La forza e la potenza di una nazione si misurano in genere nei momenti di cosiddetta emergenza. L’Amerika non fa eccezione, ed è percorsa ormai da tempo da una crisi di egemonia mondiale di enorme portata e di difficilissima gestione.
L’esperienza e la maestria nello sfruttare uno stato d’emergenza permanente e strutturale, che attraversa da sempre la storia degli USA, ha però permesso loro di mettere in campo gli strumenti necessari per consentirle di gestire una situazione anomala anche per la potenza d’oltreoceano.
E’ indispensabile dimostrare al proprio elettorato che la classica forza di reazione statunitense è ancora l’arma vincente, che il pragmatismo della nazione a stelle-e-strisce sul quale poggia la più gran parte dell’“american way of life”, è la soluzione, e che insostituibile è la potenza che risiede nel denaro e nell’impianto privatistico di una nazione.
Donald J. Trump possiede per definizione tutti questi strumenti. Almeno sembra, a metà paese.
Ma anche il paese delle opportunità, e del “destino manifesto”, ha i suoi scheletri nell’armadio e che anche se l’ex presidente, il tycoon Donald Trump, ha tanti difetti gli si può anche riconoscere un “pregio”: ha scoperchiato un vaso di Pandora che sta mettendo sempre più in contraddizione, ed in crisi conseguente, il GOP, lo storico Partito Repubblicano, il suo stesso schieramento di appartenenza.
Ma non sembra un padre interessato all’infanticidio.
Di fatto, dietro questo stallo, l’uomo che ha guidato il paese negli ultimi quattro anni percepisce un proprio tornaconto, e cela un disegno.
Fra continue schermaglie interne, accuse di tradimento e continui abboccamenti ai gruppi più estremisti, il progetto di Trump potrebbe andare in porto forse anche prima del previsto. Il suo primo orizzonte potrebbero essere già le elezioni di midterm del 2022.
Si fanno molte ipotesi su chi saranno i protagonisti dei prossimi momenti nevralgici per la politica amerikana, i ticket con questo o quel “politico del momento” si sprecano, ma The Donald è persona senza scrupoli, molto machiavellico, pronto a sacrificare o sfruttare chiunque per il “bene della nazione”, per la ragion di Stato. O magari solo per se stesso.
Sembra perciò sempre più probabile che l’uomo destinato a guidare l’offensiva verso l’amministrazione Biden sia proprio il tycoon del i
…Have you ever seen the President who killed your wounded child?
Or the man that crashed your sisters plane claimin’ he was sent of god?
And when she died in your arms, late that night in the dark,
Did you pray to your God to come home?
‘Cause it ain’t fair to say, that these tracks are the same
So god if you can hear me crash this train
Said god if you can hear me crash this train
Now a note to the President, and the Government, and the judges of this place
We’re still waitin’ for you to bring our troops home, clean up that mess you made
‘Cause it smells of blood and money across the Iraqi land
But its so easy here to blind us with your “United we stand”
And it ain’t hard to see that this country ain’t free
So god if you can hear me crash this train
Said god if you can hear me crash this train…
Joshua James, Crash This Train
La Convention di Orlando
Il futuro del GOP (o Grand National Party, il Partito Repubblicano USA) e i progetti politici del tycoon Donald Trump sono sostanzialmente tutti nel discorso tenuto dall’ex presidente alla Convention del CPAC (Conservative Political Action Conference), il più imponente ed influente raduno di attivisti conservatori, che si è svolta ad Orlando, in Florida alla fine del mese scorso. Il primo evento ufficiale cui l’ex presidente ha partecipato dopo aver lasciato la Casa Bianca.
Dopo circa un mese, una sintesi a “bocce ferme”, è quindi opportuna e magari illuminante.
