Nell’imminenza del viaggio che il Santo Padre ha programmato nella Repubblica democratica del Congo (RDC) a inizio febbraio, è bene ricapitolare per i lettori di FarodiRoma una sintesi degli eventi in corso in questo paese dell’Africa centrale, tenendo anche conto dei fatti antecedenti e delle prospettive eventuali di soluzione della lunga crisi che attanaglia da oltre 28 anni le popolazioni congolesi delle provincie orientali.
Vogliamo farlo anche in risposta all’appello di padre Alex Zanotelli, che dall’inizio di questo giornale ha sempre rappresentato un riferimento importantissimo per il lavoro della nostra redazione, un testo del quale apprezziamo e condividiamo l’intento, ovvero accendere i riflettori su questo conflitto, ma di cui, tuttavia, non condividiamo le accuse al movimento M23, che riteniamo siano rivolte al soggetto sbagliato in quanto riferite a crimini e violenze in realtà compiute da altri.
Infatti è sull’interpretazione, o meglio, sulla gestione comunicazionale di questa crisi, che una narrazione deviante è stata fabbricata e ne distorce le cause e, distorcendone le cause, ne allontana la soluzione perpetuando il martirio delle popolazioni dell’Est.
E’ nel Nord-Kivu, una delle tre provincie orientali della RDC che nell’estate del 1994, appena al termine della consumazione del genocidio ruandese, che è costato la vita a un milione di Tutsi, si è riversata una massa di due milioni di profughi ruandesi appartenenti alla comunità hutu, tra i quali soldati e miliziani responsabili dello sterminio dei loro compatrioti.
L’esodo di questi ultimi, ai quali è stato consentito di attraversare la frontiera senza essere
disarmati e d’installarsi in prossimità del confine col loro paese d’origine – due cose che sono
in violazione di tutte le norme internazionali – è stato facilitato dai militari francesi
dell’Operazione Turquoise, in sintonia col ruolo giocato da Parigi come alleato del regime e
delle forze responsabili del genocidio.
Queste forze si sono progressivamente riorganizzate e da allora non hanno più abbandonato il Kivu, dove esercitano senza soluzione di continuità il terrore sulle popolazioni – quelle ruandofone in particolare, che hanno dovuto trovare rifugio nei paesi vicini – e organizzano il contrabbando delle risorse naturali, agiscono in connivenza con l’esercito regolare, influenzano la condotta dei deputati delle assemblee provinciali, si adoperano alla formazione di bande armate tribali (i famosi 130 gruppi armati) e veicolano i discorsi e i messaggi d’odio e di discriminazione contro le popolazioni che parlano la lingua kinyaruanda, fino a metterne in discussione l’appartenenza alla nazione congolese.
Questi estremisti genocidiari sono all’origine delle due guerre del Congo (1996-1997 e 1998-2002), che si son concluse con la finalizzazione di un Accordo di Pace (aprile 2003), uscito dal Dialogo Intercongolese du Sun City (DIC, Africa del Sud), organizzato a partire da febbraio 2001.
Ma l’assise sudafricana non ha risolto la crisi, non avendone portato a compimento uno dei
suoi obiettivi principali, quello della riconciliazione nazionale, ed avendo completamente
fallito nell’adempimento del mandato, affidato alla classe politica congolese uscita dal DIC e
alla comunità internazionale – Nazioni Unite in testa – di allontanare, se necessario con la
forza, truppe e milizie genocidarie dalle regioni orientali della RDC.
Queste forze negative, che agiscono con la sigla di Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (FDLR), motore principale dell’insicurezza e della violenza a l’Est, sono state
combattute fino alla fine del 2008 dal Congresso nazionale per la difesa del popolo (CNDP),
poi, tra il 2012 e il 2013, dal Movimento del 23 Marzo (M23), che è una filiazione del primo.
Queste due organizzazioni politico-militari non hanno mai avuto nel loro programma la presa del potere a Kinshasa ed oggi l’M23 si batte per securizzare le popolazioni del Kivu, assicurare la riconciliazione tra le diverse comunità delle provincie orientali, mettre fine al fenomeno dei gruppi armati, delle FDLR in particolare, e garantire l’equa ridistribuzione alle popolazioni dei benefici delle risorse naturali.
