Raramente le guerre annunciate rimangono tali. La prevista offensiva ucraina in Donbass non sembra far eccezione; che sia il 15 marzo (al momento di scrivere, la giornata non si è ancora conclusa) oppure tra qualche settimana, o forse in contemporanea con la visita di Vladimir Putin in Crimea, il 17-18 marzo, come pronostica su Rusvesna Jurij Kotenok, in pochi dubitano dell’attacco ucraino. Discordanze ci sono sulla portata e le dimensioni dell’offensiva.
I media ucraini, su fonti dei comandi militari, scrivono che le truppe sono in assetto di guerra N° 1 e attendono solo l’ordine d’attacco. Ufficiali ucraini, cercando di ripartire “uguale responsabilità” per l’inasprirsi della situazione anche sulle milizie di LNR e DNR, affermano che il cessate il fuoco è terminato, di fatto, a gennaio e «ambedue le parti sono tornate a occupare le posizioni lungo la linea di demarcazione», da cui si erano allontanate nel 2020, nel quadro della separazione delle forze.
Kiev non si è però ancora decisa a un attacco massiccio: condizione essenziale perché possa sperare in un qualche successo militare, sarebbe il non sostegno russo alle milizie popolari; la qual cosa, però, nelle nuove condizioni, è abbastanza dubbia.
Quel che è fuor di dubbio è l’escalation della tensione.
Nei giorni scorsi, anche il capo delegazione ucraino al Gruppo di contatto a Minsk, l’ex Presidente Leonid Kravčuk, al canale Ukraina-24 aveva parlato di una possibile offensiva ucraina su larga scala e della pretesa, che Kiev avanza dal 2015, di coinvolgere gli USA nel “processo negoziale”: il tutto, minacciando «passi radicali» nel caso Mosca rifiuti di considerasi “parte in conflitto”.
Gli aveva risposto la portavoce del Ministero degli esteri russo, Marija Zakharova, ribadendo che il rifiuto di Kiev di riconoscere L-DNR quali parti in conflitto e intavolare trattative dirette con le Repubbliche popolari, tentando invece di far passare Mosca quale parte in guerra, contraddice agli accordi di Minsk e alle relative risoluzioni ONU.
Per il momento, le forze ucraine si “limitano” a bersagliare singoli obiettivi lungo la linea del fronte con DNR e LNR; su quest’ultima, in particolare, le truppe di Kiev hanno colpito le posizioni della milizia popolare nell’area di Nižnee Lozovoe, sulla direttrice di Debal’tsevo; mentre, in altre aree, le milizie della LNR denunciano il concentramento di mezzi pesanti ucraini, insieme all’espandersi (riscontrabile sul social network “V Kontakte”) di casi di abbandono delle posizioni e autolesionismo da parte di soldati ucraini.
Intanto, i reparti più “ideologizzati” in senso nazionalistico preferiscono continuare a terrorizzare la popolazione civile, sicuri che uno scontro diretto non solo con la Russia, ma nemmeno con le milizie popolari, non sia alla loro portata, come avevano dimostrato nel 2014 e 2015 le disfatte a Ilovajsk e Debaltsevo, e secondo la tradizione della Divisione SS “Galizia” che, come nota Mikhail Zanevskij su Svobodnaja Pressa, i nazisti avevano rinunciato a utilizzare in battaglia, riservandole compiti di terrorismo nei confronti della popolazione o contro i partigiani jugoslavi.
Dunque, si chiede Zanevskij, che scopo ha questa dimostrazione di forze da parte di Kiev (da giorni, si ripetono video con convogli ferroviari carichi di mezzi pesanti ucraini diretti verso il Donbass), come a significare un prossimo blitzkrieg contro le Repubbliche popolari?
Ammettiamo che Kiev disponga davvero di forze numericamente sufficienti, in uomini, armi, mezzi e istruttori NATO, in grado di sovrastare le milizie e permettere alle truppe ucraine di arrivare alle frontiere russe. Ciò che balza agli occhi è l’assoluta carenza, da una parte, di quadri di comando adeguati e qualificati e, dall’altra, di un morale sia pur modesto della truppa, anche tra i giovani provenienti dalle regioni considerate da sempre più anti-russe, come L’vov, Rovno, Ternopol.