La polemica è iniziata subito, pochi giorni prima dell’inizio della conferenza, e si è concentrata sul design del palco realizzato proprio per la Convention dei conservatori. “Sembra un simbolo nazista”, hanno criticato in molti, facendo notare come il disegno ricordi non proprio una svastica, piuttosto la runa Odal che durante la seconda guerra mondiale appariva sui vessilli e le uniformi della Settima divisione volontari di montagna delle SS ‘’Prinze Eugen’’, un reparto di fanteria che operò nella ex Jugoslavia.
Il termine Odal deriva dall’antica lingua germanica e significa “patrimonio”, “eredità”. Gli organizzatori del CPAC negano quella che liquidano come “una calunnia, una teoria cospirazionista oltraggiosa e diffamatoria”. “I nostri legami con la comunità ebraica sono di vecchia data e gli estremisti della ‘cancel culture’ devono guardare all’antisemitismo presente dalla loro parte”, il commento di Matt Schlapp, presidente e organizzatore del CPAC.
Tuttavia, note di “colore” a parte, se si effettua un monitoraggio delle azioni e reazioni di alcuni personaggi politici messe in campo nelle settimane a seguire, e si osservano alcuni avvenimenti che si sono susseguiti, il tutto lascia trasparire una certa aria di imbarazzo, di confusione, in sintesi di crisi interna al Partito conservatore.
E’ qualcosa che odora anche del profumo della vendetta, una resa dei conti che porta il numero 2024, la data delle prossime presidenziali USA.
La platea era formata dal “suo” pubblico, e gli invitati che hanno sfilato erano i fedelissimi: l’ex segretario di Stato Mike Pompeo, la governatrice del South Dakota, Kristi Noem, e il senatore dello Stato della stella solitaria, il Texas, Ted Cruz. Gli altri, neanche invitati, sono rimasti all’asciutto, a Washington.
E’ questo il caso di Nikki Haley, l’ex ambasciatrice americana all’Onu e papabile come contendente per la Casa Bianca nel 2024, di cui abbiamo già scritto dopo la sua intervista rilasciata a Politico, nella quale prendeva le distanze dall’ex presidente per l’assalto al Congresso, per poi azzardare in seguito, un avvicinamento alla sua base che ha scatenato una forte reazione da parte del tycoon.
Anche Liz Cheney, terza carica del GOP alla Camera, da sempre critica con l’ex presidente, è finita nell’inceneritore dopo le dichiarazioni al vetriolo all’indirizzo di The Donald quando, dopo aver affermato che “Dopo i fatti del 6 gennaio ritengo che non dovrebbe giocare [Donald Trump N.d.R.] alcun ruolo nel futuro del partito e del paese”, suggerì di fatto alla CPAC di non invitare Trump.
Per tutta risposta il deputato Rep. dell’Arizona, Andy Biggs (guarda caso tra gli speaker della CPAC), ha tuonato che proprio la Cheney “dovrebbe dimettersi”.
Queste alcune delle prese di posizione dell’ala detrattrice di The Orange che, vale la pena ricordare, è fortemente minoritaria all’interno del partito conservatore, rilevate in questi ultimi giorni ed a margine della convention.
Di altro avviso l’ala dei conservatori più moderata e considerata da The Donald come quella dei “traditori”, soprattutto i parlamentari che lo scorso gennaio hanno votato per la condanna del tycoon nel processo di impeachment e che si è espressa obtorto collo.
Più discreto e defilato è apparso Mitch McConnell, leader di minoranza al Senato e con una fama da abile stratega alle spalle; fiutando l’aria che tirava, dopo i rilievi è corso ai ripari: “Se Trump si candidasse, lo voterei”.
Così anche l’ex vice presidente Mike Pence, altro grande assente alla CPAC: dice di aver declinato l’invito ma assicura di avere un “ottimo rapporto” con il suo ex capo.
“Se Trump puntasse alla nomination repubblicana, sicuramente la otterrebbe”, prevede, da parte sua anche se a malincuore, Mitt Romney, l’ex candidato repubblicano alla presidenza, stella del summit conservatore nel 2012.