Luigi Rosati
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Al fine di offrire ai nostri lettori gli elementi coerenti di analisi della crisi congolese, ed in opposizione all’impostura disinformazionale della comunicazione deviante, pubblichiamo qui di seguito un intervento del nostro corrispondente dall’Africa – Fulvio Beltrami – completato da un articolo dell’analista congolese Alex Mvuka.
RCDCongo. Quali sono le rivendicazioni del M23 e quali cammino di Pace è possibile?
Il Movimento 23 Marzo (in sigla M23) è un movimento politico-militare che si batte per proteggere la minoranza etnica tutsi all’est del Congo, vittima di ripetute pulizie etniche, e per il ritorno delle condizioni minime di sicurezza per tutte le popolazioni dell’Est.
Nel 2013, dopo intensi combattimenti, apre il dialogo con il governo e ritira le sue truppe nella vicina Uganda. Da novembre del 2021, dopo l’ennesima escalation di pulizie etniche contro la minoranza tutsi, è di nuovo in guerra contro il regime di Kinshasa.
Nei mesi seguenti, l’M23 ha conquistato vasti territori nel Nord-Kivu arrivando alle porte della capitale Goma. Grazie alla mediazione regionale della Comunità dell’Africa dell’Est (EAC, secondo l’acronimo inglese) e della facilitazione dell’Angola, l’M23 ha accettato di ritirarsi da Kibumba, una delle sue posizioni strategiche alle porte di Goma, conquistata alla fine di ottobre.
Il ritiro di Kibumba sottolinea il «gesto di buona volontà compiuto in nome della pace», come affermato da Lawrence Kanyuka, portavoce politico del movimento.
Il tutto restando inteso che le truppe dell’EAC, che hanno preso il posto di quelle dell’M23, non devono far entrare a Kibumba le forze dell’esercito regolare (FARDC), né quelle dei gruppi armati alleati di queste ultime.
La ribellione M23 si inserisce in un contesto politico assai complicato a meno di un anno dalle elezioni presidenziali. L’attuale Capo di Stato, Félix Antoine Tshisekedi Tshilombo (asceso alla carica presidenziale grazie ad una colossale frode elettorale nel 2019), sta alimentando la presenza delle bande armate all’Est del Paese, in special modo quella del gruppo terroristico ruandese Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda (FDLR), responsabili del genocidio in Ruanda nel 1994.
Paradossalmente le FDLR sono state in gran parte integrate nell’esercito regolare congolese; controllano l’estrazione e l’esportazione di minerali preziosi e rari; detengono almeno il 60% dell’economia delle provincie del Nord e Sud Kivu.
Tutto ciò li mette le FDLR nella posizione di influenzare la politica del governo congolese e le decisioni dello stesso Presidente Tshisekedi. Per aumentare il controllo economico e politico, le FLDR hanno alimentato tra la popolazione (poverissima) un inaudito odio etnico contro la minoranza tutsi e il vicino Ruanda, sperando di attivare un genocidio e una guerra contro il loro nemico numero uno: il Presidente ruandese Paul Kagame.
Pur non potendo ancora parlare di un genocidio vero e proprio, le violenze etniche contro la minoranza tutsi, che sono comunque degli atti di genocidio, sono diventate ormai una orribile realtà quotidiana.
Il 24 dicembre, l’ultimo macabro episodio è avvenuto presso la località Nyiragongo (vicino al omonimo vulcano) dove due fratellini tutsi, Siboma Heshima Jean-Luis e Muhire Mugaruka Bienfait sono stati bruciati vivi dai terroristi ruandesi FDLR. Le loro ceneri sono state mischiate con il tabacco e fumate.
Fulvio Beltrami
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Il M23 potrebbe essere un albero che nasconde la foresta?
Per comprendere l’identità del movimento politico militare M23, le sue ragioni e le prospettive della sua rivolta, abbiamo ricevuto una dettagliata analisi di Alex Mvuka, dottorando in in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l’Università del Kent, analista politico sulla regione dei Grandi Laghi e Direttore del Centro di ricerca e analisi sulla regione dei Grandi Laghi.
