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Sette soci in crisi, che vorrebbero sembrare forti

Qualche compagno, subissato dalla “comunicazione mainstream” – difficile chiamarla ancora “informazione”, visto che semplicemente duplica le veline di governo – ci ha chiesto se davvero la riunione del G7 sia stata un fallimento, come l’abbiamo definita noi.

In effetti lo capiamo. Uno apre per abitudine il sito (o il cartaceo) di Repubblica e si trovata sparato in faccia quel titolo “Il G7 contro gli autocrati”, che annuncia la prossima guerra alla Cina, ed è indotto a pensare che dietro ci sia una solida alleanza, basata sulla forza economica e e sulla scarsa interconnessione delle economie est/ovest, come ai bei tempi della Guerra Fredda.

Se poi ascolta la tv è bersagliato ad ogni ora da una valanga anticinese e antirussa. In un tg senti che Mario Draghi “ha dato la linea al G7” (come se Biden & co. fossero venuti a consulto dal primario). Su La7 senti come sempre Milena Gabanelli nel suo nuovo ruolo di front-woman del libero mercato “contro le contraffazioni cinesi”.

In un altro programma, sulle tv di Berlusconi, sei prima indotto a simpatizzare con gli Uiguri (etnia turcofona di religione islamica che vive nello Xinjiang), mentre poi, in altra parte della stessa trasmissione, sei invitato a sparare contro gli islamici presenti in Italia, o quantomeno a pretendere la loro cacciata.

Difficile orizzontarsi da soli in tanta melma. Dovresti avere le informazioni e le competenze economiche per contestare a Gabanelli, per fare un esempio, che i “36,5 milioni di prodotti cinesi sequestrati in tre anni dalla Guardia di Finanza” sono una frazione insignificante del commercio esistente tra Italia e Cina: 28,5 miliardi, di cui 15,9 miliardi di importazioni dalla Cina verso l’Italia, 12,6 miliardi di dollari di export dall’Italia a Pechino.

Dovresti sapere che le importazioni cinesi dall’Italia sono aumentate lo scorso mese del 75% (molto più di quanto non sia avvenuto per Francia e Germania, “solo” +53 e +34%). Insomma, che l’Europa in questo momento vende soprattutto in Cina e sarebbe bene che continuasse a farlo, visti i chiari di luna della pandemia (che non è finita neanche con le vaccinazioni, come scopre la Gran Bretagna) e il prossimo ritorno alle politiche di “austerità” volute dall’Unione Europea.

Dovresti inoltre sapere che le merci di Pechino verso l’Europa e l’Italia sono sempre di più prodotti tecnologicamente avanzati e che la quota di “cineserie” da mercatino si va riducendo a residuo molto poco interessante.

Soprattutto dovresti pensare che quella robetta lì – giocattoli scrausi e persino pericolosi, prodotti griffati falsi, mascherine fuori norma, ecc – viene ordinata da imprese italiane che sperano di rivenderle a 3-4 volte il prezzo. E che questa miseria è la realtà della nostra struttura commerciale.

Insomma, dovresti sapere che non siamo più a 30 anni fa, quando le “cineserie” costituivano il grosso delle importazioni europee da Pechino, per avere a disposizione merci-salario a poco prezzo, mentre contemporaneamente qui si bloccava la dinamica salariale e si aprivano le dighe della precarietà di massa. Gente che guadagnava poco poteva permettersi di comprare solo roba di poco prezzo, come fanno gli americani che riempiono Wal-Mart. Le merci cinesi erano benedette, per questo.

Che c’entra questo con il G7?

E’ esattamente questo cambiamento di peso e ruoli quello che preoccupa in primo luogo l’amministrazione Usa (le cancellerie europee sono troppo occupate a imporre “condizionalità” sui prestiti agli Stati e a ripristinate il prima possibile il “patto di stabilità”).

E dunque Biden sperava in un accordo “alto e forte”, che innalzasse davvero la diga nei confronti della Cina, specie sul fronte europeo. Mentre i paesi europei (Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna) si facevano i conti in tasca e tiravano il freno.

Tant’è che alla fine del vertice ci sono stati due comunicati ufficiali. Uno “unitario”, un po’ più prudente, e uno solo statunitense, più “aggressivo”.

Ma entrambe le sponde dell’Alleanza Atlantica devono tener conto del rapporto forte che hanno costruito con la Cina negli ultimi decenni, quelli della “globalizzazione” trionfante. E dunque, come si usa tra soci truffaldini, ognuno prova a far pagare all’altro il costo più alto del diverso rapporto da contrattare con “il terzo”.

Specie se i soci atlantici stanno in difficoltà sul fronte che avevano dominato: quello delle tecnologie.

E’ di questi mesi la verifica del fatto che gli investimenti cinesi in “ricerca e sviluppo” hanno superato quelle statunitensi (vedi il grafico qui di fianco). Ma l’andamento è tale che entro i prossimi 4 anni anni si potrebbe creare un gap del 50%. Non a caso Biden sta cercando di convincere il Congresso a stanziare 250 miliardi di investimenti pubblici nel comparto, per non finire stracciati nel giro di un decennio. Oltre a promuovere guerre commerciali come quella sull’Open Ran

Persino il luogo comune sui “cinesi che copiano il nostro know-how” è ormai una storiella fuori tempo. Un altro grafico mostra come proprio gli Stati Uniti, da decenni, ricevono miliardi dalla Cina come pagamento dei diritti per l’utilizzo di brevetti statunitensi.

Ma se ti fai pagare per usare le tue conoscenze, perché poi ti lamenti dei risultati?

Chiedere coerenza ed onestà intellettuale in ambiente capitalistico è però quasi un ossimoro. E’ invece “normale” buttarla in caciara e gridare “al ladro di idee” quando l’altro – cui le hai vendute e le sa usare meglio – passa in vantaggio.

Peggio ancora. Il G7 non ha prodotto una sola idea o proposta “nuova” su come uscire dalla crisi pre- e post-pandemia. L’unica soluzione è ancora una volta il quantitative easing (le banche centrali che iniettano liquidità nel sistema finanziario, sperando che qualcosa arrivi anche all’economia reale e che ci siano imprese disposte a sfruttare l’occasione, anche se non accade da tempo). Ma dopo 14 anni sembra evidente che non funziona più…

I “nemici” individuati (Cina e Russia, appunto) stanno invece procedendo in modo diverso. La Cina – dopo aver finanziato di tutto e di più, aver alzato per tre decenni consecutivi i salari, costruito una sanità pubblica in stile “Italia anni ‘70” (non certo questa oggi distrutta dai tagli) – ha già cominciato a ridurre gli stimoli finanziari (è in fase tapering).

La Russia ha addirittura portato il tasso di interesse al 5,5%, preoccupata – forse troppo – dalle pressioni inflazionistiche esplose con la “ripartenza”, specie per quanto riguarda le materie prime, i chip, ecc.

In pratica, l’Occidente neoliberista è impantanato nella “trappola della liquidità”: le sue economie stanno sopravvivendo solo grazie a una quantità spaventosa di liquidità garantita dalle banche centrali (Bce e Federal reserve, in primo luogo). Mentre i competitor sono già avviati su una strada che la stessa “scienza economica” liberale ritiene fisiologicamente più “normale”.

Non si tratta di “fare il tifo”. Questa differenza infatti riflette un ben diverso “stato di salute”. E l’Occidente neoliberista è profondamente malato. Lo sa, ma non riesce a trovare una cura. E dunque mostra i denti, ma non osa mordere davvero. Per ora…

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