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Il caos in Ecuador anticipa gli stivali a stelle e strisce

Alti funzionari del governo Biden hanno recentemente comunicato che viaggeranno in Ecuador per fornire assistenza nella gestione della crisi che il Paese sta attraversando. Una situazione che ricorda ”sinistramente” l’aiuto dato alla Colombia per combattere il narcotraffico.

Per quanto l’Ecuador si trovi geograficamente da sempre in una delle rotte attraverso cui la cocaina viene esportata verso Nord America e Europa, l’impennata del caos nel Paese favorisce ben altri tipi di logiche e di interessi. 

Un paese che ha osato nei decenni precedenti smarcarsi dal controllo statunitense e avviare una propria via allo sviluppo e che, pur interrotta dal golpe giudiziario del 2018, ha mantenuto una straordinaria capacità di mobilitazione popolare nei confronti delle misure neoliberali più odiose.

Oggi vive ore drammatiche che non possono essere guardate se non nel quadro complessivo in cui gli USA tentano di riprendere il controllo del continente e spegnere le esperienze progressiste che hanno segnato gli ultimi decenni. 

Ecuador alle prese con la ricetta Bukele?

Il neo presidente Noboa è passato rapidamente dall’essere il rampollo della famiglia più ricca del Paese che aveva vinto le elezioni con pochi punti percentuali di scarto contro la sfidante progressista all’essere il Presidente della fermezza e del pugno duro contro i delinquenti.

Il suo comunicato alla nazione in giacca di pelle con cui annuncia il conflitto armato interno e dispiega l’esercito per le strade ha rilanciato la sua figura tra la popolazione, che negli ultimi due governi lamentava la completa inefficienza e assenza dello Stato mentre l’insicurezza generale cresceva incontrastata.

Lo Stato d’Emergenza di due mesi viene dichiarato pochi giorni dopo la proposta di referendum con cui il governo cerca di far approvare una serie di riforme legislative profondamente reazionarie.

Domande che spaziano dalla precarizzazione estrema del lavoro, alla possibilità di estradare detenuti negli Stati Uniti fino a una sorta di immunità per crimini commessi da polizia e esercito.

Si arriva anche a proporre l’ingresso del Paese negli arbitrati commerciali internazionali (tribunali che permettono alle multinazionali di citare in giudizio, e di solito vincere, gli Stati per supposti danni causati contro il loro operare), ben consapevole che queste determinerebbe un esborso per il Paese di 9 miliardi di dollari verso l’azienda petrolifera Texaco/Chevron. 

Lo strumento del referendum sembra essere l’opzione preferita dalla destra nel Paese negli ultimi anni, incapace di raggiungere una maggioranza solida nell’Assemblea che permetta l’approvazione rapida di leggi e di riforme strutturali, ne tenta l’approvazione per via referendaria. Una strategia di alterno successo seguita già dai precedenti governi di Lasso e di Moreno.

Gli altri tentativi di ristrutturazione economica dettati dal FMI generarono due impressionanti e vaste sollevazioni popolari, nel 2019 e nel 2022, che costrinsero il governo a mediare e in gran parte a rinunciare ai propri piani. 

La condizione di emergenza securitaria che sta creando il conflitto armato interno potrebbe però generare qualcosa di più rispetto ad un mero aumento di consensi che garantisca la propria rielezione nel 2025 (l’attuale governo è infatti solo di transizione) e ad aumentare le possibilità che il proprio referendum passi.

Sullo stile del Salvador di Bukele potrebbe dare un progetto politico in cui riconoscersi all’elettorato di destra su cui far confluire le paure e la tensione della popolazione che sta generando la crisi attuale. Progetto fino ad oggi limitato alla solita minestra neoliberale da dover nascondere sotto altre vesti giacché i suoi effetti sono ancora ben presenti nella memoria collettiva del Paese.

Al contrario di quello progressista che, nonostante veda alcuni leader in carcere e Correa in esilio come rifugiato politico, continua a mantenere una grossa fetta di voti mantenendo Revolucion Ciudadana primo partito del Paese e continuando a sfiorare la vittoria nelle elezioni presidenziali. 

Gli Stati Uniti tornano sul suolo ecuadoriano

Sullo sfondo delle dinamiche politiche del Paese si muovono però accordi importanti. In queste settimane infatti si attende l’approvazione definitiva dell’ultimo atto del governo Lasso in ottobre: un accordo militare tra Ecuador e Stati Uniti per permettere a questi ultimi di dispiegare il proprio esercito nel Paese in operazioni congiunte contro il narcotraffico.

Accordo che si aggiunge alla regalia di oltre 200 mila chilometri quadrati di acqua territoriali ad un fondo di investimenti con base negli Stati Uniti. 

Una dinamica identica a quella che fu il Plan Colombia e che vide, e continua a vedere, migliaia di militari statunitensi stanziarsi nel Paese guidare operazioni di combattimento e intelligence con la ragione ufficiale di combattere il narcotraffico.

Non è da scordare che vari tentativi di invasione e azioni terroristiche contro il Venezuela chavista negli ultimi anni siano partiti proprio dalla Colombia.

