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Palestina: la nuova linea di frattura nel mondo multipolare

Il 13 novembre del 1974, l’allora leader dell’Organizzazione della Liberazione della Palestina (OLP), Yasser Arafat pronunciò uno storico discorso all’Assemblea Generale dell’ONU.

Abu Ammar, concluse il suo intervento con queste parole: «Mi appello a voi affinché permettiate che il nostro popolo istituisca la sovranità nazionale indipendente sulla nostra terra. Oggi sono venuto portando un ramoscello d’ulivo e un fucile di un combattente per la libertà. Non lasciate che il ramoscello d’ulivo mi cada di mano. Ripeto: non lasciate che il ramoscello d’ulivo cada di mano».

A quasi 50 anni di distanza, è superfluo dire che l’Occidente ha lasciato cadere più volte quel ramoscello, simbolo di una pace possibile con la creazione di uno Stato multiconfessionale, come allora proponeva il dirigente di Al-Fatah con grande apertura e lungimiranza.

Il mondo unipolare a trazione statunitense ha fatto svanire presto l’illusione che i già deficitari gli Accordi di Oslo – nella prima metà degli Anni Novanta, dopo la Prima Intifada (1987-1993) – potessero costituire una base di partenza per lo sviluppo pacifico di quello che era stato il cuore del conflitto arabo/israeliano, ovvero la “questione palestinese”.

Lo scoppio della Seconda Intifada – tra il 2000 e il 2005 – ne certificò il fallimento, senza che però ne seguisse alcuna iniziativa seria.

Da Oslo in poi non c’è stato, infatti, alcun tentativo credibile di rilanciare un processo politico. Nell’agenda occidentale si è semplicemente derubricata la Palestina  a tema accessorio, dato per risolto, di serie C, quasi folkloristico.

Le cancellerie occidentali, anche quelle che si erano caratterizzate storicamente per una maggiore autonomia dagli USA, hanno creduto che l’ampliamento del processo di normalizzazione tra alcuni Stati arabi e Israele – iniziato illo tempore con la Giordania e l’Egitto – fosse la soluzione al problema, insieme alla marginalizzazione dei paesi che andavano formando un nuovo “fronte del rifiuto(Algeria, Siria, Iran ed Iraq), che ha ora ritrovato un nuovo protagonismo.

Ma le contraddizioni strutturali del sionismo e della condizione palestinese sono rimaste irrisolte, stentando persino a trovare una loro rappresentazione a livello internazionale.

Il sionismo è infatti un “residuato bellico” del colonialismo novecentesco, così come lo era l’apartheid in Sud-Africa superata solo grazie ad una serie di ragioni: una pesante sconfitta militare in Angola, un forte movimento al suo interno contro quel regime (di massa ed armato), una massiccia pressione esterna (sanzioni e boicottaggi), ed una dirigenza politica che aveva capito, da un lato, che il “privilegio bianco” aveva i giorni contati e, dall’altro, che la lotta armata fosse ad un vicolo cieco.

Israele è stata storicamente – in alleanza con gli stati Uniti – un bastione della controrivoluzione, non solo a livello medio-orientale, ed è strutturalmente votata ad un rapporto conflittuale con i vicini che non si piegano ai suoi voleri.

Al suo interno l’entità sionista è poi uno stato razzista e confessionale (“stato ebraico”, non laico), dove regna l’apartheid, in cui la pulizia etnica di Gerusalemme e l’ulteriore colonizzazione della West Bank, insieme alla chiusura ermetica della Striscia di Gaza, sono diventati gli assi principali della politica, l’alfa e l’omega di chi si candida a governare il paese, in una sindrome da stato d’assedio permanente.

La politica israeliana – dopo Rabin – non ha sfornato nessun De Gaulle e nessun De Klerk, cioè leader sicuramente conservatori ma in grado di imporsi anche alla propria base sociale in via di fascistizzazione, e capaci di una qualche “visione” al di là del semplice status quo.

Mentre la Palestina diveniva una pentola a pressione pronta ad esplodere, la leadership israeliana ha sempre pensato che fosse sufficiente chiudere con più forza il coperchio, come tutti i dominatori al crepuscolo.

