Alcuni giorni fa a Roma, c’è stata una conferenza di informazione sulla rivolta popolare in Sudan contro il colpo di stato militare.
L’incontro è stato organizzato dalla Rete dei Comunisti insieme alla Comunità sudanese in Italia, RdC che pochi giorni prima aveva partecipato e preso parola nelle manifestazioni contro le sanzioni al Mali convocate a Milano e a Roma da diverse forze panafricaniste attive nel nostro paese.
Giornalisti ed attivisti della diaspora sudanese di associazioni e forze politiche dell’opposizione, hanno spiegato sia la storia recente del paese, dall’indipendenza del 1956 in poi, sia la situazione attuale che vede una durissima resistenza popolare al golpe, ma soprattutto la determinazione a non accettare compromessi con i militari come vorrebbe l’Onu.
Nel corso del dibattito sono intervenuti anche il ricercatore Jacopo Resti, ed altri esponenti della diaspora africana in Italia, in particolare dal Mali e dalla Guinea. In questi due paesi si sono ripetuti dei colpi di stato che, con diverse gradazioni, hanno visto la condanna e in alcuni casi le sanzioni dell’Unione Europea e della Cedeao (la Comunità economica dei paesi centroafricani ben controllata da Parigi e Washington).
“La decisione di congelare i beni nazionali del Mali porta quindi chiaramente l’impronta dei leader dei paesi dell’UEMOA, la maggior parte dei quali sono sottomessi alla Francia. È stato comunque approvato e annunciato dalla CEDEAO, attualmente sotto la presidenza ghanese” hanno spiegato su Contropiano Fanny Pigeaud e Ndongo Samba Sylla.
Ma i giovani africani intervenuti hanno tenuto a precisare che non tutti i colpi di stato sono uguali. Alcuni mirano a ripristinare o imporre privilegi esclusivi di questo o quel gruppo di potere, altri aprono invece la strada all’affrancamento dall’asfissiante controllo coloniale esercitato in quell’area soprattutto dalla Francia. L’espulsione dell’ambasciatore francese dal Mali e la richiesta di allontanamento dei contingenti militari stranieri (tra cui ce n’è anche uno italiano, ndr) ne sono una dimostrazione lampante.
Dunque come valutare il ritorno dei colpi di stato in Africa come avvenuto recentemente in Sudan, Ciad, Mali, Guinea Conakry o Burkina Faso o nei mancati golpe in Niger e di ieri in Guinea Bissau? Con lo stesso metro di misura o cercando di capire quali esigenze e quali interessi li hanno ispirati, differenziando quello che va differenziato e analizzando le conseguenze che possono produrre?
Sarebbe doveroso, tra l’altro, rammentare in Europa che alcuni colpi di stato come quelli del 2011, in Libia contro Gheddafi e in Costa D’Avorio contro Gbagbo, hanno visto la partecipazione militare diretta della Francia.
Uno degli elementi emersi da interventi che pure hanno raccontato realtà diverse tra loro, è che uno dei fattori di crisi ma anche di emancipazione dei paesi africani è la questione dello Stato.
Il colonialismo ha agito sistematicamente per indebolire o distruggere le pur fragili entità statali emerse dalla decolonizzazione e dalle lotte di liberazione dei paesi africani. Se deve saccheggiare le risorse di territori ricchissimi di queste, il colonialismo europeo come tutti gli altri ha agito per disgregare gli Stati esistenti, indebolirli, ridurli a enclavi spesso etniche in conflitto tra loro e scegliere di volta in volta l’interlocuzione con i vari soggetti (settori dei militari, bande paramilitari, gruppi tribali) per contrattare al prezzo più vantaggioso il controllo delle zone più ricche di risorse.
Al contrario, gli Stati unificati e centralizzati hanno visto spesso crescere la tentazione di negoziare duramente con le multinazionali, e con gli Stati che le supportano, da posizioni meno remissive, magari chiedendo royalties più altre sui diritti di estrazione o di passaggio o destinando i fondi pubblici allo sviluppo piuttosto che al pagamento del debito estero o all’obbedienza agli antipopolari diktat del Fmi.
Nella debolezza degli Stati africani postcoloniali, spesso l’unico apparato strutturato si è rivelato l’esercito.
