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C’è chi dice no. Voci dalla Catalunya contro il ritorno al lavoro

Da questa settimana i lavoratori dell’industria e delle costruzioni di tutta la penisola tornano al lavoro: così ha deciso il governo spagnolo targato PSOE-Unidas Podemos, incurante delle perplessità e delle aspre critiche sollevate da più parti riguardo l’opportunità di una misura così rilevante per la salute pubblica.

Negli ultimi giorni si sono susseguite varie dichiarazioni di autorevoli ricercatori e medici specializzati che suggerivano di posticipare almeno di alcuni giorni la ripresa della produzione: Antoni Trilla, capo del reparto di epidemiologia dell’ospedale Clínic di Barcellona e membro di un comitato di esperti che ha collaborato con il governo ha affermato che “se aumentano i contatti, è ovvio che possono aumentare i casi di covid-19. È prevedibile“.

Secondo Trilla inoltre, il governo ha preso la decisione di inviare i lavoratori in fabbrica senza consultare il comitato scientifico di cui fa parte. L’epidemiologo Oriol Mitjà, ricercatore dell’ospedale universitario Germans Trias di Badalona, ha avvertito che “i posti letto nelle unità di terapia intensiva in Catalunya sono 652, ora siamo a 2.582 posti occupati (più 296%)“.

In queste condizioni “una revoca precipitata del confinamento può avere effetti devastanti sul nostro sistema sanitario“. Anche per questo Mitjà ha dichiarato di non vedere le condizioni adeguate per procedere a una sia pur graduale ripresa delle attività.

Sullo sfondo della decisione del governo, un sistema sanitario che ha risposto a stento all’emergenza, tanto da spingere Medici senza frontiere a tornare, dopo 20 anni, ad operare in Spagna. Il presidente della sezione spagnola della ONG, David Noguera, ha dichiatato che “non operiamo in paesi i cui sistemi sanitari sono capaci di gestire una epidemia, però nel caso dello stato spagnolo questa capacità è stata sopraffatta“. 

In Catalunya l’organizzazione è in contatto permanente sia con CatSalut, il sistema sanitario regionale, che con il comune di Barcellona. Data l’emergenza, Medici senza fontiere ha anche chiesto al ministero della sanità di reclutare personale di terapia intensiva dalla Cina o dalla Corea del sud, senza però ricevere alcuna risposta da parte del governo.

Una conferma dell’autarchia già esibita dall’esecutivo in occasione di una richiesta simile, quando la Candidatura d’Unitat Popular aveva  proposto invano l’intervento di una brigata di medici cubani.

Pur non essendo un esperto in covid-19, Noguera ritiene che si possa tornare al lavoro solo in presenza di precise condizioni quali “tamponi per individuare il virus e agire in fretta, personale sanitario, incluso quello delle case di riposo, materiale di protezione adeguato e misure di salute pubblica, come le mascherine per tutta la popolazione. Se abbiamo gli strumenti, a poco a poco il confinamento si potrà revocare. Il problema è che mi sembra che questi strumenti ancora non ci siano“.

E nonostante i socialisti si sforzino di sottolineare la bontà della decisione, la questione della ripresa delle attività produttive in condizioni di piena sicurezza per i lavoratori e per la popolazione non è così pacifica, se è vero che nella coalizione di governo sono emerse delle perplessità, espresse più o meno apertamente da diversi esponenti di Podemos.

La portavoce del partito alle Corts valenzane, Naiara Davó, ha dichiarato che “come Podemos crediamo non sia il momento di buttare via tutti gli sforzi fatti fin qui per abbassare la curva dei contagi e salvare vite“.

Meno diretto è stato Pablo Iglesias, che ha invece citato un brano dell’ottimo articolo di Alba Sidera, Bergamo, la masacre que la patronal no quiso evitar, nel quale una sindacalista chiede a un imprenditore di chiudere la fabbrica per scongiurare i contagi.

Il fatto però è che Podemos è al governo e che, se non condivide la decisione del PSOE, avrebbe la possibilità di fare un dignitoso passo indietro, dicendo not in my name. Per ora però, il partito di Iglesias non sembra voler rompere la disciplina della coalizione e la decisione del ritorno al lavoro, sia pur nei soli settori dell’industria e delle costruzioni, è stata comunicata da Pedro Sánchez, in videoconferenza, a tutti i presidenti delle comunità autonome.

Nel corso della riunione la Generalitat di Catalunya ha chiesto che il ritorno al lavoro venga posticipato, accusando il governo sia di mettere a repentaglio tutti gli sforzi fatti fin qui che di lasciare indifesa la cittadinanza.

Il presidente catalano ha affermato che se dipendesse dal proprio governo il rientro al lavoro sarebbe posticipato, ma il decreto che ha istituito lo stato d’allarme ha lasciato senza competenze la Generalitat che, priva di mezzi per assicurarne la copertura giuridica, ha sostenuto di non poter invitare i lavoratori alla disobbedienza. Una possibilità che sembra peraltro assai remota, viste le divisioni interne al governo catalano e il cammino del dialogo con il PSOE intrapreso da mesi da ERC.

Anche il sindacato di base Intersindical-csc è contrario a riaprire fabbriche e cantieri: Marc Sallas, ex portavoce e attuale membro dell’Intersindical, ha affermato che “dal punto di vista della salute pubblica mi sembra una follia. Mettiamo al centro l’economia o la vita? E secondo: come farà a tornare al lavoro la gente che ha figli se le scuole sono chiuse? E non dubito che le scuole debbano stare chiuse. Però nell’insieme mi sembra tutto organizzato male“.

E si chiede anche “perché lo Stato non istituisce una imposta sui patrimoni superiori al mezzo milione di euro? Perché non propone che le banche restituiscano i quasi 60.000 milioni che gli hanno regalato? Perché si mantiene la desorbitante spesa militare? Perché non graviamo di un’inposta le Sicav?

Sulla stessa lunghezza d’onda la Candidatura d’Unitat Popular che, all’insegna dello slogan la vita prima del capitale, chiede “che si prenda il controllo effettivo della sanità privata, senza corrispettivi” e che si decreti la “sospensione della compravendita sul mercato del materiale sanitario sensibile, come le maschere e il gel disinfettante, e il passaggio di tutti gli stock e della produzione in mano pubblica, per realizzarne la distribuzione in base all’interesse comune“.

Secondo la CUP “la gestione della crisi da parte del governo spagnolo è degna del peggior capitalismo del disastro“, quello che “spedisce la gente in metropolitane e treni pieni, con la paura di non arrivare a fine mese, una misura che obbedisce al diktat dell’Ibex 35” (il principale indice di borsa spagnolo).

Secondo gli anticapitalisti e indipendentisti la crisi apre però anche nuove prospettive: davanti al cambiamento della fase, accellerato dal covid-19, la CUP lancia un appello ai lavoratori dei Països Catalans e ai differenti popoli dello stato per l’organizzazione nel mondo del lavoro, nei quartieri e in tutti gli spazi di lotta e per aprire un nuovo ciclo di mobilitazione che metta fine al regime del ’78.

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