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Primarie democratiche: ora è Sanders contro Biden

Dopo il “Super martedì” della scorsa settimana, sono rimasti sostanzialmente in due i frontrunner in lizza nelle primarie democratiche: l’ex vicepresidente dell’era Obama (2009-2017), Joe Biden, e il senatore del Vermont Bernie Sanders.

Alla vigilia della sesta tappa delle primarie di questo martedì in Idaho, Michigan, Missisippi, Missouri, North Dakota e nello Stato di Washington, Biden è in testa con 664 delegati davanti a Sanders con 573.

Entrambi sono molto lontani dalla cifra di 1991 che assicura la maggioranza alla nomination democratica, in luglio a Milwaukee, che deciderà chi sfiderà Trump il 3 novembre.

Durante il “Super Martedì” sono stati assegnati 1.357 delegati, un giorno che ha visto l’affermazione di Biden – anche se in alcuni Stati di stretta misura – dopo la sua vittoria in Carolina del Sud il sabato precedente; tra questi il Texas, secondo Stato più importante per numero di delegati dopo la California dove ha stravinto Sanders.

Prima dello scorso martedì Sanders era in testa con 60 delegati, forte delle sue tre vittorie di fila in Iowa, New Hampshire e Nevada, davanti a Biden con 53 e Buttigieg – che aveva avuto meno voti ma più delegati in Iowa – poi ritiratosi il giorno dopo le primarie in Carolina del Sud, facendo l’endorsement per Biden.

Elizabeth Warren aveva 8 delegati e si è ritirata dopo il “Super Martedì” senza fare ancora alcun endorsement, nonostante avesse un agenda politica molto simile a Sanders.

Amy Blouchar ne aveva sette e si è ritirata anch’essa il giorno dopo “Wall Street Pete”, appoggiando l’ex numero due di Obama.

Il grande sconfitto di martedì scorso è risultato il miliardario Michal Bloomberg, un uomo a cui le fortune ammontano a 58 miliardi di dollari – mentre quella di Trump è stimata poco superiore ai 3 – che ha immesso nella propria campagna elettorale più di ogni uomo politico nella storia elettorale nord-americana, dopo avere investito in tre mesi il doppio di tutti gli altri candidati messi assieme – 500 milioni di dollari in sola pubblicità – con la promessa di una spesa complessiva di un miliardo, “per sconfiggere Trump”.

Nel campo democratico dopo l’ex sindaco di New York, approdato solo recentemente al Partito Democratico, è Sanders colui che ha raccolto più donazioni – 46,5 milioni nel solo mese di febbraio – rifiutando qualsiasi offerta dall’establishment economico, a differenza dell’altra ex-candidata della sinistra democratica Warren, che per lo scorso martedì ha accettato l’elargizione di un “Super Pac” legato all’industria degli idrocarburi, a differenza che in passato; una scelta che non ne ha aumentato sostanzialmente la prestazione elettorale, ottenendo meno di 60 delegati su circa 1350 assegnati.

Bloomberg, che si è vantato di avere ricevuto due milioni di consensi e 61 delegati (tre di meno della Warren), ha vinto solo nelle Samoa. Non ha “sfondato” anche a causa delle misure razziste adottate nei confronti degli afroamericani mentre era sindaco della “Grande Mela” e per la comprovata discriminazione di genere nelle sue imprese; due handicap che hanno prodotto una massa di critiche cui questo outsider di destra non è riuscito a rispondere in mod convincente.

Riverserà il suo staff e le sue risorse economiche su Joe Biden, uomo già fortemente foraggiato da Wall Street. La borsa di NY ha festeggiato infatti la sua “vittoria” di martedì con le azioni tornate in positivo dopo l’esito del voto dal 14 febbraio. Il  laconico commento del “Sole 24Ore” a riguardo è stato chiaro: “Biden ha inciso più della FED“.

A inizio di febbraio a Manhattan il presidente del fondo di investimento Blackstone, Johnatan Gray, ha organizzato per lui un grande evento di fundraising. Biden ha ricevuto donazioni dal cfo di Goldman Sachs, Spephen Scherr, e oltre che da diversi importanti finanzieri.

È diventato il “pezzo da novanta” dell’establishment democratico anche grazie al lavoro sotto-traccia dello stesso Obama, che gli ha fatto avere prima del “Super Martedì” l’endorsement di più di 100 sindaci delle grandi città, personaggi della società civile e dello “star system”.

È l’unica possibilità di rigenerazione del “centrismo” del partito democratico, di fatto supportato anche dalla Warren, che dopo avere continuato fino al “Super Martedì” – anche dopo il doppio ritiro dei centristi e la discesa in campo di Bloomberg – ha sottratto voti a Sanders ed ora si rifiuta di prendere posizione, pur essendo fallita la sua ipotesi di essere l’elemento unificante tra le due ali del partito. È chiaro che è decisa a “far pesare” i suoi 64 delegati alla nomination, e per ora aumentare il disorientamento tra le fila della “sinistra” del partito.

Nelle settimane successive al “Super-Martedì” saranno messi in palio altri 1.000 delegati, ed il 17 marzo si voterà nello “swinging State” per eccellenza, la Florida, dove se ne assegnano circa 220.

Questo martedì, è abbastanza certa la vittoria di Biden in Missisippi, considerata la dinamica del voto afro-americano, che lo ha premiato – rimettendolo in pista – in Sud Carolina, e poi in generale negli altri Stati: il 57% ha votato per lui, contro il 17% di Sanders che trova consenso solo tra le fasce più giovani degli afro-americani e tra gli esponenti più radicali dell’attivismo nero.

