Accadde sempre nel mese di ottobre, nel 1973, esattamente cinquant’anni fa. Gli eserciti dell’Egitto e della Siria attraversarono le linee del cessate il fuoco, infliggendo pesanti perdite all’esercito israeliano. Che terribile colpo per Tel Aviv! Mentre i servizi segreti erano in possesso di informazioni su un imminente attacco, la leadership politica si trincerava nella sua protervia: sconfitti nel 1967, gli arabi non erano in grado di combattere, e quindi l’occupazione dei territori arabi poteva continuare facendola franca all’infinito.
“Cercare di rimettere piede in casa è un’aggressione”?
All’epoca, molti commentatori in Europa e negli Stati Uniti denunciarono un’ingiustificabile, immorale, non provocata “aggressione” egiziano-siriana – un termine molto caro ai leader israeliani perché occulta la causa fondamentale del conflitto: l’occupazione. Michel Jobert, a quel tempo ministro degli Esteri francese, si mostrò molto lucido: “Cercare di rimettere piede in casa costituisce necessariamente un’aggressione?”.
Se mettere fine all’occupazione del Sinai egiziano e del Golan siriano nel 1973 era legittimo, è forse illegittimo, cinquant’anni dopo, il desiderio dei palestinesi di liberarsi dall’occupazione israeliana? Come nell’ottobre 1973, Tel Aviv è stata colta alla sprovvista dall’azione palestinese, subendo una sconfitta militare di enorme portata. Anche questa volta, la tracotanza dell’occupante, il disprezzo per i palestinesi, la convinzione di questo governo suprematista ebraico che Dio sia dalla sua parte hanno contribuito alla sua condotta sconsiderata.
L’attacco scatenato dal comando militare congiunto della maggior parte delle organizzazioni palestinesi, sotto la guida delle Brigate Ezzedine Al-Qassam (il braccio armato di Hamas), non ha sorpreso solo per la sua tempistica, ma anche per la portata, l’organizzazione, le capacità militari dispiegate che hanno permesso, tra le altre cose, di sopraffare le basi militari israeliane.
Un attacco che ha unito tutti i palestinesi con l’ampio sostegno di un mondo arabo i cui leader stavano cercando di trattare con Israele sacrificando la Palestina. Anche Abu Mazen, presidente di un’Autorità palestinese ormai svilita, la cui principale ragion d’essere sembra essere quella di cooperare per la sicurezza con l’esercito israeliano, si è sentito in dovere di dichiarare che il suo popolo “ha il diritto di difendersi dal terrore dei coloni e delle truppe di occupazione” e che “noi abbiamo il dovere di proteggere il nostro popolo”.
Tutti terroristi!
Ogni volta che i palestinesi si ribellano, l’Occidente – così pronto a esaltare la resistenza degli ucraini – invoca il terrorismo. Così, il presidente Emmanuel Macron “ha condannato fermamente gli attacchi terroristici che stanno attualmente colpendo Israele”, senza dire una parola sull’occupazione permanente che è la vera molla della violenza.
La tenace, feroce, ostinata resilienza dei palestinesi stupisce sempre gli occupanti e sembra sconcertare molti commentatori occidentali. Come in occasione della prima Intifada nel 1987 o della seconda nel 2000, delle azioni armate in Cisgiordania o delle mobilitazioni a favore di Gerusalemme, come per gli scontri intorno a Gaza – assediata dal 2007 e che ha subito sei guerre in 17 anni (400 morti nel 2006, 1.300 morti nel 2008-2009, 160 nel 2012, 2.100 nel 2014, quasi 300 nel 2021 e varie decine nella primavera del 2023) – le autorità israeliane denunciano la “barbarie” dei loro avversari, soprattutto per il fatto che non hanno rispetto per la vita umana, in una parola il loro “terrorismo”.
Un’accusa che permette loro di essere sempre dalla parte della legge con la coscienza pulita, dissimulando così un sistema di apartheid di una brutalità inaudita che opprime quotidianamente i palestinesi.
Ancora una volta, va ricordato che molte organizzazioni terroristiche, messe alla gogna nel corso della storia, sono passate da una posizione di emarginazione al ruolo di legittimi interlocutori. In passato, l’Irish Republican Army (IRA), il Fronte di Liberazione Nazionale algerino (FNL), il Congresso Nazionale Africano (African National Congress, ANC) e molti altri sono stati variamente etichettati come gruppi “terroristici”, una parola che aveva lo scopo di depoliticizzare la loro lotta, di presentarla come uno scontro tra il bene e il male. Alla fine, è stato necessario negoziare con loro.
Suonano ancora profetiche le parole del generale de Gaulle dopo l’aggressione israeliana del giugno 1967:
“Oggi, Israele organizza, sui territori conquistati, un’occupazione che non può essere portata avanti senza oppressione, repressione, espulsioni… e c’è una resistenza che, a sua volta, viene definita terrorista”.
Non si tratta di un attacco “non provocato”
Come osserva il giornalista israeliano Haggai Matar:
“Contrariamente a quanto dicono molti israeliani, e sebbene l’esercito sia stato chiaramente colto completamente alla sprovvista da questa invasione, non si tratta di un attacco unilaterale o non provocato. La paura che gli israeliani provano in questo momento, me compreso, è solo una parte di ciò che i palestinesi provano quotidianamente sotto il regime militare decennale in Cisgiordania e sotto l’assedio e i ripetuti assalti a Gaza. Le risposte che sentiamo oggi da molti israeliani – di persone che chiedono di “radere al suolo Gaza”, dal momento che “questi sono selvaggi, non persone con cui si può negoziare”, “stanno assassinando intere famiglie”, “non c’è margine di parola con queste persone” – sono esattamente quelle che ho sentito dire innumerevoli volte dai palestinesi occupati riguardo agli israeliani”.
Come in ogni guerra, si può e si deve giustamente deplorare la morte dei civili, ma ci sono forse dei “civili buoni” per i quali versare lacrime e dei “civili cattivi” come i palestinesi uccisi quotidianamente in Cisgiordania, la cui morte suscita così poca indignazione?
Sono già 700 i morti israeliani (e oltre 400 palestinesi), lo stesso numero di morti delle guerre del 1967 contro Egitto, Giordania e Siria. La situazione politica e geopolitica della regione mediorientale subirà drastici cambiamenti, molto difficili da valutare in questa fase. Ma ciò che gli eventi attuali confermano ancora una volta è che l’occupazione scatena sempre una resistenza di cui gli unici responsabili sono gli occupanti. Come proclama l’articolo 2 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, la resistenza all’oppressione è un diritto fondamentale, un diritto che i palestinesi possono giustamente rivendicare.
*Specialista del Medio Oriente, è autore di diversi libri, tra cui De quoi la Palestine est-elle le nom ? (Les Liens qui libèrent, 2010) e Un chant d’amour. Israël-Palestine, une histoire française, con Hélène Aldeguer (La Découverte, 2017). In italiano Israele, Palestina. Le verità su un conflitto edito da Einaudi. Direttore di Orient XXI e per anni collaboratore di Le Monde Diplomatique.
Da OrientXXI.info.it
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