L’atteso intervento di Trump ad Orlando invece ha riguardato principalmente la sua corsa per il 2024.
“Vi sono mancato?”, ha esordito l’ex presidente, con un manifesto tono stucchevole. “Il nostro viaggio iniziato insieme, 4 anni fa, è ben lontano dall’essere finito”.
Ha quindi continuato con un attacco senza precedenti contro Sleepy Joe Biden, mantenendo i toni enfatici e sopra le righe che da sempre contraddistinguono il suo personaggio e hanno definito la sua presidenza, infarcendo il tutto di una buona dose di retorica che non fa mai male, e ricordando soprattutto alla platea che “Tutti sapevamo che sarebbe andata male, ma nessuno di noi immaginava così male”.
Durante l’intervento il tycoon ha accusato il presidente democratico di aver riaperto i confini con il Messico favorendo l’immigrazione clandestina e mettendo a repentaglio la sicurezza del paese nel permettere. “A centinaia di potenziali terroristi e criminali è stato permesso di entrare negli Stati Uniti…”, arrivando ad affermare che Sleepy Joe “…Ha cancellato la sicurezza dei nostri confini e sta trasformando il nostro Paese in una ‘nazione santuario'”….
Il neo presidente avrebbe inoltre distrutto posti di lavoro e danneggiato l’economia. “Nel giro di nemmeno un mese, siamo passati da America first ad America last. Joe Biden ha vissuto il peggior primo mese da presidente nella storia moderna”.
Trump si è poi attribuito il successo della campagna di vaccinazione contro il coronavirus in Amerika. “Joe Biden sta solo attuando il mio piano”, ha dichiarato. I tre vaccini approvati “sono un miracolo della mia amministrazione”, rivendica Trump, ricordando l’operazione Warp Speed da lui messa in piedi, e gli investimenti miliardari nella ricerca e produzione di sieri contro il Covid-19.
Il tycoon ha quindi puntato il dito contro l’amministrazione Biden anche per aver “venduto i ragazzi americani ai sindacati degli insegnanti”. Biden “ha vergognosamente tradito i giovani americani tenendoli chiusi a chiave in casa. Chiedo a Biden” – dice – “di aprire le scuole e di farlo subito”.
Addirittura lo sport, ed i record delle donne, con il benestare del nonno d’Amerika, sarebbero minacciati dalla presenza dei transgender, grazie alla permissiva amministrazione democratica.
Non ha risparmiato neanche i giganti della tecnologia e ha proseguito sostenendo che “Bisogna punire Big Tech e i social media, da Twitter a Facebook, quando silenziano la voce dei conservatori. E se non lo fa il governo federale lo devono fare i singoli Stati“, sottolineando come gli USA devono difendere la libertà di espressione e di parola.
Un attacco non casuale, visto che l’ex presidente è stato “bannato” dai principali social networks. Pizzica le corde del GOP sull’amore per l’Amerika e per la bandiera e difende a spada tratta il Secondo Emendamento, il diritto a portare armi.
Non ha dimenticato di rilanciare le sue accuse sulla tornata elettorale, dichiarando come un disco rotto che “…Queste elezioni sono state truccate… Hanno cambiato l’esito del voto… Una vergogna…Gli abusi del 2020 non devono accadere mai più, non dobbiamo più permetterlo…” Per terminare con un una sorta di self endorsement: “Potrei anche decidere di batterli per la terza volta…”, dando per scontato, come ha sempre sostenuto, che la seconda “vittoria” gli sia stata rubata con i brogli elettorali del 2020.
Quanto alla ricandidatura nel 2024, “…rimanete in ascolto…”, ha annunciato, esprimendo in modo chiaro la volontà di non ritirarsi: Potrei candidarmi di nuovo”.
Fra sondaggi e “rivelazioni”.
