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L’Ucraina golpista e i “valori che stanno a cuore all’Europa”

Come ormai scritto e ripetuto, lo scorso 8 maggio, alla vigilia della 78esima ricorrenza della capitolazione nazista, il capintesta del regime neonazista di Kiev ha voluto l’abolizione in Ucraina della Festa della Vittoria, a suo dire «rimasuglio dell’eredità sovietica».

Dal 9 maggio 2023, dunque – e, si può supporre, finché a Kiev saranno al comando eredi della tradizione banderista filo-hitleriana – gli ucraini sono tenuti a celebrare una cosiddetta Festa dell’Europa e dovranno «festeggiare la nostra unità storica: l’unità con tutti gli europei che distrussero il nazismo e che sconfiggeranno il “russismo”. Questa sarà la Festa dell’Europa», ha proclamato colui che nel 2019 prometteva la fine della guerra in Donbass.

Ovviamente, è stato notato, la cosiddetta Festa dell’Europa non ha nulla che fare con la Grande guerra patriottica dei popoli dell’URSS (la precisazione, forse, è più doverosa per lettori russi), ma è legata alla formazione del Consiglio d’Europa (maggio 1949) e alla Dichiarazione Schumann sulla CECA (9 maggio 1950), l’antesignana della UE.

Per cui, la Kiev golpista e europeista, d’ora in poi ricorderà la fine della Seconda guerra mondiale in sordina, l’8 maggio; con buona pace anche di Semën Zelenskij, decorato con la Stella rossa, la cui memoria il nipote Vladimir, ancora il 9 maggio 2019, appena eletto presidente, diceva di onorare.

Ora, per l’Ucraina, la decisione zelenskiana è solo una mezza novità. Dal 2003 Kiev celebrava la cosiddetta “festa europea” il terzo sabato di maggio e anche nel 2023 non erano previste deviazioni dal programma. Fino all’8 maggio: proprio alla vigilia dell’arrivo a Kiev della signora Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea; e, secondo diverse voci, proprio dall’entourage di Ursula sarebbe venuto il “suggerimento” a Zelenskij per tale anticipazione.

Dunque, niente Festa della Vittoria, «residuo sovietico»: con grande giubilo di Ursula, nata Albrecht, discendente di industriali tedeschi del cotone che facevano grandi affari nella Russia prerivoluzionaria e, si può supporre, più tardi, anche nei territori occupati dell’Unione Sovietica, inclusa la RSS d’Ucraina. Così che cotanta nipote non ha potuto fare a meno di salutare «la decisione di Zelenskij di abrogare la Festa della Vittoria e rendere il 9 maggio Festa dell’Europa qui, in Ucraina».

Questo perché «il 9 maggio simboleggia qualcosa d’altro» che non la vittoria sovietica sul nazismo; significa «solidarietà. Una solidarietà che a noi hanno insegnato i conflitti globali del XX secolo. È questo lo spirito delle nostre democrazie. Onorevole presidente Zelenskij, oggi io sono qui per assicurarvi che voi potete contare sulla nostra solidarietà tanto, quanto sarà necessario».

Di sfuggita: nemmeno il predecessore di Zelenskij, l’ex presidente golpista Petro Porošenko, si era spinto a tanto, fino ad abolire la Festa della Vittoria, limitandosi a definire la vittoria sovietica una «vittoria ucraina».

Vagli a spiegare che il nome del 1° Fronte ucraino, che ebbe l’onore della conquista di Berlino e che prima si chiamava Fronte di Voronež, così come il 2° Fronte ucraino, ad esempio, si era chiamato in precedenza Fronte della steppa, non aveva nulla a che fare con la RSS d’Ucraina in quanto tale, ma era solo la denominazione di uno dei vari “Fronti”, o Gruppi d’Armate sovietici. Ma questo è un altro discorso.

Il discorso odierno (del 9 maggio) è invece quello secondo cui «Giustizia significa responsabilità per i crimini di guerra russi», parola di Ursula Albrecht, che ha aggiunto: «Ma il padre di tutti i crimini è il crimine di aggressione della Russia. Per questo motivo, sosterrò la creazione di un tribunale specifico per il crimine di aggressione».

Per la miseria, verrebbe da esclamare, stai a vedere che a Bruxelles istituiranno un tribunale per Aleksandr Turcinov e Petro Porošenko, il presidente ad interim e il primo presidente dell’Ucraina golpista, per l’aggressione all’Ucraina. Perché, nel 2014, prima che i jet di Kiev bombardassero Lugansk e Donetsk, il Donbass si considerava ed era ancora Ucraina. Questo, per limitarsi all’Ucraina. Non sembra il caso di oberare le corti europeiste per i crimini d’aggressione che dovrebbero portare in aula Clinton-Blair-D’Alema; questo, per limitarsi all’Europa.