La prima cosa da considerare è che i combattenti del M23 sono congolesi. Negare loro la loro “congolità” significa delegittimare ulteriormente la loro causa. La maggior parte di loro sono giovani rifugiati congolesi che sono stati espulsi dal loro paese, la Repubblica Democratica del Congo (RDC), diventando di fatto apolidi.
Contrariamente alle fakes che circolano sui social, i combattenti del M23 non sono solo congolesi di origine tutsi. Tra loro, ci sono molti Hutu e altre etnie congolesi. Il loro presidente appartiene alla etnia bantu Mushi di Bukavu, Sud Kivu.
Il portavoce del loro braccio armato, l’Esercito Rivoluzionario Congolese (ARC in acronimo), è originario della regione Bas-Congo.
L’attuale crisi nelle province orientali risale a diversi anni fa, ma si è accentuata intorno agli anni ’90 con l’avvento del sistema multipartitico e dei suoi corollari di conferenze nazionali sovrane, che portarono al rifiuto della nazionalità dei congolesi ruandofoni (hutu e tutsi) e di altri membri della comunità Bashi imparentati ai Tutsi.
Questo rifiuto di una minoranza etnica diventa un problema di Stato quando una personalità di alto rango, in questo caso il presidente dell’Assemblea nazionale, Mboso Kudia Pwanga, adotta un discorso estremista.
Di recente, senza alcuna vergogna, durante una plenaria trasmessa in diretta dalla televisione nazionale, ha detto all’Onorevole Moise Nyarugabo (di origine tutsi) di “tornare a casa sua”, facendo allusione al Ruanda.
Nyarugabo è nato e cresciuto in Congo ed è cittadino congolese a tutti gli effetti, eletto in Parlamento da cittadini congolesi. Non può tornare in Ruanda poiché questa nazione non è la sua patria.
Questo comportamento illegale nel trattare un deputato eletto è un atto di altissima irresponsabilità che ricorda il famoso parlamento degli anni 1990-1995, il Consiglio superiore della Repubblica/Parlamento di Transizione (HCR/PT), sotto la guida del famigerato Anzuluni Bemba Isilonyonyi, che aveva ordinato l’istituzione della commissione Vangu che aveva raccomandato la caccia all’uomo Tutsi.
Un ultimatum di 7 giorni contro i Tutsi era stato emesso da Lwaboshi e Shyekwa.
Il M23 e l’attuale regime di Kinshasa
È bene ricordare alla popolazione congolese che tutti i regimi al potere a Kinshasa sfruttano la problematica etnica dei Tutsi nell’Est della Repubblica per perpetuare i loro dettami. Come il fatto di parlare oggi di un’«aggressione ruandese» è utilizzato nella prospettiva delle presidenziali del 2023.
La strategia di rinviare le elezioni è voluta dall’attuale presidente Tshisekedi, dato che molti analisti prevedono una sua clamorosa sconfitta. Questa strategia, portata avanti con la cooperazione di leader della società civile e delle FDLR si basa sul rafforzamento dell’odio contro i tutsi e i ruandofoni e la colpevolizzazione il Ruanda, facendo credere che questo paese controlli al 100% il movimento M23 che, di conseguenza, non sarebbe una ribellione congolese ma una milizia straniera proveniente dal Ruanda.
A partire dagli anni ’90, infatti, i candidati ai vari organi politici provinciali o nazionali del Congo competono in base al loro grado di odio nei confronti dei Tutsi o dei Ruandofoni.
Diverse autorità politiche o religiose rifiutano o evitano di commentare la violenza contro i Tutsi per paura di perdere la loro base elettorale. Questo vale anche per i leader religiosi, sopratutto per i pastori protestanti.
Molti leader politici e religiosi rilasciano dichiarazioni pubbliche e politiche che non solo dimostrano le loro posizioni estremiste, ma propongono anche azioni violente contro i Tutsi congolesi.
