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L’Oceano Pacifico nel mondo multilaterale

La scorsa settimana il presidente statunitense Joe Biden ha ospitato alla Casa Bianca leader e rappresentanti di 14 nazioni insulari del Pacifico in un summit di due giorni, il 28 ed il 29 settembre.

É stata la prima volta nella storia che questi paesi sono stati invitati collettivamente ad un incontro a Washington.

L’incontro ha ufficializzato il rinnovato impegno statunitense nel Pacifico dal punto di vista economico, e non solo, annunciando l’investimento di 860 milioni di dollari in più in vasti programmi, rispetto al miliardo e mezzo che Washington ha investito nell’ultimo decennio nella regione.

Di questo nuovo pacchetto di “big Dollar”, 130 milioni dovrebbero andare a combattere gli effetti della crisi climatica, una delle “minacce esistenziali” per le popolazioni ed i territori del pacifico, com’è stata definita nel documento firmato alla fine del Summit.

Si tratta di un meeting in cui gli investimenti in dollari sono accompagnati dalla firma di una impegnativa dichiarazione in 11 punti su differenti questioni, non solo di natura economica, sotto il nome di Declaration on the U.S.-Pacific Partnership, consultabile sul sito ufficiale della Casa Bianca, ma la cui bozza era trapelata in precedenza.

Promozione di questa partnership, rafforzamento del “regionalismo pacifico”, crisi climatica che minaccia la sopravvivenza delle isole, cooperazione economica e sviluppo sostenibile, gestione dei disastri naturali, tutela dell’Oceano Pacifico, emergenze sanitarie, sono alcuni degli 11 punti firmati dalle differenti realtà statali del Pacifico dentro quella che è la cornice strategica che Washington vorrebbe dare alla regione.

Insieme agli obiettivi di questa partnership, il Japan Times rivela la volontà statunitense di rafforzare la cooperazione militare con le Fiji, e inizierà presto colloqui con la Papua Nuova Guinea in questo senso, oltre a volare stipolare rinnovati accordi in termini di “sicurezza” con gli Stati Federati della Micronesia, delle Isole Marshal – in cui gli USA hanno svolto test nucleari dal 1946 al 1956 – e di Palau.

«É anche intenzionata», riferendosi agli impegni di Washington nella regione, a «fornire 2,8 milioni di dollari per una addestramento di law enforcement guidato dalla FBI e più di 3 milioni di dollari per rafforzare l’addestramento e il capacity-building per la protezione e la sicurezza marittima da parte della Guardia Costiera statunitense».

L’iniziativa cinese

Il rinnovato protagonismo degli USA cerca di recuperare, in ritardo, l’iniziativa della Repubblica Popolare Cinese, attiva da tempo sul fronte degli investimenti nella regione, e la di fatto inedita cooperazione in materia di sicurezza, come ha dimostrato il patto firmato tra Pechino e le Isole Salomone ad Aprile.

Le Isole Solomone, sia detto per inciso, hanno firmato anche la Dichiarazione scaturita dall’incontro di due giorni a Washington, diversamente da quello che avevano annunciato.

L’“offensiva diplomatica” cinese ha come fine anche l’allontanamento delle nazioni del Pacifico da Taiwan, campo su cui ha collezionato una serie di successi facendo tagliare i legami diplomatici tra Formosa e differenti realtà, di cui l’ultimo è stata la scelta in questo senso delle Solomone.

L’accordo bilaterale tra Cina e Solomone era stato annunciato pubblicamente il 19 aprile mentre Kurt Campbell, Coordinatore del consiglio alla Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti sull’Indo-pacifico, e Daniel Kritenbrink, Assistant secretary di stato per gli Affari dell’Asia dell’Est e del Pacifico, stavano andando il 22 aprile in una visita ufficiale alle Solomone, Fiji e in Papua Nuova Guinea.

Di fatto il contro-altare della visita del Ministro degli Esteri Cinese Wang Yi in otto isole del Pacifico tra il 26 maggio ed il 4 giugno, rivelatasi non del tutto fruttuosa dal punto di vista degli obiettivi che si era prefissata.

