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La battaglia del vaccino per il Covid-19

La corsa per trovare il vaccino contro il Covid-19 ha assunto la forma di una sfida globale dai forti contorni geopolitici.

La biotecnologia mostra di essere un’industria strategica per le nostre società. Così come i vari attori geo-politici definiscono la propria indipendenza producendo in proprio droni, caccia o apparati di cyberwar, lo stesso sta avvenendo per questi derivati dell’industria farmaceutica.

Nessuno vuole di fatto dipendere da un potere straniero per i farmaci anti-pandemia di cui necessita.

I due maggiori pericoli per la fruibilità universale e gratuita del vaccino sono: primo, il possibile sfruttamento prioritario da parte del Paese che riuscisse a realizzarlo ed a produrlo; secondo, l’ipotesi che l’azienda – o una partnership tra queste – non lo renda accessibile, speculando sul suo valore commerciale.

Il primo rischio non è una remota possibilità, e si è concretamente realizzato nel 2009 quando – per la “swine flu epidemic” – l’Australia  diede priorità alla propria popolazione rispetto all’invio negli Stati Uniti del vaccino, riaffermando la propria sovranità rispetto ad uno storico alleato.

In un momento di inasprimento della competizione internazionale, non sembra più esserci nessuna cornice che fissi delle regole cogenti per le relazioni tra Stati. Anche in questa materia non è peregrino pensare che il monopolio del vaccino possa costituire un differenziale strategico, tale da contribuire a ridefinire la catena gerarchica tra attori geopolitici globali.

Lo scontro tra USA e Germania, rispetto agli ammiccamenti statunitensi nei confronti di una delle ditte in pool position per l’elaborazione del vaccino, la CureVac, ci dice esattamente questo.

Se il caso è universalmente conosciuto, lo sono meno le parole della presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen:  «il fatto che altri paesi abbiano cercato di comprare questa azienda mostra che questa sia in testa nella ricerca (…), ed è una azienda europea – vogliamo mantenerla in Europa. È molto importante darle il finanziamento necessario, e questo è successo».

La conferma dell’”interessamento statunitense alla CureVac, da parte di Dievini Hopp (Dievini Hopp BioTech Holding controlla l’80% di CureVac), è bastato per far arrivare a questa azienda altri «85 milioni di dollari» da parte della Commissione Europea. Così almeno riporta un’inchiesta recente del “New York Times” sul tema.

Un’altra azienda europea, che ha il proprio laboratorio a Mainz, in Germania, e che sta effettuando i propri test sperimentali sugli animali, è la Biontech, che ha visto triplicato nel giro di poco tempo il valore delle proprie azioni e intrecciato recentemente rapporti con la statunitense Pzifer e la cinese Fosum Pharma. La Fosum Pharma ha buttato sul piatto dell’azienda tedesca più di 133 milioni di dollari, di cui una parte consistente – circa 50 milioni – nell’acquisto di rilevanti quote azionarie.

Sono 5 le imprese statunitensi che stanno unendo gli sforzi e che, di fatto, si sono “consorziate” su questo obiettivo, con il lauto finanziamento statale.

Ad inizio di aprile la Moderna di Boston inizierà i test sugli umani del proprio vaccino  – il BNT162 –  con un tempo record (42 giorni) tra l’isolamento del virus e la scoperta di un vaccino.

Anche la Novatax, che ha il suo laboratorio in Maryland, è una dei front runner per il vaccino in questa corsa.

In Gran Bretagna verrà sperimentato il ChAdOX1 di Oxford il prossimo mese…

Ma anche la Cina, come la Russia, non stanno certo a guardare.

La prima vuole costituire un “campione nazionale” delle biotecnologie. Mille scienziati dell’Accademia Medica Militare delle Scienze stanno lavorando al progetto, segno della strategicità dell’obiettivo, mentre altre aziende cinesi hanno stabilito partnership con istituti europei della ricerca, come abbiamo visto.

L’agenzia di stampa Reuters, il 20 marzo, ha dato notizia dei test sugli animali iniziati nei laboratori siberiani della Vektor State Virology and Biotechnology Centre a Novosibirsk e dello sviluppo di piattaforme analoghe.