E qui che si sono prodotti dittatori e assassini seriali ma anche leader e capi di stati anticolonialisti. L’esercito dava la possibilità di studiare, di andare in giro per il mondo ad addestrarsi ma anche a capire meglio i meccanismi che determinano le relazioni internazionali. Inoltre spesso le forze armate sono “l’azienda” più grande dei loro paesi, anche sul piano economico. Insomma nelle forze armate di stati indeboliti o disgregati, si producono i virus ma anche gli anticorpi. Il colonialismo preferisce interloquire con i primi, le istanze di emancipazione con i secondi.
Dunque in Africa è forte l’esigenza di riavere o di avere uno Stato degno di questo nome e capace di garantire sicurezza e redistribuzione a tutti i cittadini che lo abitano, anche se appartenenti a gruppi etnici diversi. E talvolta questa garanzia viene offerta più da settori delle forze armate locali che dalle ingerenze occidentali, governative o non governative che siano, e che prosperano invece proprio sulla debolezza e la disgregazione degli Stati africani.
Altrettanto interessanti sono le ambizioni a nuove forme di integrazione regionale sganciate da quelle imposte dal colonialismo moderno, ambizioni crescenti in nome di un panafricanismo che si va riaffacciando tra le nuove generazioni e ormai ben visibili anche nella diaspora africana in Europa, che sarebbe un tragico errore ridurre a mera questione di “immigrati”.
L’altra riflessione emersa dagli interventi, è la diversa percezione in Africa della figura di Gheddafi. Isolato e poco apprezzato nei governi arabi e occidentali, Gheddafi era invece molto più apprezzato nei paesi africani. Possiamo dire che aveva imbracciato con maggior successo il panafricanismo che il panarabismo. I suoi tentativi di dare vita ad una Banca Africana sganciata dalle ingerenze francesi e del Fmi, devono aver decretato la sua condanna a morte, avvenuta poi praticamente nell’ottobre 2011 dopo il colpo di stato sobillato da Francia e Gran Bretagna soprattutto, ma anche dall’Italia di Giorgio Napolitano.
La discussione nella conferenza va indubbiamente vista in connessione con gli interventi ascoltati in piazza nelle manifestazioni di Roma e Milano contro le sanzioni al Mali. “Quando si sa che gli interessi dell’imperialismo occidentale (in modo particolare quello francese) possono sentirsi minacciati, si può comprendere qual è il vero motivo della ”punizione” che il Mali sta subendo” ha scritto l’attivista africano François Farafín Sandouno sulle pagine di Contropiano.
Ci sono dunque tutte le potenzialità – e la necessità – di guardare alle aspirazioni di emancipazione anticoloniale dell’Africa con occhi nuovi, liberati dall’eurocentrismo e fondati su un moderno internazionalismo. Il lavoro di informazione, formazione e iniziativa che sta sviluppando la Rete dei Comunisti muove i passi giusti.
È un atto dovuto soprattutto per i comunisti europei, perché l’Unione Europea e i grandi gruppi monopolistici per i quali è stata costituita, ritiene ormai apertamente l’Africa e le sue risorse il “proprio cortile di casa” da sfruttare e controllare, esattamente come gli Usa hanno fatto e ritengono di dover fare ancora in America Latina. Ed è proprio sulla base di questa analisi che negli anni scorsi è stata avanzata la proposta di una Area Euro-Afro-Mediterranea alternativa all’Unione Europea sul piano politico ed economico.
Non solo. Il colonialismo è nato in Europa ed anche su questo ha costruito un suo modello ideologico eurocentrista ancora egemonico – incluso nella sinistra europea – che va scardinato dalle fondamenta, anche e soprattutto nelle nuove generazioni di attivisti, militanti, rivoluzionari del XXI Secolo, siano essi europei o africani o mediorientali.
Chiosando con un compagno alla fine della conferenza ci siamo detti: “Serve come il pane la Tricontinentale”, ossia l’organizzazione internazionale antimperialista che negli anni Sessanta e Settanta sostenne tutte le lotte di liberazione in Africa, Asia e America Latina. Pochi lo sanno ma tutt’oggi la Tricontinentale è ancora attiva e pubblica un suo sito ricco di informazioni e analisi.
L’imperialismo prima e gli imperialismi poi, in questi decenni di egemonia hanno ritenuto di aver fatto tabula rasa, ma non ci sono riusciti – neanche in Africa – e adesso guardano a tutto questo con timore crescente. Se l’America Latina ha deciso di non essere più il patio trasero degli Stati Uniti, in Africa sta crescendo la spinta a non voler essere più il cortile di casa dell’Unione Europea.
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