Il senatore del Vermont ha cancellato infatti un appuntamento in Mississippi per concentrarsi sugli stati della cosiddetta “rust belt” del mid-west (la “cintura della ruggine”, ossia le ex basi dell’industria metalmeccanica Usa), fondamentali per la vittoria di Trump nelle ultime elezioni presidenziali che li aveva sottratti al partito democratico.

Sanders ha tra le sue figure di punta uno degli attivisti afro-americani radicali più importanti e conosciuti, Cornell West, che ha infiammato il rally di Detroit, e ha recentemente avuto l’endorsement del reverendo Jesse Jackson, che Sanders sostenne nelle primarie nel 1988, dicendo allora dello storico leader dei diritti civili che “aveva fatto più di ogni altro candidato a memoria d’uomo per unire gli ultimi”.

Apparirà con lui a Gran Rapids…

Di questo imminente martedì elettorale, che assegna 125 delegati, il Michigan è lo Stato più importante e, tranne che nel Mississippi, la sfida tra i due frontrunner democratici è aperta.

L’Idaho, dove  nel 2016 vinse Trump doppiando la Clinton con quasi il 60% dei voti, assegna 20 delegati alla Convention mentre 5 vengono attribuiti dai “super delegati” membri dell’establishment democratico; gli ultimi sondaggi danno di fatto un “testa a testa” tra i due, con Sanders che vinse nel 2016 sulla Clinton, come in North Dakota e nello Stato di Washington.

In Missisipi si assegnano invece 36 delegati, e nelle primarie di quattro anni fa la vittoria andò alla Clinton,  così come in Missouri (che ne esprime 68), dove – anche se con percentuali diverse – i sondaggi danno la vittoria a Biden.

In North Dakota si assegnano appena 14 delegato, ed i sondaggi danno Biden vittorioso di stretta misura, mentre lo Stato di Washington è il secondo Stato per importanza di delegati espressi questo martedì pari a 89 e i pools danno di strettissima misura Biden vincitore.

Dei circa 350 delegati che verranno eletti, tra i due sfidanti si rischia probabilmente un sostanziale pareggio, con un possibile vantaggio dell’ex numero due di Obama, che è dato tra l’altro di circa 8 punti in vantaggio in Michigan, dove Sanders vinse a sorpresa contro la Clinton.

Ma i sondaggi in particolare in questo momento si dimostrano “bussole impazzite”.

La campagna di Sanders, che in questi giorni è andata oltre gli Stati in cui sono previste le primarie di questo martedì, è stata centrata essenzialmente sulle differenze sostanziali delle scelte politiche tra i due, in particolare per ciò che concerne i trattati di libero scambio e la posizione rispetto alla sicurezza sociale.

In particolare, il primo aspetto è centrale perché la percezione nelle regioni come il Michigan, tradizionalmente working class, è quella di una drastica riduzione dei posti di lavoro di metà degli anni Ottanta dovuta al NAFTA – recentemente rinnovato – e all’accordo con la Cina di inizio anni Duemila.

A queste pietre miliari dell’egemonia neo-liberale statunitense Sanders si è opposto, mentre Biden ne è stato un sostenitore, sebbene abbia una storia politico-familiare legata al sindacato dell’industria automobilistica.

Sanders è stato uno dei 10 senatori che ha recentemente votato il nuovo “Nafta”…

Allo stesso tempo, anche recentemente, il numero due di Obama è stato un attore politico che ha sempre teso a voler ridimensionare  le politiche di welfare, a differenza di Sanders che le ha sempre strenuamente difese.

Un altro aspetto è la differenza sostanziale in politica estera, che ha visto il senatore socialista del Vermont schierarsi contro la guerra in Iraq nel 2003, a differenza di Biden che l’ha votata.

In generale, nonostante alcuni punti di contatto – almeno a livello di promesse elettorali -, la filosofia d’intervento di Biden è differente da quella di Sanders, perché il primo vuole solo “alleviare” (senza eliminare) alcune ingiustizie sociali evidenti, con incentivi per le famiglie a basso reddito (Sanders propone il salario minimo), il congedo di malattia, la riduzione del debito degli studenti universitari (Bernie l’abolizione), e la “discriminazione positiva” per gli studenti afro-americani. Mentre Sanders attacca il privilegio razziale a tutto campo.

A parte il “green new deal” e la cittadinanza per i “dreamers” (gli immigrati di lungo periodo ancora non dotati di cittadinanza), le visioni politiche tra i due non sono sovrapponibili.

Uno dei punti discriminanti è il progetto di sanità gratuita universale portata avanti dal quasi ottantenne socialista – il popolare medicare for all, che prevede anche l’interruzione di gravidanza e una adeguata assistenza ai genitori che hanno avuto un figlio – , mentre Biden è favorevole ad una espansione del Medicare, ma è contrario al modello proposto da Sanders.

Biden prevede l’introduzione di limiti di spesa della difesa, ma non attacca il complesso militar-industriale (come fa invece Sanders), vuole una tassa sul capital gain ma non tuona contro la finanza da cui prende soldi, e declina in maniera diversa il piano per le infrastrutture, che Sanders vorrebbe appannaggio dei più vulnerabili con una politica abitativa pubblica degna di questo nome.

Due profili antagonisti quindi, e non solo semplici competitor.

La sfida rimane aperta.

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