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Centro America nel suo bicentenario: c’è qualcosa da festeggiare?

Con l’indipendenza, le provincie del Capitanato Generale del Guatemala hanno preso le distanze dalla metropoli spagnola, però l’oligarchia ha continuato a sfruttare le popolazioni locali. Duecento anni dopo niente è cambiato.

Riassunto

Il Centro America è oggi una delle regioni più impoverite del pianeta. Con un’enorme asimmetria nella distribuzione della ricchezza e una storia di violenza, impunità, corruzione, razzismo e patriarcato, le sue élite al potere resistono ai processi di cambiamento, anche se fanno tiepide modernizzazioni dei loro Stati.

Ieri dipendente dalla Corona spagnola, oggi la regione dipende dagli Stati Uniti. In molti casi sembrerebbe che la storia si sia fermata in questa parte del mondo: persistono forme di relazione semifeudali, con situazioni precapitalistiche in alcuni casi, con complicate integrazioni nel mercato globale.

Le oligarchie locali, soci minori del capitale statunitense, non aspirano ad alcuna trasformazione. Le maggioranze popolari, però, hanno urgente bisogno di queste trasformazioni. I tentativi di cambiamento del secolo scorso (movimenti di guerriglia di sinistra) sono stati messi a tacere con sanguinose repressioni da parte degli Stati.

In questa logica storica, la celebrazione del Bicentenario dell’indipendenza formale della regione rispetto alla monarchia spagnola è un gesto vuoto, assurdo. O ancora di più: ipocrita.

Bicentenario?

Siamo nell’anno del Bicentenario dell’indipendenza dell’America Centrale. Che si festeggia? Cosa possono celebrare la grande massa lavoratrice della regione, i popoli indigeni che resistono nonostante l’invasione spagnola, le popolazioni che continuano a subire l’assalto della povertà cronica, delle recenti guerre interne e della violenza quotidiana? Niente.

L’unico festeggiamento possibile lo può lo può fare l’élite creola che 200 anni fa si è resa indipendente dalla Corona Spagnola, alla quale non ha più dovuto rendere tributi, per diventare signora e padrona di queste terre.

Forse ad altre latitudini, come ad Haiti, la grande massa degli impoveriti ha avuto motivo di celebrare l’inizio di una repubblica indipendente, liberata dal dominio coloniale francese nel 1804 – il secondo paese del continente americano a prendere le distanze dalle potenze imperialiste europee , dopo gli Stati Uniti-. Lì una vera ribellione di schiavi neri ha alzato la voce e si è resa indipendente.

Questo, sicuramente, può essere un motivo di evocazione attuale da parte del popolo haitiano, una delle nazioni più povere del pianeta (sistematica rivincita storica delle metropoli capitaliste?). Al contrario, qui in Centro America la grande maggioranza dei diseredati non ha molto da festeggiare.

Nel 1821 le oligarchie della regione, con a capo quella guatemalteca, presero le distanze dal Re di Spagna, liberandosi dalla pressione esercitata dalla corona non pagando più le tasse. La gente comune, come sempre, è stata il convitato di pietra in questo processo.

Per evitare la loro reale ed effettiva partecipazione a quell’evento politico, l’élite si affrettò a preparare le condizioni. Poche settimane prima della dichiarazione formale di tale indipendenza, le principali famiglie aristocratiche creole del Capitanato Generale del Guatemala – Aycinena, Beltranena – avevano sviluppato quello che divenne noto come il Piano del Pacifico, dove affermavano esplicitamente che:

“L’accettazione del Capo avrà come primo effetto la convocazione di una Giunta Generale dei residenti (con il pretesto di prevenire disordini nel caso in cui il popolo decidesse per l’indipendenza).”

In altre parole: hanno messo particolare attenzione al fatto che il “popolaccio” non andasse oltre l’essere un semplice burattino, che celebrasse questa nuova condizione di “libero” agendo come comparsa dell’élite, evitando così ogni radicalizzazione del provvedimento (cosa che era successa, ad esempio, ad Haiti).

È interessante notare che ciò che era stato segretamente concordato dall’aristocrazia locale, giorni dopo sarebbe stato trasformato in discorso ufficiale, secondo l’articolo 1 dell’Atto d’Indipendenza del 1821:

“Essendo l’indipendenza dal governo spagnolo la volontà generale del popolo del Guatemala, il capo politico ne ordini la pubblicazione, per prevenire le conseguenze che sarebbero terribili se il popolo stesso la proclamasse”.