E’ importante tenere conto di questi fattori in qualsiasi tentativo di risolvere questa crisi. Questo travisamento della realtà politica allontana i congolesi dalla percezione dei veri problemi che affliggono il Paese e che vanno bel oltre alle problematiche di convivenza etnica con la minoranza Tutsi.
A causa della strategia di odio etnico che infetta gran parte della popolazione congolese, nessuno pensa più ai programmi politici. Martin Madidi Fayulu (candidato che aveva vinto le precedenti elezioni, ma non riconosciuto, per offrire il potere a Felix Tshisekedi, NdT) può semplicemente dire che i Banyamulenge (Tutsi del Sud-Kivu) non esistono e sarà votato per questo.
Nel 1990-1992, i deputati del Sud e del Nord Kivu hanno chiesto a Mobutu: “scaccia questi ruandesi e noi ti sosterremo”. Questa cultura offusca la nostra comprensione delle ragioni politiche che hanno costretto l’M23 alla lotta armata.
Il problema delle trattative di pace.
In caso di conflitto si negozia o quando una parte è debole o se le due parti combattono fino a un punto morto. Per il momento, le due opzioni non sono soddisfatte perché le FARDC stanno combattendo una ribellione che non riconoscono come nemico ufficiale, affermando che si tratti di «terroristi».
Quindi, secondo il potere di Kinshasa, non esiste una parte in conflitto. Questa situazione rende il conflitto complesso. Scegliendo di non riconoscere il Movimento M23 come avversario politico e militare, inshasa individua il Ruanda come nemico.
Quali sono le richieste del M23?
Il M23 chiede il ritorno dei profughi congolesi dal Rwanda e dall’Uganda e la non discriminazione contro i Ruandofoni. Chiede la cessazione dell’odio tribale. Domanda che le FARDC (Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo NDT) siano un’istituzione che garantisca a tutti i cittadini un’equa protezione.
Occorre evidenziare che il movimento M23 non è un’entità sconosciuta per il presidente Félix Tshisekedi. Quando era all’opposizione, li ha incontrati diverse volte in Uganda ed ha dialogato con i dirigenti dell’M23 ospitandoli in un hotel a Kinshasa nel 2019 per più di sei mesi.
Dopo il loro ritiro in Uganda nel 2013, che pose fine alla prima ribellione inziata nel 2012, il presidente ugandese Yoweri Kaguta Museveni si è portato garante di questo movimento.
Museveni ha negoziato la loro uscita da Goma (conquistata nei primi mesi della ribellione nel 2012 NDG) e aveva promesso di discutere le loro richieste con l’ex presidente congolese Joseph Kabila. Erano stati stipulati dei precisi accordi a Kampala, in Uganda, che si basavano sulla fine dell’odio etnico contro la minoranza Tutsi, e la sua tutela sociale e giuridica, con il riconoscimento del M23 come un movimento politico congolese.
Questi punti dell’accordo di Kampala non si sono mai materializzati e su questa vicenda ci sono domande interessanti da porsi. Perché tutti gli accordi firmati da Joseph Kabila non sono stati onorati? Perché le promesse fatte da Antoine Felix Tshisekedi all’M23 non sono state rispettate? Perché il governo congolese ignora le richieste di negoziare con il M23 inoltrate da tutti gli organismi regionali (East African Community, SADEC) e internazionali, come l’Unione Africana?
E’ disarmante osservare la testardaggine del Presidente Thsisekedi che continua a rifiutarsi di negoziare con il M23 e a proporre fantomatiche guerre di aggressione da parte del Ruanda. Sul campo, i soldati dell’M23 stanno vincendo le battaglie contro l’esercito nazionale congolese (FARDC), i cui soldati sono sempre più demoralizzati.
Le soluzioni ai problemi della Repubblica Democratica del Congo devono partire dalle radici dei conflitti inter-etnici. Le decisioni politiche devono basarsi su decisioni che garantiscano l’inclusione e la coesione sociale. Una narrazione ufficiale basata su una presunta ‘interferenza esterna’ a sostegno dell’M23 non può che amplificare le fratture della società congolese.
