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La scuola buona nell’Unione Sovietica

Non diciamo nulla di nuovo, scrivendo che ogni scoperta scientifica, ogni innovazione tecnologica, ogni metodo sperimentale, assume contenuti opposti se applicato a rapporti di produzione antagonistici, o utilizzato invece nell’interesse della collettività.

In altre parole: se serve a incrementare il profitto padronale nella società borghese, o è invece utile ad alleggerire la fatica umana, a ridurre il tempo di lavoro a favore di altre attività sociali, in una società socialista, in cui prevalgano rapporti non conflittuali tra i produttori, si aspiri al bene collettivo e si miri alla creazione di valori d’uso per la società e non al valore di scambio per il padrone.

È così anche per il sistema educativo. Si può dire che l’interscambio, la simbiosi tra studio e attività pratica, sia alla base di una formazione non parziale, complessiva, di ognuno di noi.

Ancora una volta, si tratta di distinguere gli obiettivi del sistema educativo: da un lato, come giustamente scrive Maurizio Disoteo su Contropiano, la «sottomissione della scuola alle imprese», una scuola che «prepara “capitale umano” , cioè mano d’opera per le imprese»; dall’altro, la formazione di individui sociali completi, istruiti, competenti, orientati in senso classista e coscienti di svolgere attività intellettuali e fisiche che vadano a incrementare la ricchezza collettiva.

Dunque, una pratica applicazione del concetto generale della teoria sperimentata nell’attività pratica e della esperienza sul campo riportata nello studio teorico; non “alternanza scuola-lavoro”, ma pratica sociale dello studio.

In Unione Sovietica, sin dai primi anni successivi alla Rivoluzione d’ottobre, ci si era orientati su questa strada. C’era l’impellente necessità di sviluppare l’industria, in un paese prevalentemente contadino, in cui i rapporti sociali nelle campagne portavano ancora molti tratti feudali, e con una popolazione quasi al 80% analfabeta o semi-analfabeta.

Lo sviluppo dell’industria richiedeva uno sforzo tecnico-intellettuale che elevasse in principal modo il livello della classe operaia a quello dei paesi più industrializzati.

Il punto, la chiave di volta, era il potere nelle mani degli operai, le fabbriche non più proprietà privata dei capitalisti, ma in mano allo Stato operaio, con operai-studenti coscienti di lavorare e istruirsi per il bene collettivo, per il completo passaggio di fabbriche, officine, miniere, ferrovie, ecc. in proprietà della Repubblica sovietica degli operai e dei contadini.

Gli studenti nelle fabbriche erano coscienti della loro futura funzione nella produzione e gli operai che li istruivano sapevano che quanto più responsabilmente avessero trasmesso la propria pratica a quei giovani, che poi l’avrebbero integrata negli studi, tanto più completo sarebbe stato lo sviluppo dell’intero paese.

Diversa la sorte, oggi, dei giovani studenti di casa nostra: obbligati a farsi spellare e, purtroppo, uccidere, nelle aziende private, con la beffa della “alternanza scuola-lavoro”, finiscono per lavorare gratis, per il profitto privato del padrone!

Nella bozza di Progetto di programma del PCR(b) per l’Istruzione pubblica, preparato da Vladimir Lenin nel 1919, si proponeva di «trasformare la scuola da strumento del dominio di classe della borghesia in strumento per la distruzione di tale dominio… La scuola deve diventare uno strumento della dittatura del proletariato, cioè non deve essere soltanto il veicolo dei principi del comunismo in generale, ma anche dell’influenza ideologica, organizzativa, educativa del proletariato, sugli strati semiproletari e non proletari delle masse lavoratrici».

Tra gli obiettivi, si parlava di «istruzione generale politecnica (che fornisca i fondamenti teorici e pratici delle principali branche della produzione) gratuita e obbligatoria fino a 16 anni per ambo i sessi… stretto legame fra insegnamento e lavoro socialmente produttivo… formazione dei quadri di un nuovo corpo insegnante, permeato delle idee del comunismo; partecipazione attiva della popolazione lavoratrice al lavoro di educazione; massimo aiuto del potere sovietico all’autoeducazione e autoformazione degli operai e dei contadini lavoratori (creazione di biblioteche, scuole per adulti, università popolari», ecc.

In un paese ancora stremato dalla precedente politica repressiva zarista e dalle distruzioni della Prima guerra mondiale, Lenin chiariva che, in campo educativo, «più acculturato è lo stato borghese, più sottilmente esso mente quando dichiara che la scuola sta al di sopra della politica e serve la società nel suo complesso.

