“Lo schema di uccisione non può essere negato. C’è forse una mancanza di compassione perché le vittime non sono statunitensi o europee?”
Sono in soggezione di fronte alla forza di Wael Dahdouh nel tornare davanti alla telecamera e concentrarsi sulla sofferenza degli altri, nonostante abbia ripetutamente sopportato il proprio inferno personale.
Il volto dei reportages di Al Jazeera durante l’incessante bombardamento di Gaza da parte di Israele era in onda a ottobre, quando ha saputo che sua moglie, la figlia di sette anni, il figlio di quindici e il nipotino di un anno erano stati uccisi in un attacco. Ha comunque continuato a raccontare.
Il mese scorso, lo stesso Dahdouh è stato ferito e il suo cameraman, Samer Abu Daqqa, è stato ucciso nel bombardamento israeliano di una scuola gestita dalle Nazioni Unite e usata come rifugio.
Domenica, poi, un drone israeliano ha colpito un’auto nel sud di Gaza uccidendo il figlio maggiore di Dahdouh, Hamza, 27 anni, che lavorava per Al Jazeera, insieme a un altro giornalista.
Dahdouh si è preso una pausa per partecipare al funerale del figlio e poi è tornato in onda. “Nulla è più duro del dolore di una perdita, e quando si sperimenta questo dolore più volte, esso diventa più duro e più grave“, ha detto ad Al Jazeera.
“Desidero che il sangue di mio figlio Hamza sia l’ultimo dei giornalisti e l’ultimo della gente qui a Gaza, e che questo massacro si fermi“.
Hamza e il suo collega, Mustafa Thuraya, un videografo dell’Agence France Press, sono stati gli ultimi di decine di giornalisti uccisi da Israele nell’assalto a Gaza, in risposta all’attacco transfrontaliero di ottobre da parte di Hamas.
Israele afferma di non prendere di mira i giornalisti, ma questo è difficile da conciliare con il fatto che i suoi militari hanno puntato due missili direttamente sull’auto che trasportava Hamza.
Le Forze di Difesa Israeliane, che hanno un lungo curriculum di false dichiarazioni sulle circostanze in cui hanno ucciso vari giornalisti, hanno inizialmente affermato che nel veicolo c’era un «terrorista» con un drone con telecamera.
Ma i reporter non stavano pilotando il drone quando l’auto è stata colpita ed è difficile credere che, se i militari stavano seguendo le azioni dei giornalisti, non li abbiano riconosciuti come operatori dei media.
Il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) calcola che Israele abbia ucciso più di 70 operatori in quest’ultima guerra a Gaza, rendendola il conflitto più letale per i giornalisti da decenni a questa parte. Altri ritengono che il bilancio sia superiore a 100.
Il CPJ afferma che la portata e le circostanze delle uccisioni, comprese le minacce dirette ai giornalisti e alle loro famiglie da parte di funzionari israeliani, sono la prova che i giornalisti palestinesi a Gaza sono presi di mira.
Sono assassinati, in altre parole. Se è così, si tratta di un crimine di guerra e, come ha chiesto Al Jazeera, il Tribunale Penale Internazionale dovrebbe aggiungere queste uccisioni alle sue indagini sulle altre presunte violazioni delle convenzioni di Ginevra da parte di Israele nella Palestina occupata.
I giornalisti accettano i pericoli insiti nel raccontare i conflitti, sia che scelgano di andare in guerra come corrispondenti di organizzazioni giornalistiche straniere, sia che la guerra arrivi a loro e alle loro famiglie contro la loro volontà, come nel caso di Dahdouh.
Colleghi che conoscevo personalmente – alcuni amici, altri più conoscenti professionali – hanno perso la vita facendo il loro lavoro di giornalisti.