Con l’avvento di questo processo, le cinque province del Capitanato Generale del Guatemala – Chiapas, Guatemala, San Salvador, Comayagua o Honduras e la provincia del Nicaragua e Costa Rica – hanno preso le distanze dalla metropoli ispanica, ma nelle dinamiche interne non c’è stato alcun cambiamento sostanziale.

La regione continuò ad essere un produttore di materie prime per il mercato estero, sfruttando senza pietà le popolazioni locali, dalle quali l’oligarchia dominante riscuoteva le tasse, e da cui questa élite era esentata.

Oggi, a duecento anni di distanza, in termini generali si può dire che questo non è cambiato nella sua struttura. I cinque paesi che attualmente costituiscono l’America Centrale – le vecchie Province Unite del Centro America – sono eredi di questa dinamica, presentando rapaci oligarchie che continuano a sfruttare spietatamente una mano d’opera soggiogata, pagando pochissime tasse, dove prevalgono – tranne nel caso del Costa Rica- Stati gestiti come fattorie, razziste e patriarcali, sempre insensibili alle esigenze popolari.

Festeggiare il Bicentenario, data questa dinamica, è celebrare una storia di spoliazione di larghe maggioranze e di sistematica esclusione dei popoli indigeni, una storia protetta da una visione visceralmente razzista e patriarcale.

Poiché la storia la scrivono i vincitori, è necessario avere una visione critica di tutto questo processo e non finire per avallare queste celebrazioni, scritte proprio dai vincitori: le oligarchie locali.

L’indipendenza stabilita nel 1821 non cambiò il contenuto profondo della società centroamericana. Le classi dirigenti, sostanzialmente latifondiste, uscirono dalla sfera del dominio spagnolo, ma in pochi decenni sarebbero entrate nella sfera di dipendenza della nuova potenza che già alla metà del XIX secolo si stava affermando come la grande dominatrice di tutta l’America Latina.

Le tredici colonie inglesi del Nord America nel 1776 firmarono l’Atto di Indipendenza dalla Corona Britannica, costituendosi negli Stati Uniti d’America. La loro travolgente crescita, sottomettendo brutalmente i popoli originari della regione ed espandendosi in tutta la geografia, occupando il territorio messicano, in breve tempo collocò il nuovo paese come una grande potenza.

Tanto che, nel 1824, il loro allora presidente, James Monroe, fu in grado di formulare quella che sarebbe poi stata conosciuta come la Dottrina che porta il suo nome, sintetizzata nella frase “America per gli americani“.

Si trattava della demarcazione del territorio che la nuova potenza industriale e capitalista stabilito di fronte ai paesi imperialisti d’Europa. In altre parole: gli Stati Uniti hanno reso più che chiaro che il continente americano apparteneva a loro. In questa logica, dal Messico alla Patagonia, quella che oggi chiamiamo America Latina, diventava il loro “cortile di casa”. Le élite locali, come quella centroamericana, non avevano altra scelta che adattarsi a questa nuova geopolitica.

Oggi, a 200 anni da entrambi gli eventi, l’indipendenza formale dell’America Centrale e la Dottrina Monroe, la realtà ci mostra il vero volto dell’istmo: paesi tremendamente asimmetrici nella distribuzione del reddito nazionale e totalmente dipendenti – economicamente, politicamente e culturalmente – da Washington. Pertanto, celebrare questo Bicentenario sembra uno scherzo di cattivo gusto.

Cos’è il Centro America?

I paesi che lo compongono funzionano come un blocco. Oltre a quelli geografici, vi sono una serie di elementi che gli conferiscono unità economica, politica, sociale e culturale. I suoi paesi, ad eccezione del Costa Rica, hanno gli indici di sviluppo umano più bassi del continente, insieme ad Haiti.

L’area, in confronto, è molto povera oggi; Pur disponendo di molte risorse naturali, la sua storia la pone in una situazione di enorme prostrazione e arretratezza. Fondamentalmente si tratta di un agro-esportatore, con piccole aristocrazie creole – eredi in molti casi dei privilegi feudali derivati ​​dalla colonia – che per secoli hanno gestito i paesi con criteri da fattoria.

Nel terzo millennio e dopo le feroci guerre degli ultimi decenni, nulla di tutto questo è sostanzialmente cambiato. I prodotti primari continuano ad essere la base dell’economia, sia per la sussistenza (mais e fagioli) sia per la generazione di valuta estera all’estero: indaco all’epoca, poi cotone, caffè, zucchero, frutti tropicali; recentemente palma africana destinata alla produzione di agro-combustibili.