Di fatto le scuole erano trasformate in nient’altro che in strumenti del dominio di classe della borghesia. Esse erano completamente imbevute dello spirito borghese di casta. Il loro scopo era quello di fornire ai capitalisti, obbedienti lacchè e abili lavoratori.

La guerra ha mostrato che le meraviglie della tecnologia moderna sono state usate come mezzo per sterminare milioni di operai e per creare favolosi profitti per i capitalisti, che con la guerra stanno facendo fortune… Noi diciamo che il nostro lavoro nel campo dell’educazione è parte della battaglia per rovesciare la borghesia».

Nel febbraio 1921, tra le Direttive del CC ai comunisti del Commissariato del popolo all”Istruzione pubblica, si diceva che «La sezione della scuola unica del lavoro e, in particolare, la direzione dell’insegnamento professionale, debbono dedicarsi con maggiore impegno ad attrarre più largamente e sistematicamente tutti i tecnici e gli agronomi all’insegnamento tecnico-professionale e a quello politecnico, e, parallelamente, a utilizzare ogni stabilimento industriale o agricolo più o meno organizzato (sovkhoz, centro agricolo sperimentale, azienda modello, ecc., centrali elettriche, ecc.).

Le forme e le modalità dell’utilizzazione delle imprese e degli stabilimenti per l’istruzione politecnica debbono essere stabilite d’accordo coi relativi organi economici, in modo da non turbare il normale corso della produzione».

Un secolo più tardi, in Italia (ma non solo) gli studenti vengono semplicemente e direttamente gettati in pasto agli ingranaggi (troppo spesso, purtroppo, non solo in senso figurato) della produzione, in base a un sistema che intende fare, dell’intera vita, una fabbrica di proprietà privata.

Ancora in URSS, una risoluzione del VKP(b) del 1925, al paragrafo sui “Compiti immediati per i rapporti tra istituti superiori e produzione”, stabiliva che «l’obiettivo principale degli istituti consiste nella preparazione dei lavoratori all’attività pratica, alla produzione nel senso ampio della parola in tutti i settori. Per questo, tutta la struttura educativa e la vita degli istituti deve essere legata quanto più strettamente alla pratica…

L’attività teorica, l’esercizio pratico all’interno dell’istituto e il lavoro nella produzione devono essere strettamente legati. La pratica produttiva dello studente deve costituire elemento integrante del piano didattico degli istituti».

La risoluzione raccomandava di sopperire ad alcune deficienze, quali una «non corretta distribuzione degli studenti, un insufficiente computo della loro attività, un non corretto utilizzo degli studenti da parte dell’impresa, ecc. Il programma di lavoro degli studenti deve essere messo a punto in anticipo dai funzionari tecnici dell’impresa e dagli insegnanti degli istituti».

Si diceva inoltre che l’attività pratica dovesse servire innanzitutto a far comprendere allo studente ambiente e condizioni in cui avrebbe lavorato; ad esempio, gli istituti industriali dovevano porsi l’obiettivo che «lo studente comprenda le condizioni degli operai, il loro essere, la loro organizzazione, ecc., in modo da poter correttamente valutare e considerare il loro lavoro, comprendere gli aspetti economici del dato settore industriale».

Ma, soprattutto, eseguendo un determinato lavoro nell’impresa, «lo studente deve porsi quale obiettivo principale, quello di familiarizzarsi con i comparti fondamentali per la sua specializzazione e coi più basilari processi di produzione».

Anche lo studente italiano di oggi, assoggettato ai dettami della “buona scuola”, deve familiarizzarsi in anticipo, deve abituarsi, già nel periodo della propria formazione, alle condizioni di servaggio cui verrà incatenato dopo la scuola.

Il massimo che gli verrà prospettato potrà esser quello di elevarsi a livello di tecnico, messo là a controllare la rispondenza di ritmi, disciplina e manovre ripetitive degli operai, alle esigenze del profitto privato del borghese.

Nel 1927, incontrandosi con una delegazione di operai americani, Stalin metteva in evidenza come, a differenza dell’ordinamento capitalista, in cui lo stimolo fondamentale è il profitto, in URSS l’incentivo fosse dato dal fatto che le fabbriche appartengono agli operai e la stragrande maggioranza delle fabbriche è diretta da operai, che in ogni fabbrica ci fosse un comitato operaio che controllava il lavoro dell’amministrazione.

Inoltre, diceva Stalin, i proventi industriali non vanno ad arricchire i singoli, ma servono ad allargare la produzione, a migliorare la situazione degli operai e a diminuire il prezzo dei prodotti industriali, all’allargamento del mercato interno.

