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Sciopero della fame dei detenuti politici palestinesi

Rappresenta l’ultima e estrema risorsa, appannaggio di chi, già privato della propria autodeterminazione, è costretto in detenzione per un sopruso da parte della potenza occupante: io, prigioniero perché palestinese non ho altro mezzo pacifico per esprimere il mio diritto a rivendicare la mia dignità se non quello di auto-annientarmi; è una scelta/forzata, ma è autonoma.

Mentre scorrete queste righe riflettete su quanto è a Vostra conoscenza sebbene costantemente ignorato: in questo preciso momento 7 esseri umani, prigionieri nelle carceri illegali dell’Entità sionista, digiunano da 120 giorni per denunciare al mondo l’impudicizia di chi si arroga il diritto di disporre della loro sorte, estraneo ad ogni rispetto del Diritto, umano oltre che internazionale.

Le motivazioni in forza delle quali questi Uomini sono stati catturati (sovente anche grazie al fattivo contributo della sedicente Autorità Palestinese) arrestati e ristretti in catene risiedono, appunto, nella forza-meschina, avulsa da ogni attinenza con i principi di legalità, di un Potere che ha la facoltà di delinquere potendo usufruire di un lasciapassare permanente garantito dalla complicità mondiale.

Nel corso di questi 73 anni di negazione della libertà quasi nessuna famiglia palestinese è rimasta estranea (anzi ci sarebbe da dubitare della lealtà di chi lo fosse stato) dalle attenzioni dell’Autorità Occupante la cui giurisdizione -militare anche nei confronti dei civili – si dimostra rigidamente funzionale all’idea sionista di supremazia etnica e di negazione della presenza palestinese nella biblica terra di Israele.

L’esercizio di detta sopraffazione viene costantemente declinato attraverso strumenti astrattamente democratici tali da prevedere l’esistenza delle rispettive Corti di giudizio dotate, ipoteticamente, della facoltà di liberamente disporre a seguito di un equilibrato svolgimento del processo, ove sarebbe garantita ogni prerogativa all’imputato, ad iniziare da una giusta difesa.

In realtà, prescindendo dagli sforzi encomiabili dei difensori spesso israeliani e meritevoli di ancor maggior plauso, il processo è viziato alla fonte e, senza distinzione tra minori, donne ed anziani: il palestinese posto alla sbarra è colpevole per antonomasia.

Resistere all’occupazione è considerato reato, indipendentemente dalle forme adottate per farlo. Quando non viene ucciso sul posto durante i “disordini” (proteste pacifiche da parte di civili disarmati) oppure reso inoffensivo se attivista per la liberazione della propria terra, viene condotto dinanzi al magistrato militare che, adottando criteri unilaterali, univoci e fuorvianti, applicherà la pena, comunque.

Ma v’è di più, come dimostra quanto di cui ci stiamo occupando.

I 7 prigionieri che hanno scelto di morire piuttosto che abbassare la testa, sono detenuti grazie all’applicazione degli ordini derivanti dalla legge in vigore durante il mandato britannico denominato “detenzione amministrativa”, che consente la privazione della libertà a carico di chiunque genericamente accusato, senza necessità di capo di imputazione e conseguente possibilità a difendersi. Tale detenzione è inizialmente di 60 giorni, prorogabili “ad libitum” (a discrezione), avulsa dal momento processuale.

Questa dinamica si svolge, quotidianamente, a danno di una popolazione vessata, ignorata, oltraggiata.

Nelle carceri sioniste si trovano bambini oggetto di violenza fisica e morale che lascerà un segno indelebile nel corso della loro, ardua, esistenza, così come donne offese già per il loro status, ed anziani adusi a subire la meschina prepotenza del nemico; esistono e si ribellano i partigiani della libertà fieri del proprio sentire ed agire.

Sono consapevoli di possedere, per il solo essere al mondo, diritti inalienabili anche in quanto e proprio perché prigionieri; di poter essere curati se ammalati, di poter ricevere visite, di poter comunicare con il difensore designato ad assisterli, di essere rispettati nella loro essenza di persona: queste prerogative vengono loro negate e l’estrema forma di comunicazione esterna, più che di protesta, è rappresentata dallo sciopero della fame.

Quattro mesi di privazione riducono una persona allo stato semi-vegetale ma, a fronte del cinismo del mancato interlocutore, sordo alle richieste -legittime- del prigioniero politico, permane, incrollabile, la volontà del resistente di continuare ad illuminare con il suo esempio le ragioni del proprio gesto.

Fino a qualche anno addietro, a fronte di siffatta determinazione da parte dei prigionieri politici palestinesi, il carceriere optava per una forma di alimentazione forzata, le cui modalità prevedevano che al detenuto “ribelle ed inappetente”, in stato di costrizione fisica fosse applicato un imbuto nella bocca ed ivi inserito cibo liquido in quantità sufficiente, sebbene par la maggior parte rigettato.

Tale pratica disumana, non diversamente da molteplici attuate tuttora, è stata abbandonata grazie al tardivo ma, comunque, apprezzabile, intervento dell’Ordine dei Medici israeliani che ne ha sancito, definitivamente, la crudeltà insita nel gesto.

Attualmente le persone ristrette in catene nelle carceri sioniste che, isolate dal mondo, decidono di privarsi di alimentarsi pur di venire ascoltate, vengono accompagnate verso il loro tragico destino dal disprezzo del carceriere, dal cinismo degli Organi che sarebbero preposti a vigilare per impedire simili misfatti, dall’indifferenza del mondo che si autodefinisce civile.

Se ancora esiste una qualche forma di legalità, di rispetto per l’essere umano, di uniformità di giudizio, di anelito al senso di equità, di amor proprio

Si esige

un immediato, effettivo, autorevole intervento da parte degli Organismi a ciò preposti perché le ragioni dei prigionieri politici palestinesi vengano immediatamente accolte e gli stessi siano oggi stesso rilasciati senza condizione alcuna.

Milano li 15/11/2021

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