Figuriamoci dunque quale spirito combattivo possano vantare i giovani dalle regioni tradizionalmente più filo-russe, quali Kharkov, Zaporože o Dnepropetrovsk. Il quadro, al momento, non depone certo a favore di Kiev.
Anche Aleksandr Khaldej, su iarex.ru, riconosce che, nonostante l’evidente intensificarsi delle incursioni belliche ucraine, ciò cui Kiev è più interessata in questo momento è il modo di sganciarsi dagli accordi di Minsk (anche se, di fatto, non adempiendo alcuno dei punti previsti, se ne è già sottratta), sondando le possibili reazioni di USA, UE e Russia.
L’uscita di Kiev dal processo di Minsk, significherebbe infatti «la sua responsabilità e libererebbe le mani alla Russia per aiutare il Donbass. È dunque necessario per Kiev soppesare le capacità occidentali di bloccare l’aiuto russo e determinare i limiti del sostegno militare» di Mosca. Ciò significa che Kiev sta cercando un più forte sostegno politico, militare e economico di USA e UE, se non addirittura un suo tentativo di coinvolgere la NATO nel conflitto.
Per il momento, però, sostiene Khaldej, l’appoggio occidentale sembra doversi limitare, come sinora, all’addestramento di guastatori per brevi e circoscritte incursioni, oltre alle forniture militari che non sono mai mancate.
D’altronde, è impossibile valutare le probabilità di una vera guerra su larga scala, senza considerare il contesto politico generale, in cui l’inasprimento militare deve essere visto attraverso il prisma del prossimo completamento del “North Stream 2”. Con la posa degli ultimi metri di gasdotto, afferma Khaldej, la Germania otterrebbe una eccessiva indipendenza dagli USA e questo, per Washington, significherebbe perdere la guerra in Europa.
Ora, dato che tutti i tentativi di far naufragare il progetto, servendosi delle sanzioni, non hanno funzionato, gli USA tenteranno di impedirne l’entrata in servizio o, se quella dovesse esserci, impedire il riavvicinamento politico tra Berlino e Mosca. C’è allora bisogno di un casus belli, per cui la Germania non possa eludere uno scontro con la Russia, e il casus belli è proprio la guerra in Donbass.
Dunque, gli Stati Uniti giocano il tutto per tutto. Più si avvicina il completamento del “North Stream 2”, più vicina è la data del probabile inizio della guerra in Donbass. Da un lato, alla vigilia delle elezioni per la Duma, Putin non potrà rifiutare il sostegno militare al Donbass, pena una secca perdita di consensi; e anche la Germania, in cui le elezioni si terranno a settembre, avrà limitate possibilità di manovra.
Dall’altro, afferma Khaldej, se tale è la posta in gioco, il sacrificio di un paio di migliaia di soldati ucraini in una nuova offensiva, non sembra troppo alto né a Kiev né a Washington. L’unica speranza, è che la Germania riesca a mantenere una solida maggioranza favorevole al gasdotto e le prossime settimane potrebbero essere decisive.
E se guerra aperta non ha ancora da esserci, ecco che sul fronte della guerra condotta con altre armi, Aleksej Latyšev e Alëna Medvedeva ricordano su RT che la Missione di monitoraggio ONU per i diritti dell’uomo ha registrato in Ucraina evidenze di odio nei confronti delle minoranze nazionali, in primo luogo quella russa, invitando Kiev ad adottare al più presto leggi a difesa dei diritti linguistici delle minoranze, sia a livello burocratico, che scolastico.
A Kiev, ovviamente, dove dal febbraio 2014 si sono adottate, pressoché annualmente, leggi sull’ucraino quale lingua ufficiale e lo scorso 16 gennaio è entrata in vigore la legge sull’ucraino quale unica lingua di Stato anche nel settore dei servizi, con pesanti multe per la sua violazione (in alternativa: le bastonature delle squadracce nazionalistiche), simili osservazioni non fanno né caldo né freddo, sia che provengano dall’ONU o dal Consiglio d’Europa.
Basti pensare (è solo l’ultimo esempio) come in un istituto del distretto di Berezovka, un centinaio di km a nord di Odessa, il direttore abbia dimostrativamente gettato dalla finestra tutti i libri in lingua russa presenti nella biblioteca scolastica. Succede in Europa.
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