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“Né guerra né pace”. La parola chiave della politica di Washington in Medio Oriente

Osservando la politica estera statunitense verso “l’arco delle crisi”, o meglio l’anello delle crisi in corso nella regione, si evidenza una caratteristica comune. Questa caratteristica persiste nonostante le differenze degli attori, nei contesti e nello spostamento delle priorità da una crisi all’altra.

Questa caratteristica comune è racchiusa in un’unica idea: “né guerra, né pace“. Come si manifesta tutto questo? Perché Washington opta per questa scelta? E quali potrebbero essere le sue potenziali ripercussioni?

Innanzitutto cominciamo spiegando e definendo il concetto di “Né guerra, né pace”. Il termine divenne comune nella letteratura politica araba durante il periodo compreso tra la sconfitta del giugno 1967 e la guerra dell’ottobre 1973.

È stato preso in prestito dal lessico della Guerra Fredda e dalle dinamiche di potere del secondo dopoguerra tra il campo socialista e quello capitalista fino alla caduta del Muro di Berlino.

Questo termine si riferisce a uno stato di stagnazione strategica che impedisce grandi guerre e conflitti, pur mantenendo aperta la possibilità di guerre e conflitti limitati e controllati.

Significa uno stato in cui le linee del fronte rimangono tranquille e i conflitti sono supervisionati e confinati, ma non vengono allocati tempo, sforzi e risorse sufficienti per la loro risoluzione o trasformazione. Ciò avviene senza il perseguimento di soluzioni radicali che ne affrontino le cause e i fattori fondamentali.

Gli Stati ricorrono tipicamente all’opzione “né guerra, né pace” quando una parte trova difficile ottenere una vittoria inequivocabile sull’altra. Le grandi potenze spesso adottano questa strategia per prosciugare le risorse di un avversario ed eroderne la forza, o nella speranza di offrire a un alleato l’opportunità di riprendere fiato e prepararsi per futuri round di battaglia e guerra.

In alcuni casi, c’è l’aspirazione a che una situazione transitoria evolva in una situazione permanente, facendo così del mantenimento dello status quo la soluzione prevista a pieno titolo.

Nella crisi più ampia che attraversa la regione (Araba) da un secolo, questo concetto si è storicamente manifestato nella forma più evidente. Prima dell’epoca in cui l’Egitto stipulava accordi di normalizzazione con Israele, la regione trascorreva gran parte della durata del conflitto in uno stato di “né guerra, né pace” con poche eccezioni, rendendolo la regola piuttosto che l’eccezione.

Con il sostegno robusto e incessante degli ambienti europei e occidentali, in particolare degli Stati Uniti, Israele è riuscito a costruire le basi della sua forza, capacità ed espansione.

Se non fosse stato per i prolungati anni di “né guerra, né pace” il progetto sionista non sarebbe riuscito a comprendere l’intera area della Palestina storica o a invadere i confini degli stati arabi circostanti. Non sarebbe stato in grado di estendersi da quei confini fino al centro degli stati arabi “sostenitori” attraverso le vie della normalizzazione economica, della sicurezza e culturale.

Oggi Washington continua con un approccio simile. Fondamentalmente, i suoi movimenti politici servono a perpetuare uno status di “né guerra, né pace” nel conflitto israelo-palestinese. Una soluzione permanente non è nell’agenda dell’amministrazione Biden, e non ci si aspetta che sia nell’agenda dei suoi successori.

Una grande esplosione non sembra auspicabile dal punto di vista di Washington, poiché potrebbe sconvolgere altre priorità, estendendosi dall’Ucraina e dal Mar Nero a Taiwan e al Mar Cinese Meridionale, e attraversando il Pacifico e l’Oceano Indiano”.

Le aspirazioni dell’amministrazione Biden per la Palestina non vanno oltre il raggiungimento di un’equazione “sicurezza in cambio di benefici economici”, anche se ciò porta alla trasformazione dell’Autorità Palestinese da un progetto statale a una forza di sicurezza per procura dello stato occupante.

Questa forza dedicherebbe i suoi sforzi alla salvaguardia degli insediamenti e dei coloni in cambio di modesti vantaggi economici e commerciali, oltre ad alleviare le degradanti restrizioni alla mobilità palestinese. Ciò stabilisce lo standard per l’azione degli Stati Uniti fino a nuovo avviso, costituendo un’interpretazione moderna del concetto “né guerra, né pace” nell’attuale contesto palestinese.

Nello Yemen non si verificano più grandi battaglie e guerre e le armi sono rimaste silenziose per oltre un anno. Nonostante il cessate il fuoco sia in scadenza e non sia stato rinnovato, le linee del fronte sono rimaste calme e silenziose – a terra, in aria e in mare – indisturbate anche da scaramucce occasionali.

