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“Agitando i pugni contro Cina e Russia, l’America va verso la catastrofe”

Putin è “un killer” e Xi “un tagliagole” ha stabilito Joe-Burisma-Biden; Mosca «destabilizza la situazione nei paesi vicini», evoca il segretario NATO Jens Stoltenberg; e il capo della diplomazia UE Josep Borrell e il suo superiore, il segretario di stato yankee Antony Blinken tuonano contro l’atteggiamento «di sfida della Russia, inclusa la persistente aggressione contro Ucraina e Georgia», ecc. ecc.

La dichiarazione di guerra di USA e vassalli è consegnata: una guerra energetica alla Russia, soprattutto per il “North stream 2”, e una guerra commerciale alla Cina. Mosca ha risposto per ora (annunciate contromisure anche alle sanzioni imposte dal Canada) in maniera non particolarmente dura; più tempestiva e determinata Pechino.

Il confronto tra USA e Russia ha dunque raggiunto una nuova fase. La prima fase, di “accumulazione della tensione”, scrive Aleksandr Khaldej su Svobodnaja pressa, ha coperto il periodo tra il 2000 e il 2007; dal 2007 al 2014, la seconda fase, di “contrapposizione”; quindi, la terza, avviata con gli eventi in Siria e Ucraina, è già quella della guerra, quando il «desiderio di danneggiare il nemico non è più commisurato al danno verso se stessi. Niente trattative in questa fase; ora parlano i cannoni: non importa se di ferro o mediatici».

Poi, di incidente in incidente, si arriva alla quarta fase, quella del “equilibrio di posizione” e della “stanchezza di guerra“, dopo di che sarà forse possibile tornare alle trattative.

Il rischio è però che, «ad alti livelli di conflitto, questo possa sfuggire al controllo delle parti». Gli USA brigano per colpi di stato in Cina e Russia (da anni ormai le sanzioni mirano a colpire l’entourage oligarchico russo, per indurlo a sbarazzarsi di Putin) e a una chiamata a raccolta degli “alleati” vassalli. Da qui, le sparate provocatorie, che testimoniano della debolezza americana.

«La confusione è mascherata dall’aggressività: prima retorica, poi militare. Europa orientale, Asia centrale, Medio Oriente, Pacifico: queste sono le zone di minaccia dell’egemonia statunitense dopo il crollo dell’URSS e, di conseguenza, le zone di pericolo di operazioni militari dirette».

Biden, definendo Putin “un assassino” e Xi Jinping un “tagliagole” (ma, nota Artašes Gegamjan, come mai, di fronte a tali provocazioni, «sono rimasti zitti i leader dei paesi della Organizzazione per la sicurezza collettiva»: oltre alla Russia stessa, Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kyrgyzstan e Tadžikistan?) mostra che il suo gruppo è disposto a intensificare il conflitto.

Il desiderio di «guidare la divisione del mondo in zone di influenza» dice ancora Khaldej, «comporta tagliar fuori gli alleati dai mercati di cui hanno bisogno e allo stesso tempo spingere gli avversari a consolidare» il coordinamento.

Gli USA non saranno in grado di «sostituire i mercati perduti dei loro vassalli; la perdita di Cina e Russia come partner commerciali minerà un certo numero di paesi e vi indebolirà l’influenza degli Stati Uniti. Gli USA stanno quindi accelerando quei processi che cercano di impedire; molti loro vassalli, come UE, Polonia o Ucraina, si indeboliranno ancora di più negli scontri con Russia e Cina».

Dunque, quanto è reale il pericolo che, come dice Khaldej, «ad alti livelli di conflitto, questo possa sfuggire al controllo delle parti»? Qual è la situazione sul campo?

Ammettiamo, ad esempio, che abbiano ragione gli analisti del FAS (Federation of American Scientists) secondo cui gli USA avrebbero segretamente tolto dall’Europa una parte del proprio arsenale nucleare. Anche se fosse vero, ciò non significherebbe altro che la necessità di modernizzare tale arsenale. Ora, scrive Viktor Sokirko su Svobodnaja pressa, si calcolava sinora che in Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia fossero stoccate dalle 150 alle 200 bombe nucleari e non sembra che l’intelligence russa abbia elementi per confermare una loro riduzione.

Se movimenti ci sono stati, si tratta più verosimilmente di una parziale redistribuzione tra le diverse basi, come più volte verificatosi. In ogni caso, commentando la notizia secondo cui i bombardieri statunitensi potrebbero colpire obiettivi russi di terra, l’esperto militare Jurij Knutov ritiene che la Russia sia in grado di rispondere, difendendo dapprima le maggiori città russe, e poi l’intero paese, con una sorta di “cupole”, costituite da complessi missilistici S-350 “Vitjaz”, S-400, “Pantsir”, “Vulkan terzo”.