E gli studenti andavano in fabbrica per meglio entrare in simbiosi con il corso generale del lavoro e dello sviluppo socialista, della produzione orientata al benessere collettivo e non studiata per incrementare il profitto privato.

Gli studenti spediti oggi nelle imprese industriali private, a lavorare “a costo zero” per ingrassare il portafoglio del padrone e “apprendere il sapere” dello sfruttamento privato, sembrano incarnare, loro malgrado, ciò di cui parlava Marx a proposito dell’ideale di ogni singolo capitalista, il cui sogno sarebbe che i “propri” operai lavorassero gratis – come appunto, oggi, gli studenti della “buona scuola” – mentre quelli del capitalista concorrente guadagnassero di più, per comprare i suoi prodotti, che altrimenti rimarrebbero invenduti.

In Unione Sovietica, la spinta data nel 1929 all’industrializzazione accelerata («Siamo in ritardo di 50-100 anni sui paesi sviluppati. Dobbiamo coprire questa distanza in dieci anni. O lo facciamo, o ci calpesteranno», dirà Stalin nel 1931) dette un ulteriore e fondamentale sviluppo al rapporto tra attività lavorativa e istruzione.

Ma la corsa era già iniziata anni prima, con la massiccia apertura di istituti di qualificazione di fabbrica: al 1926, il 54% degli operai aveva ricevuto una qualificazione, il 26% era semi-qualificato e solo il 20% non aveva qualifica.

Nel 1918 il 65% di operai era alfabetizzato, nel 1926 lo era l’84% e nel 1939 era liquidato l’analfabetismo tra gli operai. In due pjatiletke, gli istituti di fabbrica diplomano 2 milioni di operai qualificati; nel 1936-1939, 15 milioni di operai e figli di operai accedono agli istituti tecnici.

La pratica dello “šefstvo

Un corollario dell’ampio spettro di particolarità nel sistema educativo sovietico, praticamente fino a quasi tutti gli anni ’80, consisteva nella pratica del cosiddetto “šefstvo”: dal francese Chef – capo, boss, ecc.

A lato del forte impegno statale per l’istruzione – per fare un esempio, il bilancio stanziava 37.700 milioni di rubli nel 1946, contro 580.000 mln nel 2016; ma, nel 2016, si trattava del 3,6% dell’intero budget statale, mentre nel 1946 era il 12,3%, ad appena un anno da una guerra costata 27 milioni di morti e la distruzione di 1.700 grandi città e oltre 70.000 paesi e villaggi – lo “šefstvo” consisteva in una sorta di sostegno permanente di natura economica, culturale, politica, ecc., prestato a un soggetto pubblico, un’organizzazione, un settore sociale, economico, culturale più debole, da parte di un soggetto più forte. Anche nel campo dell’istruzione.

Grosso modo funzionava così: ogni scuola o istituto superiore faceva capo (nell’ultimo periodo sovietico, la cosa aveva più carattere formale, che effettivo) a un complesso industriale, una fabbrica, un’impresa; queste fornivano mezzi e sostegno finanziario e, in cambio, gli studenti del dato istituto vi lavoravano per qualche settimana nelle vacanze estive, ricevendone opportunità di specializzazione. Un amico moscovita, poi laureato in materie umanistiche, negli anni ’70 ebbe l’opportunità di ricevere un diploma di assemblatore. Come?

Aveva frequentato una scuola superiore che faceva capo a un’azienda di sistemi radio, cablaggio ecc.; i tecnici dell’azienda fornivano assistenza per le diverse esigenze elettriche o elettroniche della scuola, e gli studenti partecipavano ai corsi offerti dall’azienda. In attesa di essere ammesso all’Università, in sei mesi egli si era specializzato nell’azienda.

Nei periodi di più intenso lavoro stagionale nei kolkhoz e sovkhoz, studenti e operai (una determinata impresa industriale poteva esercitare lo “šefstvo” nei confronti di un ente agricolo) andavano nei campi a dar man forte ai kolkhoziani per i raccolti, mantenendo lo stipendio scolastico e il salario.

Peculiari in URSS fino agli anni ’30, erano state anche le cosiddette “rabfak” (rabočij fakul’tet: facoltà operaia), che consentivano poi l’accesso di operai e contadini all’Università senza esame di ammissione.

Nell’anno accademico 1932-’33 erano operanti oltre un migliaio di “rabfak”, con circa 350.000 studenti. Negli anni, presero sempre più campo le “rabfak” serali, più accessibili per gli operai, che rimanevano così «legati alla vita produttiva, socio-politica, professionale della propria fabbrica… mentre le “rabfak” diurne perdevano di significato, man mano che i figli di operai e contadini ricevevano l’istruzione in scuole di 7-9 anni, sufficienti per l’accesso all’Università».