Il Patto tra Cina e Solomone, le cui bozze erano state rese pubbliche on line in marzo con il fine di far desistere il Primo Ministro delle Isole Solomone Manasseh Sogavare a firmarlo.

Un accordo sul cui l’Australia – che ha un accordo di sicurezza con Honiara dal 2017 – , Nuova Zelanda, Giappone e gli stessi Stati Uniti avevano espresso la loro preoccupazione.

Un disastro” l’aveva definito giustamente un analista politico per la politica di Canberra nella regione, a cui il rinnovato protagonismo della regione del neo-eletto premier laburista australiano Anthony Albanese, ha cercato di porre rimedio con l’azione diplomatica a tutto campo della Ministra degli Esteri, Panny Wang.

I timori di Washington, e dei suoi alleati, nell’area è quello di ritrovarsi con un primo avamposto di agibilità militare cinese nell’area “spezzando” la continuità del suo dominio e dando maggiore profondità strategica alla difesa marittime di Pechino, di fatto dando inizio di un processo di riconfigurazione del quadro fino ad ora egemonizzato dal punto di vista militare dagli USA e dai suoi stretti alleati nell’area.

Se le bozze trapelate del documento tra Cina e Solomone e le reazioni degli attori regionali non avevano fatto desistere Sogavare dal firmarlo, avevano comunque influito sulla decisione di 10 paesi del Pacifico di non firmare un accordo, in realtà due, relativo al commercio e alla sicurezza con la Cina (compreso l’addestramento delle polizia locali da parte delle forze dell’ordine cinesi), dopo la missione diplomatica cinese in loco.

Si sarebbe trattato del primo accordo multilaterale di Pechino nell’area e di un “salto di qualità” rispetto alle relazioni bilaterali sino ad ora intrattenute con questi Paesi.

Il Presidente degli Stati Federati della Micronesia, David W.Panuelo, dichiarò ai tempi che il documento mostrava la volontà cinese di controllare la regione e “minacciava la stabilità regionale”.

Parole come pietre che si scagliavano contro un innegabile mutamento della qualità di relazione tra Pechino e le unità statale della regione, capeggiando non da solo, il “fronte” più ostile alla Cina.

Bisogna ricordare la Micronesia aveva firmato un accordo con gli Stati Uniti nell’estate del 2021 permettendo a Washington di installarvi una base militare, e che insieme alla Papua Nuova Guinea, alle Isole Samoa e a Palos, riconoscono Taiwan.

Secondo quanto emerso dalle bozze si sarebbe trattato di due accordi pluriennali di libero scambio che avrebbe incrementato l’impegno diplomatico della regione e intensificato la cooperazione in termini di cyber sicurezza e approfondito la collaborazione in una serie di settori dall’agricoltura alla pesca fino alla gestione della pandemia.

L’accordo siglato infatti escludeva la questione della sicurezza e comprendeva tema come l’agricoltura, il cambiamento climatico, la riduzione della povertà, prevedendo 15 punti e 24 impegni concreti.

Un quasi nulla di fatto, di cui gli USA – nonostante le dichiarazioni entusiaste di Blinken e Biden sul vertice della scorsa settimana – non si può avvantaggiare più di tanto.

Afferma giustamente a “Le Monde” Anna Powles, professoressa all’Università di Massey, in Nuova Zelanda, e specialista delle questioni di sicurezza nel pacifico del Sud: «Ma per questi paesi, la Cina è un partner importante in materia di sviluppo e questo non cambierà. Per altro, gli Stati Uniti dovranno mostrarsi all’altezza delle loro promesse d’impegno, in particolare in termini di impegno finanziario, se vogliono essere credibili».

L’importanza delle Isole Salomone

Le Isole Solomone sono un arcipelago di un centinaio di isole, con una popolazione di meno di 700 mila abitanti che si trovano ad est della Papua Nuova Guinea.

Distano poco meno di 2 mila km dalle coste nord-orientali dell’Australia.