Negli ultimi anni ci sono stati tenui processi di ammodernamento, installando in tutta la zona terminali industriali di stabilimenti di assemblaggio, sfruttando la manodopera a basso costo e poco o per niente sindacalizzata. In generale, il capitale coinvolto è transnazionale e questa industria di assemblaggio non rappresenta un vero fattore di sviluppo a lungo termine.

L’arrivo dell’estrattivismo negli ultimi decenni, dove gli investimenti nazionali si fondono con i grandi capitali transnazionali, ha peggiorato la situazione generale. Le mega miniere, le centrali idroelettriche e l’agrobusiness (produzione di specie vegetali – mais, zucchero, palma africana – destinate agli agro-combustibili) portano scarse tasse agli Stati nazionali, prelevando il prodotto della terra e lasciando territori devastati, con tremendi problemi di inquinamento ambientale.

Negli ultimi tempi, con livelli diversi ma, in generale, come comune denominatore dell’intera regione, sono aumentati i cosiddetti affari “sporchi”: riciclaggio di narcodollari e traffico di droga. Oggi la zona è un ponte obbligato per buona parte della droga che, proveniente dal sud, va verso gli Stati Uniti.

Ciò ha dato slancio alle economie locali, senza favorire le grandi maggioranze popolari, permettendo l’emergere di nuovi attori economici e politici legati ad attività illecite, tollerate dai rispettivi Stati, e talvolta gestendole dall’interno.

Prevale un contadino povero, che combina il lavoro nelle grandi fattorie dedite all’agro-export con economie primarie di autosussistenza. Il possesso fondiario è caratterizzato da una marcata differenza tra i grandi proprietari terrieri – famiglie di ceppo aristocratico, in molti casi con secoli di privilegio alle spalle, discendenti diretti dei conquistatori spagnoli di cinque secoli fa – e contadini con piccoli appezzamenti che, con tecnologie primitive, a mala pena riescono a coprire stentatamente le loro necessità.

La popolazione indigena è presente in tutta la regione, con il Guatemala che ha la percentuale più alta: circa i due terzi. In questo caso particolare, creando una dinamica sociale spudoratamente razzista, i popoli Maya sono i gruppi più esclusi ed emarginati in termini economici, politici e sociali.

C’è anche la presenza di una popolazione nera, di origine africana (gli antichi schiavi portati con la forza in queste terre come mano d’opera brutalizzata), ma non in una percentuale particolarmente elevata come avviene nelle isole caraibiche. La loro situazione è altrettanto precaria.

Per le popolazioni locali, date le permanenti difficoltà economiche, una via d’uscita è quella di andare – generalmente in modo irregolare – verso gli Stati Uniti come manodopera non qualificata. Infatti, il reddito in valuta dato dalle rimesse che gli emigrati inviano ogni mese costituisce una delle principali fonti di sopravvivenza per l’intera area (in alcuni paesi, e a seconda delle circostanze congiunturali, occupa il primo posto).

In questo senso, poiché svolgono questo ruolo di riferimento obbligato nelle logiche quotidiane e di lungo periodo, gli Stati Uniti sono un elemento decisivo per comprendere la storia, la situazione attuale e il futuro dell’istmo centroamericano. Di indipendenza, pertanto: niente.

L’interferenza politica di Washington nella regione è notoria. Fatta eccezione per il Costa Rica – che merita un discorso a parte – la storia politica dell’istmo è segnata da dittature militari dappertutto, sempre con gli Stati Uniti in mezzo. Invasioni, complotti e manovre destabilizzanti si contano a decine.

La CIA ha fatto il suo debutto di fuoco con una campagna di azioni segrete in Guatemala nel 1954.

Di fronte a tutto questo, negli anni ’60 del secolo scorso, sono emerse alternative rivoluzionarie armate. Alle proposte di cambiamento sociale avanzate da questi movimenti (in Nicaragua arrivarono addirittura a prendere il potere, avviando di fatto un processo di trasformazione), seguirono brutali repressioni.

Campagne di “terra bruciata” in Guatemala, i “contras” in Nicaragua, guerra sporca in El Salvador, le basi della Contra nella regione honduregna della Mosquitia, e all’epoca anche in Costa Rica, nessun angolo dell’area centroamericana sfuggì alla logica bellica. La zona è diventata incandescente.

Il discorso militarizzato ha inondato la vita quotidiana. La guerra nucleare dei missili sovietici e americani mai sparati è stata combattuta, tra l’altro, attraverso le guerre di guerriglia e le tattiche di controinsurrezione nelle montagne del Centro America. I morti, ovviamente, erano centroamericani.