D’altronde, è proprio a Kiev che, come assicura Ursula, «i valori che ci stanno a cuore vengono difesi ogni giorno», sparando sulla porta di casa o minando le auto dei giornalisti, suicidando ex deputati, bastonando chi porta fiori sui memoriali dei caduti sovietici, multando chi non parli ucraino, celebrando quali “eroi nazionali” i peggiori Komplizen hitleriani, esibendo simboli nazisti e sfoggiando uniformi SS alle parate rievocative, dando ora la caccia in strada ai giovani che rifiutano di andare a farsi ammazzare per gli interessi dei monopoli euro-atlantici che stanno saccheggiando l’Ucraina.

Per questo, per quei “valori”, la UE dirotta fondi dalle primarie necessità sociali all’armamento dei nazi-golpisti di Kiev e giura di volerlo fare «tanto, quanto sarà necessario». Anche se, ecco, per dire, l’ex comandante delle forze NATO in Europa, il generale USA Philip Breedlove, intervistato dalla ABC Action News, afferma che l’eventuale successo militare ucraino costituisce la paura principale dei paesi occidentali.

Ciò perché una vittoria di Kiev minaccia un’escalation nucleare in Europa. Breedlove ha aggiunto che l’Occidente sta dando a Kiev «abbastanza per evitare la sconfitta sul campo di battaglia». Dal punto di vista del militare yankee, Breedlove ha anche detto di ritenere «ovvio, anche se non se ne parla pubblicamente, che non stiamo dando all’Ucraina ciò di cui ha bisogno per vincere» e, par di capire dal suo pensiero, non “glielo diamo” a ragion veduta, pur se Jens Stoltenberg ammette che, a partire dall’inverno 2022-2023, la NATO ha fornito all’Ucraina un’assistenza militare senza precedenti, addestrando ed equipaggiando anche nove brigate ucraine.

D’altronde – è questa l’opinione di Vladimir Pavlenko sull’agenzia russa Rex, gli «Zelenskij vanno e vengono, ma i popoli e i territori restano» ed è per questo che «nessuno sano di mente, in Europa, punterà sul cavallo ucraino per i propri benessere e sicurezza, e nemmeno la NATO garantisce a Zelenskij l’ingresso nell’Alleanza».

Perché, a quanto si dice, Washington avrebbe già avvertito Kiev che il prossimo anno ci sarà una riduzione (ah, crederci!) di sei volte degli aiuti militari yankee ed ecco allora che Kiev “sogna” di una controffensiva che potrebbe non essere più necessaria, perché, con Donbass e regioni di Zaporož’e e Kherson passate alla Russia, tutto il resto del territorio rimarrebbe “sotto l’ombrello” NATO.

Discorso a parte è quello dell’estensione di quel “resto del territorio”; ma, anche ammettendo che alcuni paesi, e alcune “iene”, non avanzino pretese per le aree ucraine abitate da proprie minoranze, rimane comunque, almeno per ora, il veto proprio di una parte di quei paesi all’ingresso di Kiev nella NATO. Se Budapest è decisamente contraria, Praga è molto scettica, per esempio. Ma non solo.

E allora, com’è che a Kiev paiono così sicuri che si verrà loro incontro? È forse per lo sprone che viene ora dall’ex segretario NATO, Anders Rasmussen, ma che pure, ricorda Pavlenko, quando era al vertice dell’Alleanza, pronunziava parole che differivano poco da quelle attuali di Stoltenberg: «le porte sono aperte, ma il processo è lungo e complesso».

Poi, lasciato il posto nel 2014 e dando vita al “Rasmussen Group”, l’ex capo NATO si è messo a collaborare col predecessore di Zelenskij, Porošenko, e ora lavora col capo dell’ufficio di Zelenskij, Andrej Ermak e, su scala globale, con l’Alleanza per la Democrazia, Joe Biden e Mike Pompeo: proprio coloro che esigono da Zelenskij di avanzare al fronte.

Ma c’è anche una motivazione interna per le speranze di Kiev: con una garanzia di adesione alla NATO, Zelenskij potrebbe andare alle urne non come un clown che nel 2019 aveva promesso la pace e si è invece impantanato nella guerra, ma come un vero “statista”, pur con sulla coscienza il peso di alcune centinaia di migliaia di morti ucraini.

Manca però qualcosa: per “garantire” davvero Kiev, la NATO dovrebbe avere la sicurezza che Mosca accetti simile situazione. Ma l’accettazione potrebbe venire solo da una vittoria militare ucraina tale da destabilizzare totalmente la Russia e portare a un cambio di potere.

In ogni caso, Zelenskij è condannato a passare all’offensiva. In fin dei conti, conclude Vladimir Pavlenko, a Ovest si sono certamente considerati tutti questi scenari già quando, a dicembre 2021, si respinsero le proposte russe su cui era ancora possibile una soluzione pacifica.

Dunque, aspettiamo (ma non con le mani in mano) che qualcuno «sano di mente, in Europa» muova almeno i primi passi e smetta di puntare «sul cavallo ucraino per benessere e sicurezza».

Alle masse l’obbligo di far deviare il corso suicida attuale.

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