Poco prima del discorso dell’ex presidente Usa, sono stati resi noti i risultati del tradizionale “straw poll’’ (un informale sondaggio d’opinione) che ogni anno chiude i lavori della CPAC.
Il partito ha assegnato una schiacciante vittoria a Donald Trump: tra i possibili candidati repubblicani per le presidenziali del 2024, il 55% dei presenti alla kermesse ha espresso la sua preferenza per l’ex presidente, il cui gradimento complessivamente si attesta al 97%. Nel sondaggio fatto dagli elettori conservatori presenti alla convention di Orlando quindi, la stragrande maggioranza sta con lui; in fondo è una non notizia.
Il 21% ha votato per il governatore della Florida Ron De Santis, astro nascente del partito repubblicano, e il 4% per la governatrice del South Dakota, Kristi Noem, entrambi comunque sostenitori di Trump.
Secondo i risultati di una recente ed interessante ricerca effettuata dal Pew Research Center *, l’ala conservatrice di un partito richiede ai loro leaders una lealtà al partito stesso molto più forte di quella che potrebbe essere richiesta da uno schieramento liberale o comunque più moderato.
In sintesi, la ricerca analizzava quanto e come fosse percepito, fra i membri del Congresso, un eventuale sentimento di consenso o disapprovazione ad un proprio leader (come ad esempio nel caso dell’impeachment a Donald Trump), sia all’interno del partito di riferimento, che comparato fra Partito Democratico e Partito Repubblicano.
Nello specifico, era accettabile che un qualsiasi leader di partito fosse schierato con un punto di vista che confliggeva con la visione del partito medesimo, e, se sì, fino a che punto?
Come spesso succede, quando cose evidenti vengono guardate ma non sempre viste, dalle conclusioni dello studio derivano alcune ovvietà che spesso sfuggono, ma che svelano delle realtà che altrimenti passerebbero inosservate: nel Partito Democratico, per sua natura “riformista” e “progressista” e quindi più incline al “dissenso”, anche se inteso in senso molto lato, sono i democratici dell’ala più liberale, e non quelli più “radicali” o i repubblicani quelli che criticano con più facilità un comportamento inopportuno, sopra le righe, quando è ritenuto un dovere vincolante di un rappresentante delle istituzioni come è un presidente degli Stati Uniti, o una carica dello Stato. Mentre su temi più generali, più “leggeri”, i moderati repubblicani e quelli democratici si equivalgono.
D’altra parte, i repubblicani moderati sono quelli che, pur non controllando il Partito (il GOP infatti viene gestito soprattutto dai conservatori più radicali), si schierano generalmente a favore del dissenso nei confronti di un Presidente, molto semplicemente perché a loro volta, sono lontani dalla visione più tradizionalista del Partito di riferimento.
Ne discende che queste scelte dipendono da chi detiene il potere nel partito, ergo: il controllo di entrambi i partiti USA è riservato allo schieramento moderato.
Che in questo momento sta vivendo un periodo di forte crisi di identità politica, effetto della crisi del concetto di “politically correct”.
La divisione dei Repubblicani, però, non si è fermata ai soli membri del Congresso ed è arrivata a coinvolgere anche gli elettori. Un recente sondaggio condotto da Politico, infatti, mostra che il 59% degli elettori repubblicani vorrebbe che Trump “avesse un ruolo prominente” nel futuro del partito, mentre il 54% sarebbe disposto ad “appoggiarlo alle prossime primarie presidenziali”.
Nonostante la deludente sconfitta delle ultime presidenziali, dunque, Donald Trump continua a tenere fra le mani il destino del Partito Repubblicano, che fatica a trovare nuovi leader capaci di guidare questa nuova fase di transizione.
Punta a guidare il GOP alla riscossa fino alle elezioni di medio termine. Ci riuscirà? Stando a un sondaggio (della Quinnipiac University), tre repubblicani su quattro vogliono che giochi un ruolo di primo piano nel partito.
