Le elezioni per il rinnovo dei sindaci svoltesi questa domenica in Catalunya ci consegnano uno scenario politico in movimento e di non facile lettura.
Nel corso della campagna elettorale il Partit dels Socialistes de Catalunya (PSC) si era presentato come il partito dell’ordine e degli affari: il candidato socialista impegnato nella quantomai incerta corsa al Comune di Barcellona aveva dichiarato di essere disposto a scendere a patti solo con chi fosse “pienamente leale allo stato e alle istituzioni europee”.
Unidas Podemos giocava la carta della riconferma di Ada Colau, ancora una volta l’attivo catalano più convincente del partito che, impegnato a spostare a sinistra l’asse del governo spagnolo, non sembra finora essere riuscito nell’impresa.
La gestione dell’immigrazione, l’adesione incondizionata del governo Sánchez alla guerra in Ucraina e per ultimo i ritocchi alla politica sulla violenza di genere hanno rappresentato altrettanti rospi di difficile digestione per gli eredi del movimento degli indignati.
Su Esquerra Republicana de Catalunya e Junts per Catalunya aleggiava invece la possibile disaffezione dell’elettorato indipendentista, deluso sia dal ritorno alla gestione dell’autonomia regionale che dal dialogo con lo Stato, impersonati soprattutto dal presidente della Genearalitat, Pere Aragonès.
L’interrogativo sul comportamento dell’elettorato indipendentista gravava anche sulla Candidatura d’Unitat Popular (CUP), impegnata nella difficile sfida per rientrare al comune di Barcellona e per la tenuta di alcuni centri di piccola e media grandezza nei quali si era imposta negli anni scorsi.
Un particolare interesse suscitava anche l’esperimento di Girona, dove il partito aveva confermato il sostegno a una ampia coalizione (Guanyem) che, uscendo dal più stretto recinto dell’esquerra independentista e anticapitalista, aspirava a portare sulla poltrona del sindaco il proprio candidato, Lluc Salellas.
Il dato più interessante uscito dalle urne sembra essere il calo della partecipazione. Non solo: l’astenione è cresciuta maggiormente nelle zone dove più consolidato è il voto indipendentista, con cali spettacolari attorno al 10% come nel caso di Girona o di Vic.
Rispetto alle precedenti municipali, ERC ha perduto più di 300.000 voti, la CUP più di 50.000, mentre Junts riesce a fermare il passivo sulla soglia dei 5.000 voti.
L’elettorato indipendentista ha cioè castigato chiaramente la tattica del “dialogo”, abbracciata soprattutto da ERC, e ha punito anche la CUP, incapace di invertire questa tendenza. Resta da vedere nelle prossime settimane se la direzione repubblicana sarà in grado di fare autocritica e cambiare la rotta o se stringerà ulteriormente la tacita alleanza con il PSOE.
Quanto al risutato della CUP, sembra aver pesato la disillusione diffusasi in alcune delle frange radicali dell’indipendentismo anticapitalista, per esempio nei Comitès de Defensa de la República (CDR).
In ogni modo, è interessante notare che l’elettorato indipendentista ha usato le elezioni municipali in chiave nazionale, sviando per una volta l’attenzione da Barcellona, che di solito monopolizza l’analisi elettorale delle comunali e costringendo ad aprire una riflessione sulla più ampia realtà catalana.
Chi beneficia di questa spettacolare astensione sono i socialisti che, alternando sapientemente la repressione poliziesca con l’indulto ai principali responsabili del referendum del primo ottobre, sono riusciti negli ultimi anni a rinnovare la propria immagine fino a scoprirsi sorprendentemente i più votati di queste comunali (nonostante anche il PSC registri una perdita di 55.000 voti).
Così i socialisti si sono affermati come il primo partito a Tarragona, Lleida e Girona, tre su quattro delle più grandi città catalane. Sebbene a Barcellona il partito più votato sia stato Junts per Catalunya, è tutt’altro che improbabile che un accordo tra PSC, ERC e i Comuns di Ada Colau finisca per imporre un sindaco espressione delle sinistre riformiste catalane e delle succursali statali. Il PSC potrebbe così portare a casa anche il Comune di Barcellona.
A Girona sono invece i socialisti a subire il gioco delle alleanze post-elettorali: l’ottimo risultato di Gunyem (la marca bianca della CUP) potrebbe rendere possibile un accordo con ERC e Junts e incoronare sindaco l’indipendentista e anticapitalista Salellas.
Nel complesso il risultato catalano dei socialisti è in netta controtendenza con i risultati deludenti ottenuti dal PSOE nelle altre regioni dello stato in cui si è votato (comunali in alcuni casi, regionali in altri). Bruciano in particolare le disfatte subite in Andalusia, al Païs Valencià, Balears, Aragona… che hanno indotto Pedro Sánchez a indire nuove elezioni per il prossimo 23 luglio, una decisione tra l’audacia e la temerarietà che lascia quantomeno sorpresi.
Per quel che riguarda l’estrema destra, Vox riesce ad entrare in 19 dei 20 municipi catalani di più grandi dimensioni, segnando una crescita che lo porta ad essere presente in 75 consigli comunali, tra cui quello di Barcellona.
Dal canto suo, il PP si impone a Badalona e ottiene rappresentanza a Barcellona. Il voto catalano della destra è nel complesso positivo e in sintonia con le affermazioni ottenute nella Comunità Autonoma e al Comune di Madrid.
“Nei Països Catalans sale la destra, l’estrema destra e lo spagnolismo. Non è un bel panorama, né per le sinistre né per l’indipendentismo. È il momento di una analisi profonda“. È il primo e stringato commento della CUP, un grido d’allerta per i rischi insiti nello scenario politico catalano e spagnolo al quale l’annuncio di nuove elezioni sembra aver impresso un’accelerazione dagli effetti imprevedibili.
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