Questo per la difesa. Per l’attacco, il complesso aereo dell’aviazione a lungo raggio russa (PAK-DA) a tecnologia stealth sarà presto in grado di superare, senza essere intercettato, le difese anti-aeree NATO. E, pur restando per ora inattuato il piano di una base aerea russa in Bielorussia, si sta facendo più stretto il coordinamento militare tra i due paesi, con la creazione di centri di addestramento congiunto delle forze aeree e di difesa anti-aerea e i sistemi missilistici antiaerei nelle regioni di Grodno, Brest e Minsk concedono tempo sufficiente ad allertare i sistemi anti-aerei russi a Smolensk e Mosca.

Per di più, secondo il politologo israeliano di origini russe Jakov Kedmi, la nuova strategia di difesa nazionale russa, renderebbe addirittura priva di senso l’esistenza della NATO, dal momento che, in caso di attacco alla Russia, Mosca risponderebbe con rappresaglie non solo sui territori di partenza dei missili convenzionali, ma anche contro il centro decisionale, cioè gli Stati Uniti.

Così che, sostiene Kedmi con un ottimismo forse eccessivo, gli USA non potranno più persuadere l’Europa ad attaccare la Russia, e poi nascondersi dietro di essa.

Ora, a proposito della NATO, il capo-redattore dell’agenzia Realist, Sarkis Tsaturjan ricorda comunque come Mosca abbia a lungo tentato di farsi accogliere nell’organizzazione. È vero che varie ex Repubbliche sovietiche sono entrate nell’Alleanza atlantica e altre, pur non facendone parte, ne sono partner diretti; ma, scrive Tsaturjan, la prima a mirare all’ingresso nella NATO è stata a suo tempo la Russia.

Addirittura, «il 31 marzo 1954, un anno dopo l’assassinio di Iosif Stalin, l’URSS fece il primo tentativo ufficiale di entrare nella NATO». Il 7 maggio successivo, Washington, Londra e Parigi rispondevano picche e allora, esattamente un anno dopo, nasceva il Patto di Varsavia.

A metà anni ’80 si tornò a parlare in via non ufficiale di adesione alla NATO e il tema è stato toccato durante le presidenze El’tsin, Putin e Medvedev. A marzo 2000, Vladimir Putin, in un’intervista alla BBC, alla domanda se ritenesse possibile l’unione della Russia all’Alleanza, rispose «Perché no? Non escludo tale possibilità, se la Russia verrà considerata partner a pieno diritto».

Nel giugno 2017, intervistato da Oliver Stone, Putin disse «Ricordo uno dei nostri ultimi incontri col presidente Clinton. Nel corso di colloqui a Mosca, io gli dissi “Può darsi che esaminiamo una variante, per cui la Russia potrebbe entrare nella NATO”. E Clinton rispose “Perché no, io non sono contrario”. Dunque, osserva Tsaturjan, perché «meravigliarsi della collaborazione del Cremlino con la Turchia, membro della NATO, ad esempio in Siria e nel Caucaso?».

Questo, dal punto di vista militare. Sul piano più immediato e diretto della contrapposizione economica e politica tra Washington, Mosca e Pechino, e delle contromosse russo-cinesi all’attacco USA e UE, la Deutsche Wirtschaftsnachrichten parla dell’invito di Sergej Lavrov all’omologo Wang Yi, per un graduale sganciamento di Russia e Cina dal dollaro USA, a favore di valute nazionali o alternative, e per rafforzare la collaborazione strategica.

Mosca infatti non nasconde la preoccupazione per alcune possibili mosse yankee. Il portavoce presidenziale Dmitrij Peskov ha dichiarato che si devono considerare tutte le possibili minacce, inclusa quella di escludere il settore bancario russo dal sistema dei pagamenti interbancari SWIFT (Society for worldwide interbank financial telecommunications; l’URSS vi aderì nel 1989), dato che gli istituti finanziari russi sono tra i tre leader mondiali come numero di transazioni.

Come ricorda Andrej Zakharčenko su Svobodnaja pressa, negli ultimi sette anni, la minaccia di escludere Mosca dal SWIFT è risuonata almeno due o tre volte; ma, dopo gli ultimi eventi, il pericolo si è fatto oltremodo concreto, pur se vari analisti russi sostengono che Mosca abbia da tempo adottato misure per ovviare a tale eventualità.