Tra questi c’è il senatore Lindsey Graham: “Se seguiamo il presidente Trump, vinciamo nel 2022, se ci dividiamo, perderemo di sicuro”, ha dichiarato.
Il tycoon ha quindi posto condizioni zero: o il candidato alle elezioni del 2024 è lui o lo sceglierà lui. È la dura legge del consenso, e ancora una volta la prova della piazza (materiale e virtuale) premia Trump. Lo ha ricordato lui stesso quando, parlando di sé in terza persona, ha snocciolato i 75 milioni di voti “conquistati dall’incumbent”.
Il suo intento è congelare la partita in favore della propria nomination, coltivando fino in fondo la sua vendetta contro i repubblicani che non gli sono rimasti fedeli; gli effetti nei sondaggi già si sentono, basta guardare alle quotazioni del governatore della Florida Ron De Santis – una delle poche figure politiche in ascesa – comparandole a quelle di Marco Rubio, in rapida discesa.
Poi ha dettato la linea al Grand Old Party: “La missione del nostro movimento e del partito repubblicano è creare un futuro con buoni posti di lavoro, famiglie forti, comunità sicure, una cultura vibrante e una grande nazione per tutti“, ricordando che il GOP è un partito fondato sull'”amore per l’Amerika”, che difende la bandiera ed è contro la “cancel culture”.
Il GOP di The Donald “Orange” Trump sarà decisamente un partito spostato definitivamente e fortemente a destra. Un GOP, a cui imporrà la sua linea aiutato dalla forza del proprio elettorato e degli appoggi interni al partito ancora entrambi molto forti.
La crisi di identità politica del GOP
Il partito repubblicano è a un bivio ma la battaglia per le elezioni di medio termine è già iniziata.
Nella sua prima uscita pubblica da ex presidente, Trump ha accantonato l’idea di lanciare un nuovo progetto politico, (indiscrezioni alludevano ad un MAGA 2.0) rinforzando la propria presa sul Partito Repubblicano e, confidando in un brand più che affidabile, aprendo alla possibilità di candidarsi per un altro mandato nel 2024.
Dopo la sconfitta alle ultime presidenziali, infatti, il GOP si trova alle prese con un’aspra divisione interna fra i sostenitori del tycoon e l’ala più moderata del partito, che al momento si trova in netta minoranza.
Ma secondo gli elettori repubblicani, pur convenendo nel gran rilievo di persone come Marjorie Taylor Greene, il GOP e il centro dell’universo repubblicano sono una persona sola: Donald Trump
L’avviso a Biden è che le speranze di dividere i repubblicani sono in realtà minime,, l’avvertimento agli avversari interni è che la loro rielezione passa per il detto e non detto di The Donald. Quando fa l’elenco dei nemici del GOP, scandisce i nomi con precisione chirurgica, li accusa di tradimento, di intelligenza con il nemico democratico: “bisogna liberarsene”.
Sei con me e sei eletto, sei contro di me e vai a casa: “Il mio endorsement è un potente strumento politico”.
Il suo più grande avversario tra i democratici, il governatore di New York Andrew Cuomo, è in difficoltÀ, rimasto impigliato nelle accuse di sessismo al punto da fare una dichiarazione di scuse proprio durante lo show di Trump. Il sindaco di New York Bill De Blasio è contestato dai circoli Dem della Grande Mela per la gestione dei lockdown, e “Chuck” Schumer, senatore dello stesso Stato, ha una leadership traballante.
Resta invece salda la navigatissima Nancy Pelosi, ma il gruppo progressista è a dir poco effervescente e ha chiesto alla Casa Bianca spiegazioni sul bombardamento del Pentagono in Siria. L’amministrazione Biden può vantare una campagna di vaccinazione galoppante, ma anche qui Trump ha sfoderato le frecce per il suo arco: “Ho investito miliardi nei vaccini, con quello di Johnson & Johnson ne abbiamo tre e la produzione è merito mio“. Biden “…sta solo attuando il mio piano“.