Da David Blundy, colpito da un cecchino in una strada di El Salvador nel 1989, a Marie Colvin, uccisa da un bombardamento in Siria nel 2012. Altri sono morti nelle townships sudafricane, nelle strade della Somalia, nei combattimenti durante la rivoluzione libica o sono stati uccisi dai ribelli in Sierra Leone.
Ogni giornalista calcola i rischi e se vale la pena correrli. È sicuro percorrere questa strada? La risposta potrebbe non essere quella che sembra immediatamente ovvia. In genere era più sicuro avvicinarsi a un posto di blocco della milizia durante il genocidio del Ruanda che a quelli presidiati dai ribelli in Liberia o in Sierra Leone.
Anche facendo un reportage da Gaza durante la Seconda Intifada di 20 anni fa, quando l’esercito israeliano invadeva, bombardava e radeva al suolo regolarmente i quartieri palestinesi, non ci si sentiva particolarmente in pericolo rispetto ad altre regioni. Non che l’esercito israeliano fosse solito uccidere persone che sapeva essere giornalisti.
Nel 2003, un soldato israeliano uccise a Gaza il cameraman britannico James Miller. Un’inchiesta nel Regno Unito lo ha giudicato come un omicidio illegale. Israele rifiutò di perseguire il soldato responsabile, ma pagò un risarcimento di 1,5 milioni di sterline, che secondo la famiglia di Miller era “probabilmente la cosa più vicina a un’ammissione di colpa che avrebbero ottenuto da parte degli israeliani“.
L’uccisione di Miller sembrava far parte di uno scenario con soldati israeliani indisciplinati che sparavano a chi volevano – non solo giornalisti, ma anche funzionari delle Nazioni Unite, operatori umanitari e bambini palestinesi. L’esercito era di solito rapido nel cercare di coprire le uccisioni, ma non sembra che esse fossero coordinate.
Gaza appare oggi molto diversa. Come affermano il CPJ e Reporter senza frontiere, la cui sede è a Parigi, l’entità e la natura delle morti dei giornalisti e delle loro famiglie suggeriscono che c’è qualcosa di più di qualche soldato indisciplinato che spara ai giornalisti, anche tenendo conto della morte di migliaia di altri palestinesi, tra cui più di 8.000 bambini [nel frattempo la cifra ha superato i 9.000, ndr].
Certamente il messaggio di alcuni leader israeliani è che i giornalisti sono un bersaglio facile. I politici israeliani si sono affrettati a chiedere l’«eliminazione» di alcuni giornalisti palestinesi che lavorano per organizzazioni giornalistiche straniere e che il 7 ottobre sono stati falsamente accusati da un gruppo di pressione pro-Israele degli Stati Uniti di essere “parte integrante di Hamas“.
Benny Gantz, membro del gabinetto di guerra israeliano, ha detto che si dovrebbe dar loro la caccia come fossero terroristi, riportando il sospetto ampiamente diffuso tra i funzionari israeliani che i giornalisti palestinesi siano un’appendice di Hamas.
La famiglia di Miller ha ottenuto un risarcimento perché era britannico. I giornalisti occidentali morti creano più impressione, e questo è presumibilmente uno dei motivi per cui Israele ha bloccato la stampa straniera fuori da Gaza durante l’attuale guerra.
Le organizzazioni giornalistiche internazionali fanno ora affidamento su quegli stessi reporter palestinesi presi di mira da Israele. Essi forniscono molte delle immagini dell’orrore di Gaza che il resto del mondo vede.
È quindi preoccupante che, mentre i giornali e le televisioni occidentali hanno riportato il crescente numero di morti di giornalisti a Gaza, molte organizzazioni giornalistiche sembrano non voler affrontare direttamente lo schema di uccisioni che, come sembrano dimostrare le prove del CPJ, fornisce una solida prova di un crimine di guerra. Sarebbe sicuramente diverso se a morire fossero reporter statunitensi o europei.
* Giornalista del Guardian US, in precedenza corrispondente del Guardian a Washington, Johannesburg e Gerusalemme
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