La capitale, Honiara, è situata su un isola che è stata il teatro di una delle più feroci e importanti battaglie tra gli Stati Uniti e le truppe imperiali giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale per il controllo del Pacifico.

L’ex colonia britannica, è stata al centro di turbolenze e scontri etnici anche recentemente, “disordini” che in un recente passato avevano portato all’intervento ed al dispiegamento di truppe australiane e neo-zelandesi.

L’Australia è stato il maggiore attore della Regional Assistance Mission to the Solomon Islands (RAMSI), una missione multinazionale sviluppatesi all’interno della cornice del Pacific Islands Forum – il maggior raggruppamento diplomatico della regione – a cui, nel 2003, le Isole Salomone si erano rivolte.

Una missione, la RAMSI; che rimase nello Stato Insulare per 14 anni, nonostante i numerosi tentativi di Sogavare di espellerla.

Rieletto Primo Ministro nel 2019, nei mesi successivi Sogavare decise di tagliare i legami diplomatici dell’arcipelago con Taiwan in favore di Pechino. Una decisione che non incontrò il favore di tutti, e che ha spinto Daniel Suidani, a chiedere l’indipendenza della maggiore provincia Malatia, di cui era premier.

I recenti riot etnici “anticinesi” del novembre 2021 certificavano il tentativo di interrompere il nuovo corso intrapreso da Sogavare, destabilizzando il paese dall’interno.

Già dalla bozza trapelata dell’accordo tra Isole Solomone e Cina si evinceva la possibilità delle navi di guerra cinesi di attraccare nelle Isole Solomone, e della possibilità che la polizia della Repubblica Popolare possa essere impiegata in funzione di mantenimento dell’ordine.

Sogavare ha difeso il patto firmato con la Cina ad Agosto, affermando di voler aumentare le capacità delle forze dell’ordine locali di gestione di possibili eventi destabilizzanti nel futuro “nella speranza che non invocheremo alcuno dei nostri accordi bilaterali”, dopo avere in precedenza detto che “non ha assolutamente intenzione di domandare alla Cina di costruire una base militare”. Ha giustificato il suo operato rispetto al perseguimento degli interessi nazionali del Paese, affermando che tale accordo si situerebbe all’interno della cornice della legislazione locale ed il diritto internazionale.

Lo scacchiere del Pacifico

É chiaro che l’attuale tendenziale formazione di blocchi geopolitici contrapposti trasformerà sempre più l’Oceano Pacifico in un luogo di competizione e di scontro – per ora non ancora militare – tra il polo Euro-Atlantico (ed i suoi alleati) contro quello Euro-Asiatico.

La questione di Taiwan sembra in questo contesto fare da detonatore, considerando la maggiore assertività di Pechino sulla questione da un lato e i rapporti sempre più stretti tra Washington di Formosa dall’altro. L’avventurismo statunitense non sembra fare considerevoli passi indietro, nonostante i segnali precisi mandati dalla Repubblica Popolare, alzando pericolosamente l’asticella.

Se l’Isola è una delle maggiori linee di faglia dello scontro politico tra USA e Cina, l’oggetto del contendere si estende a tutto il Pacifico che per quasi ottant’anni sembrava essere né più né meno che un mare statunitense.

La situazione, sta mutando in fretta, e come in altri contesti non è detto che la declinante egemonia statunitense faccia ancora presa su quello che aveva considerato una mera estensione marittima del proprio territorio.

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1 Commento


  • Gianni Sartori

    OCEANIA INQUIETA:

    PROTESTE IN NUOVA CALEDONIA E ANCORA SANGUE IN PAPUA NUOVA GUINEA

    Gianni Sartori

    Forse quella di Gérald Darmanin (ministro francese dell’Interno e dell’Oltre-Mare) a Kanbaly (Nuova Caledonia) non era una visita particolarmente gradita agli indipendentisti.