Ora: più o meno lo stesso? Dove sta andando il Centro America?

La Guerra Fredda è finita. Il blocco sovietico non esiste più. Gli ideali socialisti, quelli che hanno messo in moto i movimenti di guerriglia, sono oggi, se non del tutto scartati, almeno in processo di osservazione (in terapia intensiva?).

In ogni caso le cause strutturali che hanno motivato quelle risposte armate dei gruppi politicamente più avanzati nei diversi paesi centroamericani ancora persistono. In Nicaragua, dove uno di quei gruppi era al potere e ha guidato il paese per un decennio con un progetto di trasformazione, le cause profonde generatrici della povertà ancora persistono, anche se la famiglia Somoza è scomparsa. Di quel cambiamento allora iniziato, oggi rimane ben poco.

La Guerra Fredda che si è espressa in Centro America attraverso le guerre che hanno dissanguato per anni i loro paesi è già parte della storia; ma le conseguenze di quelle guerre sono ancora lì, e continueranno ad esserci per molto tempo.

In realtà, una volta conclusa la grande sfida tra i due modelli in contesa con il trionfo dell’uno e la scomparsa dell’altro, i problemi di fondo che tenevano a confronto queste due visioni del mondo non si sono risolti.

A partire da quel momento, le agende di pace sono proseguite. Agende che, comunque, non parlano tanto dei processi di superamento delle differenze negli spazi locali in cui i conflitti si esprimevano apertamente (come in Medio Oriente, o nell’Africa subsahariana), quanto della necessità e/o convenienza delle potenze – Stati Uniti in testa – di eliminare zone calde, problematiche.

A loro volta le guerriglie hanno firmato la pace, in realtà perché non avevano altra via d’uscita nel nuovo scenario aperto. Le politiche neoliberiste legate a quelle agende di pacificazione hanno aumentato le contraddizioni e ingiustizie storiche della regione.

Dire che il Centro America è entrato in un periodo di pace è, a dir poco, sbagliato. Forse esagerato, perché nasconde la realtà quotidiana. Il fatto di non convivere quotidianamente con la guerra è innegabilmente un passo avanti.

Ma oggi i bambini continuano a morire di fame, o le donne durante il parto senza le cure corrispondenti, o per la pandemia di COVID-19 dato il crollo dei sistemi sanitari pubblici, o per la criminalità quotidiana sfrenata. Tutto questo mostra la violenza imperante.

Visto il fenomeno alla luce dell’analisi storica, è evidente che le guerre vissute nella regione sono causate dalla fame, dalla mancanza di protezione, dall’esclusione, in definitiva. E questo non è cambiato. Senza vivere tecnicamente in un conflitto armato aperto, l’area continua ad essere una delle più violente al mondo.

Nuovi attori (criminalità organizzata, narcotraffico, bande giovanili), che si basano su uno sfondo di disuguaglianze storiche mai mutate, sono gli elementi che rendono la regione un luogo difficile, complesso.

In questo panorama, gli scenari futuri che si profilano per la regione non sono molto incoraggianti. Sono terminati i conflitti armati locali, le società si sono dissanguate, i paesi hanno subito enormi perdite materiali, ma il loro status di “bananieri” non è cambiato.

L’area continua ad essere la più povera d’America, essendo tra le più povere del mondo. I tenui processi di integrazione centroamericana non sembrano una valida opzione per il miglioramento delle maggioranze. I processi di integrazione imposti da Washington non si vedono come opportunità per uno sviluppo genuinamente armonioso ed equilibrato per tutti.

Le democrazie sono rachitiche e la corruzione e l’impunità continuano a dominare la quotidianità. Non si vedono vere alternative a tutto questo, dal campo delle sinistre non spiccano proposte solide.

Quelle che stanno emergendo come alternative antisistemiche, ribelli, contestatarie, sono i gruppi (movimenti contadini e indigeni) che combattono e rivendicano i loro territori ancestrali, quelli proprio dove l’estrattivismo predatorio è entrato impunemente.

Forse senza una proposta classista, rivoluzionaria in senso stretto da un punto di vista socialista, costituiscono un chiaro contrasto agli interessi del grande capitale transnazionale e dei settori egemonici locali.

In questo senso, funzionano come un’alternativa, una fiamma che continua a salire e a bruciare, e che alla fine può crescere e accendere più fiamme.

Marcelo Colussi

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