Il piano generò il periodo più sanguinoso e duro nella storia recente della Colombia: gli oltre dieci miliardi di dollari investiti dagli Usa per contrastare la guerriglia colombiana, oltre ad aumentare di fatto il potere dei cartelli della droga colpirono duramente la popolazione civile, portando il Paese alla seconda posizione mondiale per numero di rifugiati interni, poco sotto l’Afghanistan. Non proprio un antecedente auspicabile. 

Per quanto le dimensioni e la natura del conflitto sembrano attualmente non comparabili tra i due Paesi è evidente che gli Usa stiano approfittando della situazione per tornare a mettere i propri stivali direttamente nel Paese andino da cui mancano da più di un decennio.

Erano stati costretti a chiudere la propria base marittima nella città di Manta nel 2009 di fronte alla fermezza del presidente Correa che aveva commentato “se vogliono tenere un base qui, permettano all’Ecuador di aprirne una in Florida”. 

Nell’accordo attuale si prevede inoltre la formazione di personale di intelligence e militare direttamente negli USA, con il rischio concreto di ricreare la dinamica esistente fino al 2009 per cui forze di polizia e servizi segreti ricevevano parte del proprio salario e ordini direttamente dall’ambasciata statunitense in Ecuador. 

Di fronte quindi a quello che viene annunciato un confronto militare diretto con le bande criminali (per quanto alcune di esse abbiano comunicato pubblicamente di essere estranee a quello che sta succedendo in questi giorni), sembra che gli Usa stiano cercando di mettere al sicuro il Paese andino dal rischio di future fughe al di fuori della propria egida come successe durante l’esperienza progressista.

Il decennio di Correa rappresento infatti non soltanto uno slancio senza precedenti nel miglioramento delle condizioni di vita delle classi popolari con l’uscita dalla povertà di milioni di ecuadoriani, nella costruzione di infrastrutture essenziali, nella naziolizzazione delle risorse del Paese e nella modernizzazione ed ampliamento dello Stato ma anche una chiara postura a livello internazionale. 

Nella politica estera Correa ebbe il coraggio di opporsi frontalmente agli Stati Uniti chiudendo la base militare presente nel proprio territorio, citando a giudizio multinazionali nordamericane responsabili di decennali crimini ambientali e sociali nel Paese, appoggiando senza riserve i progetti di integrazione regionale come l’ALBA e ospitando a Quito la sede ufficiale dell’Unasur.

Da ricordare che l’Ecuador fu il Paese che ebbe il coraggio di offrire la propria ambasciata come rifugio a Juliane Assange, per sfuggire alla persecuzione statunitense.

Avviò inoltre un’ampia collaborazione con la Cina nella costruzione di grandi infrastrutture per garantire l’indipendenza energetica del Paese in cambio del petrolio nazionalizzato e una serie di iniziative diplomatiche nelle Nazioni Unite per garantire l’accesso al cibo come diritti inalienabile umano. 

Catastrofe sociale catalizzatrice di quella securitaria

Vedere la catastrofe prodotta dal ritorno dell’oligarchia del Paese al potere politico fa pensare che non sia solo incapacità e malagestione. In meno di otto anni la condizione sociale della popolazione è precipitata verticalmente con l’11% percento della popolazione in condizione di povertà estrema e il 28% in povertà relativa.

Il 15% della popolazione soffre di denutrizione cronica colpendo soprattutto i bambini con oltre il 20% dei neonati in questa condizione. Una crisi sociale che genera un humus fin troppo evidente per il radicamento di gruppi criminali che offrono soluzioni tangibili alle problematiche economiche. 

Alla crisi sociale si aggiunge un’austerity autoimposta dall’ultimo governo Lasso che dopo aver già ridotto i fondi messi a bilancio per gli anni del suo governo è riuscito addirittura a non spenderli lasciando interi settori dello Stato senza soldi, con difficoltà per il pagamento dei dipendenti pubblici e profondi disagi nella gestione pubblica.

Un esempio tangibile è l’insufficienza energetica del Paese che ha riscoperto dopo decenni il razionamento dell’energia elettrica. I black out sono ormai sistematici e programmati per lunghe ore del giorno causando forti danni all’economia e alla vita delle persone.

Tutto questo in un Paese esportatore di petrolio e dotato di centrali idroelettriche.

Ma il caso più paradigmatico è quello del Ministero dell’Interno che ha speso solo il 50% del proprio bilancio, proprio mentre il Paese viveva l’ondata di violenza più forte della sua storia arrivando alla cifra record di 7.592 morti per omicidio nel 2023, diventando uno dei paesi con tasso di omicidi più alto al mondo.

Le prospettive, almeno nel breve periodo, non sembrano essere rosee per il Paese, soprattutto con l’annunciato arrivo dell’aiuto statunitense. L’Ecuador però, così come tutto il Latino America, ha già saputo mettere in campo forze straordinarie per rimettere in moto le proprie sorti e beffare chi tenta da sempre di mettere un punto di fine alla storia dei popoli del continente. 

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