    Il 21 febbraio i militanti della Cellule de coordination des actions de terrain (CCAT, composta da movimenti e sindacati favorevoli all’autodeterminazione: PT, MOI, UC, USTKE… ) avevano sfilato pacificamente a Noumea per protestare contro il progetto (già ufficialmente annunciato) di sbloccare il corpo elettorale provinciale. Ma ben presto la manifestazione era degenerata e – dopo il tentativo di raggiungere la sede dell’alto-commissariato – scoppiavano scontri con le forze di polizia (tra rue Anatole-France e Rue Général-Mangin dove erano stati schierati in gran numero camion militari).

    Alla fine si sono registrati cinque arresti e numerosi feriti, in particolare tra le forze dell’ordine.

    In cosa consisterebbe il previsto “scongelamento” – l’apertura – del corpo elettorale provinciale?

    In base agli accordi di Noumea (firmati nel 1998) il diritto di voto spetta soltanto alle persone iscritte nelle liste elettorali prima del 1998. Ritenendo tali restrizioni “poco democratiche” il governo francese intende aprire sia ai nativi caledoniani dai 18 anni in su, sia alle persone presenti nell’arcipelago almeno da dieci anni. Con un aumento previsto di circa 25mila elettori.

    Nel giorno immediatamente successivo, con un comunicato, i responsabili della CCAT hanno condannato i disordini e le violenze. Anche se – denunciano -sono stati “provocati da chi voleva impedire la consegna delle nostre richieste al ministro”.

    Infatti l’intenzione degli organizzatori della protesta pacifica (i quali denunciano di essere finiti in una “trappola”) era soltanto quella di consegnargli direttamente una richiesta per il ritiro del decreto di legge.

    Da parte sua l’organizzazione Loyalistes (una coalizione di partiti di destra anti-indipedentisti, sorta nel 2020 e diventata nel 2022 Rassemblement au Congrès de Nouvelle-Calédonie ) ha forzatamente evocato l’immagine di una città “messa a ferro e fuoco, saccheggiata” sostenendo che le violenze erano state previste e organizzate. Arrivando a chiedere la dissoluzione della CCAT.

    Inevitabile un pensiero per Louise Michel che, sfuggita ai massacri della “Semaine sanglante” (dopo la caduta della Commune di Parigi) venne deportata in Nuova Caledonia. Tra l’altro durante il viaggio sulla Virginie completò la sua evoluzione politica transitando definitivamente dal blanquismo all’anarchismo.Louise non solo si interessò della lingua, delle tradizioni, dei miti e della musica degli indigeni, ma si schierò apertamente al loro fianco quando i Canachi si sollevarono. Paragonandolo la loro rivolta a quella della Commune del 1971 e donando agli insorti un simbolica bandiera rossa (anche se al momento del dibattito su quale bandiera utilizzare a Parigi nel 1971 Louise pare si fosse schierata con la minoranza che voleva quella nera).

    Una vera eccezione la sua, dato che anche la comunità degli ex comunardi qui deportati alla fine si era allineata alle posizioni delle autorità francesi.

    Per tornare ai giorni nostri, molto peggio quanto sta avvenendo in Papua Nuova Guinea dove una settimana fa decine di persone (le cifre ufficiali parlano di una trentina di vittime, altre fonti di una settantina) sono state assassinate nella provincia di Enga nel corso di un’imboscata. Questa regione di altopiani (conosciuta come Highlands e dove da alcuni mesi vige il coprifuoco) è da tempo martoriata da uccisioni e scontri presumibilmente legati al controllo delle terre da parte di una ventina di tribù. Un conflitto reso ulteriormente sanguinoso dalla recente diffusione delle armi da fuoco. Il tutto in un generale contesto di crisi sia economica che sociale.

    Del resto quest’anno le violenze non hanno risparmiato nemmeno la capitale. Qui il 10 gennaio sono state ammazzate almeno 22 persone. Tanto che il governo australiano (forse preoccupato per i i suoi investimenti in Papua Nuova Guinea) ha offerto il proprio sostegno per garantire la sicurezza nell’isola, in particolare per l’addestramento delle forze di polizia locale.

    Gianni Sartori

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