Alex Mvuka
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L’informazione deviante sui combattenti del M23
Concludiamo il nostro dossier con un commento del prof. Luciano Vasapollo, autore di importanti saggi sulla comunicazione deviante e attivista per i diritti umani attraverso il Capitolo italiano della Rete di Artisti e Intellettuali in difesa dell’umanità da lui fondato insieme a Rita Martufi.
La diabolizzazione del M23, accusato di essere un movimento terrorista dal governo della Repubblica democratica del Congo (RDC) al fine di evitare di negoziare con i suoi rappresentanti, e la denuncia di una presunta «aggressione ruandese», sempre da parte del regime di Kinshasa, sono i punti-chiave della narrazione ufficiale delle autorità congolesi.
M23 è l’unica organizzazione político–militare con una reale struttura di massa e quindi a forte penetrazione nei territori e con appoggio della popolazione locale che ha un programma di concreta autodeterminazione e liberazione dalle forme evidenti e più o meno occultate dell’imperialismo, dei neocolonialismi e degli interessi delle multinazionali rapinatori delle risorse energetiche primarie.
Bisognerebbe chiedere a chi, volutamente e in chiave di direzione, o subendo, si fa portatore del terrorismo comunicazionale funzionale agli interessi imperialisti, e chi anche crede alle favole che gli raccontano, i comunicatori devianti, come mai le popolazioni civili congolesi, per sfuggire ai bombardamenti del “loro” esercito, corrono anche questi ultimi giorni a rifugiarsi nelle zone sotto controllo di questi – così chiamati dai terroristi mass mediatici – come “tagliagole” del M23.
Narrazione che serve in realtà a occultare le vere cause della crisi in corso da più di 28 anni nell’Est del paese e i cui fattori sono soprattutto interni, inerenti in particolare al malgoverno, alla corruzione, ai messaggi di odio tribale e alla presenza, in queste regioni orientali, di più di un centinaio di gruppi armati che agiscono terrorizzando le popolazioni e in connivenza con gli uomini politici locali e gli ufficiali dell’esercito (FARDC), con cui organizzano il traffico delle risorse e le violenze contro i civili, presi di mira secondo la loro identità etnica, violenze di cui i Tutsi sono le prime vittime.
Questa narrazione è in sé un attacco comunicazionale che serve peraltro a nascondere o a far dimenticare la presenza, nell’Est della RDC e tra le decine di gruppi armati, del più pericoloso e nefasto tra loro: le Forze democratiche di liberazione del Ruanda (FDLR), seguaci dei militari e dei miliziani responsabili del genocidio del 1994 in Ruanda.
Nonostante le numerose risoluzioni dell’ONU, nelle quali si impegnavano i diversi governi che si sono succeduti al potere a Kinshasa a smantellate questo movimento, le autorità congolesi non hanno mai rispettato questo impegno. Al contrario, l’esercito non ha mai smesso di collaborare con le FDLR, tanto nel traffico delle risorse che nelle violenze contro i civili.
Numerosi rapporti dell’ONU (S/2015/797, S/2016/466, S/2017/826, tra gli altri, più altri di Human Rights Watch) hanno denunciato queste violenze commesse dall’esercito, pianificate in particolare dal 2014 nel territorio di Beni (Nord-Kivu), di cui le cancellerie occidentali sono certamente a conoscenza, rifiutandosi di condannarle ed impedendone la mediatizzazione nei media mainstream.
Per tutte queste ragioni, ristabilire la pace e la convivenza tra le diverse comunità nell’Est della RDC non è possibile senza individuare e denunciare le vere cause di questa crisi che risalgono al 1994, quando le forze genocidarie (FDLR) arrivate dal Ruanda si stabilirono nell’Est della RDC con l’aiuto della Francia.
E denunciando nello stesso tempo l’impostura del discorso ufficiale di Kinshasa e del blocco occidentale della comunità internazionale alla ricerca di capri espiatori per occultare le responsabilità di questa situazione, responsabilità da condividere tra queste due componenti. Altrimenti, ci si assumerà un’altra responsabilità, quella di perpetuare il martirio delle popolazioni dell’Est della RDC.
Luciano Vasapollo
* da FarodiRoma
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