Mentre va avanti il tentativo di genocidio perpetrato dallo stato sionista nella Striscia di Gaza e il conflitto rischia di estendersi, si registrano importanti evoluzioni sul fronte diplomatico.
Si è svolto il 20 aprile un incontro fra Hamas, rappresentato dal capo dell’ufficio politico Ismail Hanyieh e dall’ex capo dell’ufficio politico Kaled Meshaal, e il Presidente della Turchia Erdogan, avente come temi gli sviluppi diplomatici del conflitto e la situazione umanitaria a Gaza.
A margine, Erdogan ha esortato i Palestinesi a rimanere uniti: ”È fondamentale che i palestinesi agiscano uniti in questo processo; la risposta più forte a Israele e il percorso verso la vittoria passano attraverso l’unità e l’integrità”.
Ha, inoltre assicurato che “La Turchia continuerà il suo aiuto umanitario alla Palestina per alleviare il più possibile le sofferenze” e ricordato che il paese “ha adottato una serie di sanzioni contro Israele, comprese restrizioni commerciali”.
Questi ultimi provvedimenti comprendono l’embargo di molti materiali, fra cui acciaio, cemento e alluminio e sono arrivati a seguito di una fortissima pressione dell’opinione pubblica turca, all’interno della quale molte voci accusano il governo di esprimere solidarietà soltanto a parole nei confronti di Gaza, nel mentre i rapporti commerciali con lo stato sionista aumentavano.
Ciò è stato pagato anche elettoralmente dall’AKP nella recente tornata amministrativa e ha messo in crisi la compattezza della coalizione di governo.
Tornando ai rapporti con Hamas, l’incontro ad Istanbul è arrivato dopo un altro avvenuto pochi giorni prima a Doha fra gli stessi vertici del movimento politico palestinese ed il ministro degli esteri Hakan Fidan, il quale aveva poi rilasciato dichiarazioni fortissime: “Nei nostri colloqui politici durati anni, Hamas ha accettato la creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967. Mi hanno detto che, dopo la fondazione dello Stato palestinese, non avrebbero più bisogno di un braccio armato e continuerà ad essere un partito politico”.
Questi passaggi potrebbero segnare la rinuncia del Qatar ha continuare a svolgere il ruolo di mediatore nel conflitto. Doha, infatti, sta subendo pesantissime pressioni internazionali da parte degli USA e altri paesi a disfarsi della dirigenza di Hamas.
È stato lo stesso Primo Ministro Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani ad affermare in conferenza stampa che: “Il Qatar è in procinto di una completa rivalutazione del suo ruolo” in merito al conflitto di Gaza.
L’Emiro del Golfo, legato alla Fratellanza Musulmana, ospita la dirigenza di Hamas dal 2012, a seguito del clamoroso voltafaccia, da parte di quest’ultima, nei confronti dell’”Asse di Resistenza” e della Siria, che la ospitava in precedenza e che sembrava alla vigilia di cambio di regime.
Tale mossa avvenne nell’ambito del riassetto generale allora in corso per via delle cosiddette “primavere arabe”, che sembravano, in quel momento, premiare la Fratellanza Musulmana, in Egitto come in Siria.
A questo punto, la prossima sede dei dirigenti di Hamas potrebbe essere, secondo il Wall Street Journal, l’Oman, petromonarchia tradizionalmente più neutrale nei rapporti internazionali, con la Turchia ad assumere il ruolo di principale “sponsor” internazionale della causa palestinese, assieme all’Iran, ovviamente attestato su posizioni più radicali e sul non riconoscimento dello stato sionista, quindi non elegibile come mediatore.
All’interno del mondo arabo, dunque, nonostante il massacro in atto, nessuno dei governi, ad eccezione di quello siriano (e altri soggetti come Hezbollah e la coalizione yemenita a guida Houthi, che però, non sono governi internazionalmente riconosciuti), sembra voler abbandonare definitivamente la strada dei rapporti diretti o indiretti con l’occupante.
E la tela diplomatica degli ‘accordi di Abramo’, dal loro punto di vista, sembra accantonata soltanto temporaneamente. Ciò a dispetto anche dell’opinione dei loro popoli.
Sul fronte dell’Autorità Nazionale Palestinese, invece, si continuano a ricevere porte in faccia dagli USA, nonostante il Presidente Abu Mazen stia tentando in tutti i modi di assecondare “l’alleato” americano.
Nei mesi scorsi, infatti, ha deciso di non dar corso alla dichiarazione di intenti unitaria emersa da un incontro di tutte le fazioni palestinesi tenutosi a Mosca, tesa – fra l’altro – e riorganizzare e ridare centralità all’OLP, preferendo dar vita ad un nuovo governo palestinese formato per lo più da tecnocrati graditi a Washington.
La speranza dell’Amministrazione USA era che tale governo fosse accettato dall’occupante per prendere le redini anche della Striscia di Gaza a massacro avvenuto. All’epoca, infatti, Netanyahu e i suoi accoliti giuravano che avrebbero mantenuto il controllo sulla Striscia e che non si fidavano di nessun interlocutore palestinese. Salvo, poi, ritirarsi da alcune aree, come sta avvenuto nei giorni scorsi.
Il 20 aprile, gli USA hanno posto il veto su una risoluzione ONU che aperto la strada alla piena ammissione della Palestina, ovvero dell’Autorità Nazionale Palestinese, alle Nazioni Unite. Tale votazione è stata un palese insuccesso diplomatico per Washington, poiché anche Francia e Giappone hanno votato a favore e il Regno Unito si è astenuto, ma Abu Mazen ha dovuto un ennesimo duro colpo.
“Mentre il mondo è d’accordo sull’applicazione del diritto internazionale e sostiene i diritti palestinesi, l’America continua a sostenere l’occupazione, rifiutandosi di costringere Israele a fermare la sua guerra genocida”, ha dichiarato all’agenzia ufficiale Wafa,
“Fornisce a Israele armi e fondi che uccidono i nostri figli e distruggono le nostre case, e si oppone a noi nei consessi internazionali, assumendo posizioni non utili alla sicurezza e alla stabilità nella regione”. Egli ha inoltre lamentato che gli USA hanno rinnegato le loro promesse rispetto allo sblocco dei fondi indirizzati all’ANP.
Sostanzialmente, l’Amministrazione Biden, mentre a parole dichiara di voler rinvigorire e ridare centralità all’ANP, all’atto pratico la affonda ulteriormente; intanto Hamas diventa l’interlocutore privilegiato di altri soggetti regionali e mondiali. E persino di un paese della Nato come la Turchia.
In definitiva, si apre una fase delicata, dal punto di vista dei negoziati internazionali, per tutto il popolo palestinese, al quale, comunque, ancora una volta non resta che la Resistenza, accompagnata da una vasta solidarietà popolare in tutto il mondo, per respingere i tentativi genocidi degli occupanti.
I presunti partner occidentali e anche la gran parte di quelli arabi, specie a livello di governi, infatti, si dimostrano a dir poco inaffidabili, anche nelle circostanze estreme di questi mesi.
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