione, né la sicurezza dei civili nei villaggi a ridosso del fronte.

Dall’inizio ufficiale dell’arretramento delle forze, ricordava in questi giorni l’ufficiale delle milizie della DNR Aleksandr Matjušin in un’intervista a Vperëd, ci sono stati circa 170 morti e oltre 200 feriti. Il Segretario del PC della DNR, Boris Litvinov ha dichiarato che “non è la prima volta che Kiev dice di arretrare le forze, ma non fa nulla e ciò non infonde certo ottimismo. Lo stesso Zelenskij afferma di non controllare i battaglioni nazisti. In ogni caso, un arretramento di 1-2 km non cambia nulla per le artiglierie; è positivo solo come tentativo di fermare il sangue”.

Maksim Jusin, scrive su Kommersant (il “Sole 24 ore” russo), che l’Ucraina, “nella sua forma attuale, la sua classe politica, la sua opinione pubblica non sono pronte per l’attuazione degli accordi di Minsk. Si deve dire agli europei: vedete, chi è che non rispetta gli accordi di Minsk, quindi perché imponete sanzioni contro di noi? Inoltre, nessuno probabilmente vuole davvero il ritorno del Donbass nella compagine ucraina: non ci sarà alcun ritorno del Donbass se non ci saranno gli accordi di Minsk! Nella migliore delle ipotesi, ci sarà un congelamento del conflitto, come in Transnistria; oppure qualcosa di peggio. Si conserverà la nostra influenza e non ci sarà una “Srebrenitsa”. Forse addirittura appariranno nostre basi. Che c’è di male? Continueremo la commedia che loro adempiranno gli accordi di Minsk? Non lo faranno“.

Il reintegro del Donbass nella compagine ucraina comporterebbe l’eliminazione fisica di migliaia di persone, dichiara a Gorlovka Today il veterano delle forze ucraine e giornalista Alexander Medinskij. Zelenskij, ha detto Medinskij, “fugge dai radicali, cerca di giustificarsi, di manovrare in modo che loro non lo prendano a pedate; le strutture dello Stato non sono in grado di proteggersi dalle azioni dei nazisti, di questi ‘atamani’. Se questi ‘atamani’ prendono il controllo del confine, se arrivano tutti nel Donbass e iniziano a integrarlo, questo sarà probabilmente il più grande genocidio nella storia d’Europa. Sarà una vera distruzione di massa di civili“.

Un po’ le stesse cose che aveva detto a suo tempo Putin, evocando “una nuova Srebrenitsa”, in caso di controllo ucraino del confine tra Donbass e Russia, come preteso da Kiev.

Effettivamente, lo stesso Zelenskij sembra ammettere che il proprio peso sia estremamente piccolo e perciò cerca in ogni modo di aumentarlo. Ecco dunque il suo progetto di emendamento alla Costituzione, definito “legge sul decentramento dei poteri”, ma che, al contrario, dovrebbe portare al rafforzamento del Presidente.

Di fatto, scrive l’agenzia iarex, già da molto tempo l’Ucraina si è disciolta in “principati feudali”: Odessa, Kharkov, le regioni “ambra” nell’ovest del paese. I “feudatari ambra”, forti di proprie unità armate, hanno persino spodestato la Guardia Nazionale, impedendole di stabilire il controllo su confini e dogane: il confine è “privatizzato” per tutta la sua lunghezza.

Appaiono ridicoli gli appelli a concedere a Kiev il controllo delle sezioni di confine tra L-DNR e Russia: Kiev è addirittura sul proprio territorio e clan di trafficanti controllano di tutto, dall’ambra, alle sigarette, droghe, carbone, finanche al carburante e al grano”; il confine con le Repubbliche popolari finirebbe in mano a nazisti e “atamani”.

E se questa è la situazione per la popolazione del Donbass, non possono certo rallegrarsi della propria i civili ucraini. Se U. S. News e World Report posiziona l’Ucraina tra gli stati più potenti del mondo, gli analisti del “BAV Group” e della Wharton Business School dell’Università di Pennsylvania la spingono in trentanovesima posizione, in base a criteri economici, militari, politici, leadership sulla scena internazionale e partecipazione a diverse alleanze.

Così, i primi dieci posti vanno a Stati Uniti, Russia, Cina, seguiti da Germania, Gran Bretagna, Francia, Giappone, Israele, Arabia Saudita e Corea del Sud, ma, davanti all’Ucraina, ci sono anche Lussemburgo, Bielorussia, Viet Nam, Sudafrica, Egitto, Qatar, Pakistan, Iraq, Iran.

Da parte sua, The World Factbook della CIA pone l’Ucraina al 187° posto mondiale per tasso di crescita della popolazione (0,04% nel 2018), al 190° per tasso delle nascite (10,1/1.000), al 148° per aspettativa di vita alla nascita; in compenso, le assegna il 14° posto per spesa militare (3,78% nel 2018) e il 6° posto mondiale per tasso di mortalità (14,3/1.000).

Unico dato al momento positivo: Trump ha eliminato dallo stesso bilancio della difesa 2020 in cui sono inserite le sanzioni “anti-gas”, la formulazione voluta dai democratici, secondo cui entro 45 giorni dall’adozione del bilancio si sarebbe dovuto accordare a Kiev l’ennesimo sostegno militare di 250 milioni di dollari, congelandolo così “a tempo indeterminato”.

Ma è certamente molto poco per congelare il conflitto.

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