La nuova era “post-palestinese” cui aspirava l’Occidente sembrava aver avuto una data d’inizio con il 27 marzo del 2022.

Quel giorno l’allora ministro degli esteri israeliano, Yaïr Lapid, aveva riunito il suo omologo statunitense, Antony Blinken, ed i capi della diplomazia di 4 paesi arabi (Egitto, EAU, Bahrein, Marocco) per parlare dell’Iran, del quadro regionale, dell’Ucraina ed anche un po’ – ma molto poco – della Palestina.

«I vecchi moriranno, i giovani dimenticheranno», diceva Ben Gurion.

Illusi.

Per i palestinesi, la partita, era tutt’altro che chiusa nonostante i tradimenti dei regimi arabi e la complicità occidentale (compresa l’UE) nei confronti di un potere sempre più – anche nominalmente – neofascista.

Con l’operazione ‘Diluvio di Al-Aqsa’ questa illusione di una era che si lasciava alle spalle, irrisolta ma ignorabile, la “questione palestinese” è definitivamente crollata. Il “Nuovo Medio-Oriente” ha le stesse contraddizioni del vecchio, al centro del quale sta una ferita storica aperta ed insanabile con i soli strumenti militari.

Non sanabile, se non con l’accoglimento delle istanze dei palestinesi. o almeno di una loro parte considerevole.

Com’è sempre stato storicamente la forma dell’azione combattente eclatante ridà centralità a ciò che sembrava scomparso agli occhi di un’opinione pubblica distratta.

Certamente questa riaffermazione propone un profilo aspro, ben poco digeribile per una sinistra eurocentrica, le cui lenti deformanti hanno via via sempre più identificato i palestinesi – ed in generale i “popoli oppressi” – come vittime da compiangere in qualche occasione pubblica, e non come soggetti attivi in grado di affermare la propria liberazione, costi quel che costi.

Il contesto però è cambiato perché c’è ora un mondo sempre più multipolare, dove i soggetti emergenti hanno già dimostrato di potere cambiare a loro modo il quadro dato, anche in “Medio Oriente”.

La Russia in Siria ha dimostrato di poter determinare, innanzitutto militarmente, un cambiamento; così come la Cina, diplomaticamente, ha dato prova di grande capacità realizzando lo storico avvio della normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita ed Iran, promuovendo contestualmente l’inizio del processo di pace in Yemen.

Il Pontefice, poi, ha sposato da tempo una visione multicentrica facendone uno degli assi della propria diplomazia in un mondo caratterizzato dalla “terza guerra mondiale a pezzi”, dove Pax Christiana e Pax Atlantica stavolta non convergono.

Sia la Russia che la Cina sono i paesi che, tra le grandi potenze, sostengono una risoluzione politica del conflitto che non sia la soluzione finale di matrice israeliana, apertamente appoggiata dall’imperialismo euro-atlantico.

Pechino e Mosca non sono certamente dei “filantropi”; scelgono questa via per ridefinire i contorni di un quadrante vitale per il proprio sviluppo dentro la competizione globale, ma la loro sponda (anche parziale) potrebbe dare una nuova profondità strategica alla causa palestinese, dopo il lungo isolamento patito con la fine dell’URSS.

La Palestina è oggi ridiventata una linea di frattura, l’ennesima, tra l’Occidente ed il Sud Globale – non solo Russia e Cina -, e se ne sono accorte anche quelle poche forze progressiste che non hanno mandato il cervello all’ammasso, mantenendo un minimo di coraggio e coerenza: Varoufakis insegna.

É chiaro che con l’operazione del 7 ottobre il conflitto arabo-israeliano entra in una nuova fase che non si esaurirà nel breve periodo, dove per ora una “pace giusta” sembra un miraggio parecchio lontano.

Gli esiti del conflitto in corso cambieranno però i rapporti di forza non solo tra palestinesi ed israeliani, ma anche a livello regionale tra chi sostiene gli uni o gli altri, e probabilmente tra i vari blocchi geo-politici in formazione.

Gli esiti del conflitto in corso certificheranno probabilmente il passaggio ad un differente equilibrio, così come avvenne con la guerra di Suez, nel ’56, che determinò l’uscita di scena di Francia e Gran Bretagna dal novero delle grandi potenze; o la guerra del Kippur nel ’73, dove all’iniziale disfatta israeliana seguì la “crisi petrolifera” che mostrò i limiti dell’Occidente.