Stiamo assistendo al pericolo di uno sfruttamento commerciale che mina la fruibilità del vaccino, a causa della politica statunitense. Anche parti rilevanti del Partito democratico rigettano la proposta di un vaccino gratuito. La speaker del Congresso, Nancy Pelosi, ha usato il termine “acquistabile” come standard, il che fa nascere più di un dubbio, conoscendo le speculazioni pregresse di big pharma e le esplicite dichiarazioni di politici altolocati.

È il caso del vaccino anti-influenzale H1N1 flu del 2009, negli USA, per cui sono stati sviluppati contratti commerciali e monopolizzate le forniture.

Gli esperti del settore parlano comunque di un periodo non inferiore a 12-18 mesi prima il vaccino venga realizzato.

Trump, confermando il suo ruolo di mentitore seriale, ha ipotizzato che potrebbe essere pronto prima delle presidenziali a Novembre. Puntuale, vero?

Ogni vaccino, dopo il test sugli animali, ha ancora tre fasi di sperimentazione: la prima per valutarne i possibili effetti collaterali su un campione di uomini sani, la seconda su centinaia di pazienti infetti in una zona contagiata e la terza su un campione di migliaia di persone contagiate.

Naturalmente non ci si può aspettare una progressione lineare nella sperimentazione e, come ha dichiarato metaforicamente un operatore del settore, “non tutti i cavalli che iniziano la corsa giungono alla fine”.

La fase successiva è quella della produzione su larga scala, in questo caso ad un livello non ancora conosciuto per ampiezza. In seguito si passa ad una pianificazione delle campagne di vaccinazione, oltre alla questione della “licenza”.

È chiaro che, come accaduto anche recentemente, vi può essere una contrazione dei tempi del processo, utilizzando il vaccino su larga scala in via sperimentale prima ancora che una licenza venga formalmente concessa.

Paradossalmente, i meccanismi del mercato farmaceutico non hanno finora reso “appetibile” la produzione dei vaccini, sia perché non garantivano profitti prolungati nel tempo, sia perché i potenziali destinatari erano un target di clienti povero di risorse.

Questo ha fatto sì che solo un pugno di aziende li producesse, in una situazione di fatto di oligopolio.

È il caso della Merck per il vaccino HPV (contro il papilloma virus). L’altro grande operatore del settore è GSK, che ha avviato una cooperazione con la cinese Clover Biopharmaceuticals of China.

Sono attualmente 35 le aziende e gli istituti che in tutto il mondo stanno lavorando al vaccino; 4 di queste hanno già iniziato i test sugli animali.

Moderna, che ha sede negli Stati Uniti, prevede di avviare i primi test sugli umani ad inizio aprile.

La possibilità di iniziare la ricerca per un vaccino è stata resa possibile dal fatto che il Chinese Center for Disease Control and Prevention e la Chinese Accademy of Medical Science, il 10 gennaio di quest’anno, hanno reso pubbliche le 30.000 lettere “biochimiche” del codice genetico del virus. Tra le prime ad essersi interessata alla ricerca del virus, è stata la CEPI.

La CEPI (Coalition for Epidemic Preparadness Innovations) è una partnership pubblico-privato con sede ad Oslo. nata qualche anno fa al Summit di Davos. Tra i suoi fondatori vi è la fondazione “caritatevole” The Welcome Trust, fondata negli anni trenta, da un magnate britannico dell’industria farmaceutica. Al momento è la fondazione economicamente più importante al mondo, in quest’ambito. La principlae “concorrente” è la Bill and Melinda Gates Foundation.

La CEPI ha da subito attivato un fondo – cui la banca mondiale ha dedicato un veicolo di finanziamento di ben 2 miliardi di dollari, che garantisce i donatori in caso di insuccesso –  da svilupparsi in 5 fasi, che ha attivato collaborazioni con aziende ed università.

In pratica un collettore d’investimenti – tra cui differenti stati della UE – che ha riversato subito (1 miliardo di dollari) in due gruppi biotecnologici statunitensi e nell’università australiana di Queensland

Non proprio un gruppo di filantropi.

Concludiamo questa primissima panoramica con le parole di Jonathan Quike, della Duke University, autore del recente “The end of epidemics”, intervistato da The Guardian sull’ipotetica tempistica di un vaccino: «la biologia virale e la tecnologia dei vaccini potrebbero essere i fattori limitanti, ma politica ed economia sono con maggiore probabilità le barriere all’immunizzazione».

Mai come ora, quindi, la battaglia per l’emancipazione politica, la giustizia sociale e il progresso scientifico per tutti coincidono.

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