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Il Super martedì: un primo bilancio

Il “super-martedì” delle primarie democratiche conferma alcune tendenze emerse nel corso delle precedenti tappe: Iowa, New Hampshire e Nevada vinte da Sanders e Carolina del Sud conquistata da Joe Biden.

Allo stesso tempo “risolleva” le sorti dell’ex numero due di Obama – alla sua terza avventura nelle primarie democratiche – che sembrava moribondo prima del successo dello scorso sabato, ma che ha conquistato nel “super-martedi” 10 dei 14 Stati in cui si è votato, anche se alcuni di stretta misura.

Prima di questa giornata, due sfidanti democratici si erano ritirati, facendo il loro endorsement per Biden. Si tratta del “centrista” giovane Buttigieg, che era andato “testa a testa” con Sanders in Iowa – prendendo meno voti ma più delegati – , ma che non aveva poi brillato nelle tappe successive, fino a decidere di gettare la spugna dopo il pessimo risultato in Carolina del Sud. Il giorno successivo si è fatta da parte anche Klobuchar, una delle due candidate – insieme alla Warren – cui il NYT aveva regalato il proprio endorsement, senza che questo aiutasse nei fatti né l’una né l’altra (il che solleva qualche dubbio sulla attuale capacità dei grandi media di “formare” l’opinione pubblica).

Questo martedì era la prova del fuoco per il 12° uomo più ricco del mondo secondo “Forbes”, magnate dei media, per tre volte sindaco di New York e con un passato nelle file dei repubblicani. Bloomberg aveva speso più di qualsiasi uomo politico nel corso della storia elettorale, ma ha vinto solo nelle Samoa Islands ed ha avuto dei risultati in media di poco superiori al 10%. Ma si è ritirato anche lui ieri, facendo il proprio endorsement a Biden in pratica subito dopo la sua discesa in campo, visto che non aveva partecipato alle precedenti quattro tappe.

L’elettorato latinos, giovane, “working class” e “very liberal” ha premiato il senatore del Vermont facendogli vincere di discreta misura lo Stato più importante per numero di delegati, cioè 415, che andranno alla convention democratica a Milwaukee a luglio: la California, come pronosticato dai sondaggi.

Sanders prende circa un terzo dei voti, Biden è dietro di circa 8 punti, Bloomberg il 14% e la Warren il 12%.

Stessa dinamica, ma più accentuata, per un altro Stato dove la sinistra democratica ha una posizione consolidata ed un importante comunità ispano-americana : il Colorado che elegge 66 delegati, dove il Senatore del Vermont prende ben più di un terzo, e l’ex numero due di Obama è dietro di ben più di 10 punti.

Qui il miliardario prende un 20% delle preferenze.

Il Texas era l’altro pezzo da novanta per delegati eletti (228), con una significativa popolazione ispano-americana, e che ha visto quasi un “testa a testa” tra Sanders e Biden: l’uno prende il 30% l’altro il 34%.

Ma i sondaggi davano Sanders in testa…

Sanders stravince ancora “in casa”, in Vermont – da dove è eletto dal 1981 – con più di metà dei voti che doppiano Biden fermo al 22%, e nello Utah con più di un terzo dei voti, mentre gli altri tre sfidanti sono tutti appaiati in questo Stato con poco scarto sopra il 15%.

Biden, forte dell’elettorato più anziano della comunità afro-americana, così come era successo in Carolina del Sud, vince nella moderata Virginia e negli Stati del Sud: Alabama, Tennesse, Oklahoma, Carolina del Nord.

Ma anche in Texas, secondo gli exit poll, lo ha votato il 60% degli afro-americani.

Conquista con un terzo dei voti anche il Massachusetts, dove la Warren “giocava in casa”, davanti a Sanders con oltre il25% e la Warren sopra il 20%.

Da notare come in questo Stato “bianco” i due candidati della “sinistra” democratica, che hanno alcune proposte politiche identiche, sfiorino la metà dei voti e come Biden di fatto mantenga punti di forza nella classe operaia bianca e nel sindacato.

In Minnesota Biden vince di larga misura con più del 38% dei voti, contro Sanders che sfiora il 30%, grazie anche all’endorsement di Amy Klobuchar eletta in questo Stato e dove avrebbe  fatto il suo risultato migliore, se non si fosse ritirata.

Anche qui la “sinistra” democratica avrebbe il 45% in totale, con Bloomberg che è sotto il 10%.

In Maine, uno stato che esprime solo 24 delegati, Biden vince di stretta misura con poco più del 34% mentre Sanders sfiora il 33% e Warren poco più del 15% con Bloomberg sotto di pochi punti.