Segnali dal futuro? Intanto l’emersione ormai chiara dell’italo americano Ron De Santis, come nuova star dei repubblicani.
Il governatore della Florida ha tenuto botta durante l’emergenza Covid-19, con il lockdown duro non ha chiuso le attività economiche, ha applicato una ricetta fatta di conservatorismo e pragmatismo, e oggi appare il numero due dopo Trump, nel GOP. Tutto questo a molti fa pensare a un ticket Trump-De Santis per il 2024, e forse dopo la performance di Trump alla Convention di Orlando non è un’ipotesi poi troppo lontana dalla realtà.
Entrambi vengono dal Sunshine State, sono aperturisti, contro l’establishment washingtoniano del partito, amati dalla base che ha in Rush Limbaugh (il conduttore radiofonico scomparso qualche settimana fa) un suo riferimento culturale.
Altri bagliori dal domani? La manovra chiara di Trump per assicurarsi il controllo totale del GOP rimane l’unica certezza: “Non farò un nuovo partito, è una fake news. C’è il GOP, sarà unito e più forte che mai“.
Il solco è tracciato. La sintesi: elezioni di midterm nel 2022 e poi, nel caso di un ribaltone alla Camera e al Senato, la strambata di nuovo verso la Casa Bianca tra quattro anni. Le primarie? Per ora sono una formalità. In fondo, il nuovo inizio dei repubblicani ha un titolo, la frase con cui Trump ha aperto il suo primo discorso da ex presidente: “Vi sono mancato?”.
QAnon e le milizie della destra estrema
La marcata presenza di Trump nella realtà politica d’Amerika è sicuramente un fatto.
Il riconoscimento di Trump come alfiere e paladino dei valori della tradizione amerikana, e più specificamente di tutto il ciarpame razzista che ruota intorno ai gruppi wasp (anglosassoni bianchi e protestanti), da parte di una consistente fascia di popolazione fortemente legata a questi principi, è un altro fatto.
E l’assalto alla sede del Congresso USA di Capitol Hill il 6 gennaio scorso ne è la prova tangibile.
A tre mesi da quell’assalto le inchieste continuano, e non accennano a diminuire episodi che allarmano fortemente le forze federali e di l’intelligence interna.
E se l’FBI e la Homeland si muovono vuol dire che qualcosa bolle in pentola; si moltiplicano infatti i reports nazionali che dimostrano il tentativo di riorganizzazione di gruppi estremisti e di milizie armate di destra.
Le forze di intelligence hanno addirittura cancellato la seduta del Congresso del 4 marzo scorso perché erano trapelate notizie di un probabile nuovo tentativo di assalto alla sede di Washington da parte, nel caso specifico, di un gruppo collegato ai complottisti di QAnon.
La cosa ha scatenato l’ira di diversi senatori di entrambi gli schieramenti, i quali hanno dichiarato di non volersi piegare davanti a quello che ritengono essere un ricatto bell’e buono: “Il Congresso non può permettersi di farsi bullizzare da quattro esaltati…”
Le inchieste continuano e attraverso le riprese video sono stati identificati molti degli assalitori. Si sta invece ancora cercando il presunto uomo che è stato ripreso da una telecamera mentre depositava una borsa con dell’esplosivo davanti alle sedi dei due partiti (Dem e Rep); come si dice, per non far torto a nessuno.
Il tenore degli interventi nei social di riferimento della estrema destra miliziana, monitorati di continuo, e che l’ex presidente continua a blandire, è tutt’altro che pacifico; nei giorni scorsi l’Intelligence interna ha dichiarato uno stato d’emergenza ad alto rischio per violenze a livello nazionale per tutto il 2021, dichiarando ufficialmente che il tono “very aspirational” (molto ambizioso, con aspirazioni ed obiettivi auspicabili) che filtra dagli ambienti eversivi e dai propri organi di riferimento e che attraversa il paese, non promette “nulla di buono”.
