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“Geoeconomia e sicurezza”: la Farnesina si prepara a scelte strategiche

È passato poco tempo dalla visita di Giorgia Meloni a Washington, dove la prima ministra è andata a «guadagnarsi la pagnotta» denunciando l’adesione alla Via della Seta di Pechino.

Crosetto ha voluto ripetere il messaggio, con conseguenti critiche dal cinese Global Times, il quale ha logicamente fatto notare che non è argomento di competenza della Difesa.

È però sicuramente tema di cui si occupa la Farnesina, che a fine luglio ha rilasciato uno studio dal titolo “Geoeconomia e sicurezza: implicazioni e scelte per l’Italia”. Alla sua stesura hanno collaborato vari think tanks, in particolare l’Aspen Institute Italia che, per capirci, ha Tremonti come attuale presidente, Amato e Cossiga tra i suoi predecessori.

Un denso testo di 35 pagine che nel titolo riassume gli elementi entro i quali il paese dovrà trovare una propria posizione nella competizione globale.

La dialettica è, infatti, tra le esigenze dell’economia che ha ancora importanti legami con la Cina, e quelle della sicurezza che è pensata graniticamente nella catena euroatlantica.

Si tratta di un “nuovo standard di complessità”, nel quale interagiscono vari fattori e vari attori, posizionandosi su livelli diversi. Di fronte al precipitare della crisi – che sia economica, ambientale o militare – sono emerse tutte le vulnerabilità connesse alle interdipendenze create nell’ultimo trentennio.

Quel che il ministero degli Esteri esplicita dall’osservazione di questa “policrisi” sono due aspetti dirimenti dello scenario in cui orienteranno le scelte future.

Il primo è che l’infrastruttura fisica e normativa su cui viaggia lo sviluppo economico e tecnologico globale rimane di impronta occidentale.

BRICS, yuan e CIPS non sono ancora valide alternative. “Ciò che realmente caratterizza le scelte della maggior parte dei paesi del «Global South» è il tentativo di tenere in vita «allineamenti multipli» e non la volontà di schierarsi tout court con chi si presenta come alternativa all’Occidente”.

Un mondo multipolare legato dalle opportunità offerte dall’affievolirsi della presa occidentale, ma senza collante ideologico. E un mondo euroatlantico in cui la crisi ha prodotto una ripresa della centralità di Washington dopo i contrasti interni segnalati dal “coma della NATO”, pochi anni fa segnalato da Macron.

Questo è il secondo aspetto che è utile sottolineare. È aumentato “il grado di «americanizzazione» dell’Europa, che peraltro ha complessivamente perso competitività rispetto agli Stati Uniti. Le tesi sulla cosiddetta «autonomia strategica» dell’UE, in particolare nelle versioni alla Macron, ne sono uscite fortemente ridimensionate”.

Questo non significa che Bruxelles rinuncerà a questa strada, ma che lì, nelle istituzioni comunitarie, sul concetto di de-risking dovranno lavorare attentamente.

La sfida per l’UE è disporre di politiche, ma anche di capitali adeguati, per partecipare a una simile competizione industriale e tecnologica”.

Da una parte, l’UE si trova stretta dalla ricerca di un nuovo Washington Consensus, imposto però a forza di scelte su cui solo ex post la Commissione può cercare coordinamento (come per l’Inflation Reduction Act).

Dall’altra, dall’imprescindibile relazione con il Dragone, che però ha già mostrato di essere pronto a ritorsioni in caso di minaccia ai propri interessi.

Il problema, afferma il documento, è che non esiste ancora una linea politica unitaria sulla Cina da parte europea. Ma se Germania e Francia hanno dato corpo a proprie ipotesi “mancano in Europa altre voci, limitando così fortemente il confronto e impedendo la formazione appunto di una visione comunitaria”.

Servirà dunque puntare “sulla forza negoziale aggregata della UE, e quindi rinunciando (naturalmente, su base di stretta reciprocità) a una sorta di competizione al ribasso tra i Paesi europei”. Sembra un esplicito rimando al futuro del Memorandum sulla Via della Seta.

Ma non è l’unica cosa che ne emerge, e forse nemmeno la più importante. Il governo Meloni assume definitivamente l’interesse strategico espresso nelle istituzioni comunitarie come preminente su quello nazionale, e lo fa in cambio di maggiore condivisione delle leve di comando e della riduzione della tensione tra i ‘falchi del Nord Europa’ e Roma.

Difatti, all’interno del documento si fa esplicito riferimento a una visione più ampia sulle politiche di bilancio, a ridosso della riforma del Patto di Stabilità. Ad essa va collegata anche una nuova politica industriale, basata su fondi, sussidi e incentivi comuni.

Non si tratta di uno scambio tra ciò che offre la Cina e la concorrenza interna all’area europea, ma è la riorganizzazione di questi elementi in virtù della competizione globale, in cui è la UE l’unica opportunità tanto per Berlino quanto per Roma.

Vi sono le condizioni generali per un salto di qualità da parte della UE, ma il consenso per vere azioni di policy va costruito e coltivato”.

Di nuovo, all’Italia in questo progetto imperialistico viene riservato il ruolo centrale di snodo energetico e di ponte col continente africano, “regioni comunque cruciali per gli interessi nazionali – e di fatto per gli interessi comuni europei”.

Su di esse, infatti, si allungano ragioni sia economiche (di rilocalizzazione industriale) sia di sicurezza e gestione dei flussi migratori.

Per questo all’avvicendamento di potere in Niger più soggetti hanno pensato di rispondere con un intervento militare.

In ballo per la UE c’è il già citato ‘salto di qualità’, e le classi dirigenti sanno bene che di fronte al loro ulteriore fallimento l’opportunità di sviluppare un’alternativa si farà più spazio, tanto più guardando alle possibili connessioni con esperienze nuove al di là del Mediterraneo.

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