Nel frattempo, i percorsi dei negoziati sono sospesi, apparentemente in attesa che inizi un’altra era, e gli sforzi degli inviati delle Nazioni Unite e degli Stati Uniti non hanno prodotto alcun successo. Uno stato di “né guerra, né pace” prevale sullo Yemen nonostante gli avvertimenti di molti che ciò non impedirà una esplosione e che è piena di possibilità che prefigurano conseguenze disastrose.

Né guerra, né pace” nel contesto palestinese significa il logoramento dei palestinesi, uno spirito di resistenza che svanisce tra le generazioni più giovani e la possibilità di un aumento delle controversie e delle divisioni interne. Nel frattempo, gli insediamenti si espandono come un’erbaccia malevola, che prospera a spese della terra, dei diritti e dei luoghi santi palestinesi.

Al contrario, “né guerra né pace” nell’esperienza yemenita sembra essere una trappola attentamente tesa per gli Houthi Ansarullah, che ora devono concentrarsi non sull’andamento delle battaglie in prima linea, ma sull’assicurare un sostentamento dignitoso a milioni di yemeniti. Nelle zone sotto il loro controllo.

Questo è un compito molto più difficile in tempi di tregua e di calma rispetto al compito di vincere battaglie e lanciare droni e missili in tempi di guerra e conflitto. Ciò è particolarmente vero se si considerano le circostanze economiche e sociali dello Yemen, nonché le gravi e sostanziali ripercussioni del blocco in corso sulle regioni settentrionali del paese.

Anche in Siria non si verificano più scontri significativi. I principali scontri sono cessati. La base russa di Hmeimim ha già dichiarato esplicitamente che l’era delle grandi battaglie in Siria è finita. Tuttavia, ancora una volta in Siria stiamo osservando una situazione nè guerra né pace.

Oltre un quarto del territorio del Paese, che ospita milioni di siriani, rimane fuori dal controllo e dalla sovranità dello Stato. La guerra economica persiste attraverso il Caesar Act e altre legislazioni punitive.

Le promesse riguardanti la ricostruzione della Siria o una ripresa anticipata, simili al ritorno dei rifugiati, rimangono ostacolate dalle linee rosse occidentali, rendendo l’adempimento di questi compiti eccessivamente impegnativo.

Non ci sono grandi guerre o battaglie, ma non ci sono nemmeno soluzioni politiche o diplomatiche. Il percorso di Ginevra resta stagnante, mentre il percorso di Astana non è riuscito a mantenere il suo slancio.

Nel frattempo, il Comitato costituzionale sembra fare solo la sua apparizione nelle riunioni del Gruppo di contatto arabo a sei, e dall’inviato dell’ONU Geir Pedersen non si hanno quasi aggiornamenti. È quasi come se l’obiettivo fosse sostenere uno stallo strategico da tutte le parti e perpetuare uno stato di stasi e stagnazione.

Questo da solo è sufficiente per innescare crisi economiche e sociali, contando su una serie di esplosioni interne o su una nuova ondata di “rivolte per il pane”, mentre le armi e il fronte tacciono da un lato e le prospettive e le soluzioni politiche restano assenti dall’altro.

La Libia, da parte sua, non è esente da questa politica. La guerra si è calmata da quando è emerso il potenziale di conflitto tra gli eserciti turco ed egiziano lungo la linea Sirte-Jufra. Gli inviati internazionali vanno e vengono, cambiano nomi e figure, qua e là scoppiano scontri sporadici. Tuttavia, il risultato è che la Libia è passata oltre la fase di guerre e battaglie significative, ma non è ancora entrata nella fase di pace.

Ciò lascia la porta aperta a tutti i tipi di possibilità. Washington è incapace di risolvere questi conflitti con mezzi militari o di risolverli politicamente, né direttamente né tramite alleati regionali e delegati. Tuttavia, è ancora in grado di impedire la pace finché non si allinea ai suoi termini e condizioni. Ricorre quindi all’opzione “né guerra, né pace”, che gli garantisce un’ampia gamma di scelte e alternative.

Ad esempio, può schierare Marines e navi da guerra nel Golfo, rafforzare la propria presenza militare nella Siria nord-orientale e ingaggiare milizie clan per interrompere il corridoio cruciale dell’Iran che si estende da Caspio al Mediterraneo orientale.

Può attaccare la Russia in Siria e mantenere la sua cosiddetta “strategia di deterrenza contro il ruolo destabilizzante dell’Iran”, il tutto senza precludere il perseguimento di “accordi minori” come l’accordo di scambio di prigionieri attraverso negoziati a porte chiuse a Mascate e Doha. Nel frattempo, non ha alcuna obiezione a impegnarsi in “guerre minori”, direttamente o indirettamente per procura.

Lo status di “né guerra, né pace” sulla scena araba e regionale si aggiunge agli oneri degli stati e dei popoli regionali e mantiene il loro futuro ambiguo e incerto, soprattutto per quelli che non rientrano nell’orbita degli Stati Uniti.

*Fondatore e direttore del AlQuds Center for political studies

(Traduzione di Bassam Saleh)

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1 Commento


  • Andrea Vannini

    “NÉ GUERRA NÉ pace”

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