E’ stato approvato dal Congresso l’aumento del contingente della Guardia Nazionale e posticipata la data di fine ingaggio di altri 60 giorni.
Altre sei persone membri degli Oath Keepers sono state incriminate per l’assalto al Congresso, fra cui Kelly Meggs, autonominatosi leader della sezione della Florida e sua moglie. Sembra stessero collaborando con altri “patrioti” arrestati in differenti parti del paese, segno che la rete è abbastanza ramificata un po’ ovunque.
Il leader dei Proud Boys, esule cubano anticastrista ed ex (?) informatore dell’FBI, fa sapere attraverso Telegram che “l’organizzazione, anche se percorsa da qualche piccola incrinatura interna, non ha nessuna intenzione di spaccarsi e sarà sempre al fianco del partito dei Patrioti, che non potrà avere un’altra guida se non quella di Donald Trump”.
Tuttavia non è solo per ragion di orgoglio o per personalismi egotici che The Donald non abbandonerà la base più estremistica rappresentata da questi gruppi, vicini al suprematismo bianco e dalle milizie armate; si avvarrà della loro cooperazione, sì, per ragioni di comodo, quanto per evidenti aiuti di tipo strettamente “militare” ritenendo il loro appoggio utile, in un futuro non ben definibile nel tempo.
Molto probabilmente cercherà di trovare un punto di equilibrio, altalenando secondo convenienza aperto sostegno ed affrancamento non completamente sincero. In perfetto stile “Principe” del Machiavelli.
Esauriti, per dovere di cronaca, gli aggiornamenti sulle novità dal fronte della destra estrema, è sicuramente indispensabile focalizzare l’attenzione sui passi dell’ex presidente, per cementare la sua leadership all’interno del GOP.
Il potere del denaro è immenso ed è alla base della crescita del Capitale.
Secondo indiscrezioni del Washington Post di alcuni giorni addietro, il tycoon ha dato alla luce una nuova creatura, la “Save America PAC”, un’entità interamente controllata dallo stesso Trump, una sorta di piattaforma per incassare denaro e farlo poi pervenire nel proprio progetto politico. Molti contributi erano già confluiti nel GOP attraverso il comitato per la campagna di rielezione, ma è soltanto dopo l’istituzione della “Save America” che l’ex presidente ha potuto entrare in possesso di una cifra notevole di denaro da aggiungere al resto: 31.5 milioni dollari. Una discreta cifretta.
Il passo subito successivo, che ha palesato nelle dichiarazioni della CPAC, sarà quello di “fidelizzazione” dei suoi alleati più conservatori, compito facile apparentemente, ma anche di quelli che lui ritiene essere gli “infedeli”. Si profila un’epurazione o un’indispensabile flessione alla sua linea. Viene in mente la “notte dei lunghi coltelli” del 30 giugno 1934 nella cittadina bavarese di Bad Wiessee in Germania. Dopotutto le sue origini familiari sono di ceppo germanico.
Ma quello era un altro secolo.
Di sicuro il tycoon vuole difendere il GOP, la “tradizione della famiglia” va mantenuta, e sarebbe troppo dispersivo e quindi pericoloso fondare un nuovo partito. Parole sue.
Anche se la Storia, in fondo, ci ha insegnato che le “giacche blu” parlano sempre con lingua biforcuta.
* Il Pew Research Center è un think tank statunitense con sede a Washington che fornisce informazioni su problemi sociali, opinione pubblica, andamenti demografici relativi agli Stati Uniti ed al mondo in generale. Conduce sondaggi tra l’opinione pubblica, ricerche demografiche, analisi sul contenuto dei media, e altre ricerche nel campo delle scienze sociali empiriche. Non prende esplicitamente posizioni politiche.
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