A ogni modo, German.china.org riporta che, secondo il Ministero degli esteri cinese, Mosca e Pechino concordano sul fatto che gli USA dovrebbero «porre fine alla loro tirannia e smetterla di immischiarsi negli affari interni di altri paesi».

La due-giorni Lavrov-Wang, a poca distanza dal conflittuale incontro Wang-Blinken in Alaska, ha portato Wang a dichiarare alla Tass che, «Nella situazione attuale, è importante per noi parlarci come partner strategici globali e rafforzare la nostra interazione strategica». Chiaro.

In mezzo, la UE. Per la prima volta dopo più di 30 anni, ha imposto sanzioni (abbastanza simboliche) contro la Cina, col ritornello dei “diritti violati degli ujguri” nel Xinjiang. Pechino ha reagito tempestivamente e ha subito annunciato contro-sanzioni.

Analizzare la sostanza delle accuse UE, scrive Rubaltic, sarebbe rendere un «onore immeritato a Bruxelles. Immersi nell’ipocrisia, gli europei hanno dimostrato mille volte che i diritti umani sono per loro un manganello diplomatico, che usano o meno, in base all’opportunità politica. Se l’Europa chiude gli occhi sulla discriminazione dei russi nei paesi baltici, allora non sta a lei dire qualcosa sugli ujguri».

In termini di politica reale, continua Rubaltic, le sanzioni UE contro la Cina costituiscono davvero una pietra miliare. È stata tracciata una linea nella fase trentennale di sviluppo delle relazioni tra Pechino e l’Occidente. Quella linea, gli Stati Uniti l’avevano già tracciata diversi anni fa, e il fallimento dei primi colloqui sino-americani dell’amministrazione Biden conferma come la proclamazione di Pechino quale “principale minaccia strategica” non fosse un capriccio personale di Donald Trump.

Ora lo ha capito anche l’Europa, che dunque traccia quella linea, anche se sotto Trump aveva sperato che l’esacerbazione contro la RPC fosse temporanea e aveva cercato di sviluppare una graduale cooperazione economica con Pechino.

Tuttavia, strategicamente, conclude Rubaltic, gli alleati europei seguiranno sempre il percorso della geopolitica americana. Se l’ostilità verso la Cina non è un capriccio di Trump, ma un “consenso bipartisan” di Washington, allora bisogna agitare il manganello delle sanzioni e parlare dei “diritti degli ujguri”.

Dunque, la situazione è molto seria, in particolare per quegli “alleati” vassalli da settant’anni a rimorchio del carro yankee; ma, non meno, per quelli che possono pretendere a una certa libertà di manovra (il Centro francese per gli studi interdisciplinari, composto di ex alti ufficiali, in una lettera aperta a Stoltenberg, lo ha accusato di fare solo gli interessi USA, nel piano NATO per il 2030) come la Germania con il “North stream 2”. La situazione è seria per Pechino e per Mosca, costrette a destreggiarsi con un elemento che, in preda a spasmi ossessivi, diventa ancor più pericoloso.

Ciò non impedisce a una parte dei comunisti russi di ricordare come, prima della fine dell’Unione Sovietica, il rapporto di forze mondiale fosse del tutto diverso e come buona parte dei russi si senta oggi offesa non soltanto dalle parole di Joe Biden all’indirizzo di Vladimir Putin, ma anche dalle scelte di chi continua sulla strada intrapresa dal Cremlino più di tre decenni fa: «Non è Biden che ci offende. I cittadini di quello che un tempo era un grande paese sono offesi dalla povertà vergognosa e dalla umiliante disoccupazione. Ci offendono il “Centro El’tsin” e il monumento a Solženitsyn… ci offendono le calunnie contro l’Unione Sovietica e i suoi leader.

Ci offende la senatrice Narusova, che definisce “bestiame” chi protesta. Ci offende Simonjan, che senza merito guadagna milioni e invita a non pretendere pensioni degne di una persona… Ci offendono i ritratti del criminale Kolčak nelle strade… ci offende la crescente fascistizzazione, allorché si cerca di separare l’ideologia antifascista dalla Vittoria sul fascismo e si copre il Mausoleo nel giorno della grande vittoria sul fascismo… Tutto questo non l’ha fatto Biden o un qualche inglese; lo avete fatto voi del partito Russia Unita».

Se, oltreoceano, il blogger americano Billmon, nel suo Moon of Alabama, scrive che «Agitando i pugni l’America va verso la catastrofe e l’aggressività contro Cina e Russia accelererà il declino USA», allora, come dar torto a chi, in Russia, si sente sotto attacco non solo dell’imperialismo yankee, ma anche del capitale di casa propria!?

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