Più o meno attive fin quasi agli anni ’70 furono anche le Scuole di apprendistato in fabbrica (Škola fabrično-zavodskogo obučenija) in cui giovani di 16-18 anni di età provenienti da scuole primarie, venivano formati per lavori legati a edilizia, estrazioni minerarie e petrolifere, metallurgia, ecc.

Poi, con quello che le Izvestija, nell’aprile 1994 definivano «la completa privatizzazione dell’istruzione in Russia», le conquiste del periodo sovietico man mano finivano e cominciava l’epoca dei licenziamenti di migliaia di operai, della distruzione di interi comparti industriali, della privatizzazione dei rimanenti, della svendita per qualche milione di dollari di complessi produttivi che valevano decine di miliardi, dei salari arretrati per mesi e mesi, ecc.

L’epoca in cui i figli degli allora nuovi-russi e di molti odierni alti funzionari e politici venivano spediti in costosissimi college britannici o americani. Finivano le “facoltà operaie”, le scuole di fabbrica; anche lo “šefstvo” scompariva e i singoli fantasmi che ne rimangono servono solo a qualche mecenate a farsi réclame, elargendo doni agli asili per figli di funzionari.

Prendeva il via una “variante russa” di quello che Disoteo definisce il «processo di aziendalizzazione e di controllo della scuola da parte delle aziende private».

Da noi, si è avuta la sfacciataggine di parlare di quella oscenità chiamata “alternanza scuola-lavoro” come del necessario periodo di “acclimatazione” del giovane al suo futuro lavoro. Più esatto dire: alle condizioni di lavoro salariato; per di più, con periodi “nella produzione” in cui anche il salario – per dirla ancora con Marx: la piccola parte della giornata lavorativa retribuita – finisce in tasca al padrone.

Si dice spesso che il lavoro sottopagato, o, in questo caso, non pagato per niente, sia sfruttamento. In realtà, tutto il lavoro salariato è sfruttamento: sfruttamento della forza-lavoro per l’accumulazione del capitale.

Il lavoro non pagato è medioevo. Per rimanere ancora ai paragoni con URSS e Russia, puzza tanto di quelle forme di prestazioni obbligatorie gratuite del servo della gleba “liberato” (liberato formalmente nel 1861) di cui parlava Lenin, scrivendo nel 1912 sulla situazione agraria nella Russia zarista, in cui il debole sviluppo capitalistico nelle campagne della “riforma” di Pëtr Stolypin, era frenato dai residui feudali, ancora in larga parte presenti.

Ecco, le “baršine” (corvée) gratuite obbligatorie del piccolissimo contadino “liberato”, costretto a pagarsi i 5-7 ettari di terra concessigli con la “liberazione”; le “baršine” a vantaggio del grosso latifondista che possedeva 2.000 o 20.000 ettari; le “otrabotki”, le prestazioni d’opera (a saldo di mutui o affitti, ecc.) del piccolissimo contadino russo di fine 1800-inizi 1900 sui terreni del proprietario terriero, paiono un grosso passo avanti rispetto al lavoro gratuito in fabbrica degli studenti.

Corvée e prestazioni d’opera, almeno formalmente, andavano a compensare qualche misericordiosa elargizione del “grazioso signore”. La “buona scuola”, dettata dal “grazioso padrone” e codificata dallo “Stolypin” rignanese, elimina anche quella finzione.

In tale sistema economico, quale quello russo del dopo-riforma di Stolypin, scrive Lenin, i minuscoli “appezzamenti” contadini costituiscono un «metodo per fornire al proprietario fondiario mano d’opera, e non solo mano d’opera, ma anche attrezzi, che, per quanto miserabili, servono a lavorare la terra dei proprietari terrieri».

Nuovi metodi sperimentali di lavoro e di formazione possono esser proposti o imposti dai più disparati governi: basta intendersi su quale classe quei governi intendano servire. 

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2 Commenti


  • Valter

    Oggi più che mai bisogna ritornare (tutti) a studiare Lenin, Marx, Gramsci. La formazione dei giovani si deve fare con lo studio, ma pure incontrando i “vecchi” che hanno lottato nelle fabbriche, nei porti, nella scuola, nei quartieri. Un patrimonio di sapere che non può andare perso, altrimenti il padrone vincerà.


  • Gianluca

    Si sta vedendo anche sui luoghi di lavoro quale sciagura sia stata il ripudio del comunismo.

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