La prossima tappa delle primarie si svolgerà martedì 10 marzo in Missisipi, Missouri, Idaho, Dakota del Nord e lo Stato di Washington (sul Pacifico).

Emergono alcuni dati “a caldo”. Il primo è la sconfitta di Bloomberg, che oltrepassa il 15% solo in 5 Stati e vince solo a Samoa, nonostante la pioggia di denaro speso grazie alla sua fortuna personale, di cui mezzo miliardo di dollari in sola pubblicità.

Da “outsider” di destra ha comunque ampliato e consolidato il fronte anti-Sanders ed ora andrà a sostenere l’ex numero due di Obama.

Il miliardario non è riuscito a “comprarsi” le elezioni, ma ha comunque occupato mediaticamente lo spazio politico con idee che portano acqua al mulino dei “centristi”, contro-bilanciando l’egemonia imposta da Sanders su alcuni temi.

Il secondo dato è la capacità di “rigenerazione” dell’establishment democratico, che ha puntato a questo giro su un solo candidato, capendo la pericolosa dispersione prodotta nei primi tre confronti favorevoli a Sanders, giungendo di fatto ad una selezione naturale dopo le primarie della Carolina del Sud, in cui Biden aveva stravinto dimostrandosi l’unico in grado di catalizzare il voto degli afro-americani (tranne i più giovani che hanno votato in maggioranza per Sanders) e quindi in grado – com’è infatti successo – di replicare negli Stati del Sud.

Il terzo fatto è l’”incomprensibile” funzione svolta dalla Warren, togliere a Sanders quote di voti preziosie, che rischia di divenire un “ago della bilancia” importante all’interno della Convention, soprattutto in caso di un “testa a testa” tra gli eletti del socialista del Vermont e dell’ex numero due di Obama.

Certo l’ex consigliera di Obama è un’interprete più di continuità che di rottura con la storia del partito democratico, e rischia di depotenziare “a sinistra” uno scontro diretto tra i frontrunner fin qui più votati. Ha dimostrato un certo “pragmatismo”, in senso negativo, accettando le non piccole sovvenzioni di un PAC legato all’industria dell’idro-carburi (che aveva prima sempre rifiutato).

Si ha il legittimo sospetto che questo suo opportunismo possa anche portarla ad appoggiare Biden magari in cambio di un “posto al sole”. La sua presenza nel prosieguo della competizione sarebbe altrimenti indecifrabile.

Il quarto, ma non meno importante è la conferma dell’appeal di Sanders, un risultato difficilmente immaginabile fino a non molto tempo fa, limitato però dall’incapacità di incrementare veramente la partecipazione al voto, al di là dell’inversione di tendenza che il suo movimento fa registrare rispetto alla disaffezione alla politica anche in termini di adesione economica ad un progetto.

I suoi elettori sono probabilmente tra i più “motivati” e gode dell’organizzazione di base più sviluppata, ma non è riuscito pienamente a cambiare completamente i fattori in campo.

Si va dunque prefigurando uno scontro a due, tra Sanders e Biden.

Il primo impegnato a rimarcare la differenza sostanziale con l’avversario nelle scelte politiche pregresse, in particolare sulla guerra all’Iraq – cui Sanders si oppose, a differenza di Biden – e sui tagli allo Stato sociale, facendo apparire l’ex numero due di Obama la “vecchia politica” che non può certo sconfiggere Trump.

Il secondo, che gode del sostegno dell’establishment democratico e ora anche del magnate dell’informazione, calcherà sulla sua presunta maggiore “eleggibilità” – argomento molto caro ad una parte degli elettori democratici moderati – sfruttando il suo momentum particolarmente pompato dai media, ribattezzato “Joementum”, forte di una performance elettorale galvanizzante ma non quanto viene narrata.

In sintesi, Sanders spinge sulla “polarizzazione” tra i due, Biden sulla ricerca del voto “moderato”, cercando di catturare gli indecisi; mentre la Warren che si era posta come elemento di unione tra le due ali del partito, sembra all’oggi non avere altra strategia se non rosicchiaare qualche consenso da far valere poi un domani.

Da qui a giugno, a cominciare da martedì prossimo, si voterà ancora in 30 Stati in cui si eleggeranno il 60% dei delegati rimanenti; l’obbiettivo è raggiungere i 1991 delegati per conquistare la maggioranza alla convention, ma sono ancora lontani per tutti.

La sfida è ancora aperta e piena di incognite.

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1 Commento


  • Axel

    Ma quale sfida piena di incognite. Sanders non ha alcuna chanche di spuntarla sull’establishment del PD. Vincerà Biden com’era prevedibile fin dall’inizio.

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