Siamo quindi ad un possibile punto di svolta.

Mentre Israele è ad un impasse.

Se continua con l’assedio a Gaza, condotto in queste modalità, si alienerà una buona parte dei consensi che ha potuto capitalizzare a causa delle perdite subite fino ad ora con l’operazione Diluvio di Al-Aqsa, senza però ottenere alcun obiettivo strategico.

La sola “punizione collettiva” degli abitanti della Striscia, a sua volta, probabilmente contribuirebbe a scatenare le legittime reazioni dei palestinesi della West Bank e dell’intero arco delle forze della Resistenza in quell’area.

Un assedio di lunga durata, d’altro canto, non potrà che sviluppare movimenti d’opinione avversi all’attuale mattanza, nonostante una propaganda mediatica occidentale quasi monolitica.

La liberazione degli israeliani catturati è uno degli obiettivi principali di Israele, insieme all’indebolimento della Resistenza, ma la stima dei soli effettivi di Hamas nella Striscia parla di almeno 35 mila uomini. I quali hanno dimostrato “capacità” sorprendenti nelle incursioni in territorio nemico, figuriamoci “in casa”.

Se l’esercito israeliano entra con una manovra terrestre dovrà utilizzare “al massimo” le sue capacità – almeno 180 mila soldati – lasciando sguarniti gli altri fronti (West Bank, Libano e Siria) e rischia di subire un numero di perdite che potrebbe far vacillare il “fronte interno”, e raggiungere solo parzialmente i suoi obiettivi, logorandosi ulteriormente.

Se invece mette in atto operazioni da commando, una volta localizzati gli ostaggi (se pure li riesce a localizzare, visto l’insuccesso dell’intelligence in occasione dell’attacco di Hams), non è detto che possano essere realizzate con un saldo di vittime “accettabile” nelle sue truppe d’élite.

Certamente i prigionieri in mano alla Resistenza palestinese sono una leva per richieste fondamentali (tra cui lo scambio di detenuti).

Siamo consci delle sofferenze immani che stanno vivendo gli abitanti di Gaza e degli spargimenti di sangue nella West Bank, ma non è affatto detto che questa volta che Israele  non possa perdere la guerra.

Se se ne uscisse con una sua sconfitta si aprirebbe una nuova fase, in cui aprire anche le trattative per una revisione complessiva della condizione palestinese ed una pace giusta in Medio-Oriente.

Non paradossalmente, questa direzione può essere presa solo ed esclusivamente con la sconfitta israeliana, perché la diplomazia occidentale ha fallito e al suo interno l’entità sionista ha lavorato perché non emergesse una visione diversa da quella attuale.

Lo diciamo con le parole di uno dei maggiori poeti palestinesi, Mahmud Darwish:

«E io sono io, null’altro…

Non sono un suddito di Roma di guardia

alle vie del sale. Ma devo pagare

una quota sul sale del mio pane e dico alla Storia:

orna i tuoi carri con schiavi e re umiliati, e passa…»

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2 Commenti


  • antonio

    ..una analisi e una narrazione che sta dimostrando come la Storia (quella con la esse maiuscola) non è affatto finita, bensì dimostra che all’interno della sua evoluzione storica e strategica è presente una “elitè altra” la quale agisce e pratica un ruolo “abissale e feroce” volendo pervicacemente e violentemente mantenere il proprio dominio e il proprio sfuttamento sui mercati orientali e non.
    In questo: un ruolo strategico lo sta giocando una nazione (inventata dal capitale globale e in preda oggi ad una isteria mistica cioè zelota e sionista) la quale: basandosi sulla storica crisi di coscienza (la shoa) di una parte europea; assume prepotentemente il ruolo di gendarme e tutore della “democrazia occidentale” senza per questo evitare di mettere in pratica strategicamente: atrocità; massacri; assedi e altro di sapore apocalittico (d’altronde la loro stessa religione biblica lo permette, lo annuncia e lo teorizza),
    Tutto ciò contro un intero popolo considerato “animalesco” quindi da sterminare (ma: non è chiamato genocidio questo?).


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