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La Turchia decreta il blocco commerciale con Israele, l’Arabia Saudita prova il riavvicinamento

La Turchia interrompe gli interscambi commerciali con Israele. È quanto dichiarato dal Ministro del Commercio turco Omer Bolat: “La Turchia ha sospeso tutte le esportazioni e importazioni con Israele fino a quando non sarà stabilito un cessate il fuoco permanente e gli aiuti a Gaza saranno consentiti senza alcuna interruzione”.

La conferma è arrivata dal ministro degli esteri israeliano Katz, il quale ha scritto su X che Erdogan si comporta “come un dittatore” e “trascura gli interessi del popolo e degli uomini d’affari turchi e ignora gli accordi commerciali internazionali”. Ha, inoltre, allertato i funzionari del ministero affinché trovino alternative al commercio con la Turchia, concentrandosi sulla produzione locale e sulle importazioni da altri paesi.

Questa decisione fa seguito a quella a poco di più di un mese, quando Ankara decise le prime sanzioni, imponendo lo stop all’export di 54 prodotti, fra cui ferro, acciaio, carburante per aerei, pesticidi e materiale edilizio; inoltre, qualche giorno fa, il Ministro degli Esteri Hakan Fidan aveva annunciato l’intenzione del paese di aderire alla causa intentata dal Sudafrica presso la Corte Penale Internazionale per genocidio.

Si tratta di una circostanza di per sé storica, poiché la Turchia fu il primo paese islamico a riconoscere lo stato d’Israele nel 1949; benché i rapporti fra i due paesi non fossero già troppo floridi come in precedenza da quando gl’islamisti sono saliti al potere ad Ankara.

Nel 2010 si verificò la prima rottura delle relazioni diplomatiche, allorché 10 attivisti turchi filopalestinesi vennero uccisi dai commandos israeliani mentre, imbarcatisi su una nave battente bandiera turca, cercavano di rompere il blocco marittimo israeliano della Striscia di Gaza. Nel 2018 si verificò una seconda rottura nel momento in cui venne duramente repressa la “marcia del ritorno” palestinese.

Tuttavia, mai si era giunti a toccare i circa 6 miliardi di dollari di interscambi commerciali fra le parti.

Va sottolineato che tale risultato è conseguenza della pressione dell’opinione pubblica turca sul proprio governo. In una prima fase del conflitto, infatti, seppure il Presidente Erdogan avesse dichiarato immediatamente il proprio appoggio ad Hamas in quanto movimento di liberazione nazionale e si producesse in dichiarazioni quotidiane contro Netanyahu – paragonandolo di volta in volta a Hitler, a Mussolini, a Stalin, definendolo “macellaio di Gaza” o augurandogli la morte – nei fatti non aveva messo in piedi alcun provvedimento concreto.

Anzi, a ben guardare, quello di concentrarsi su Netanyahu era un artificio retorico utilizzato ad hoc per non far seguire alcun fatto alle parole ed evitare iniziative di sanzionamento.

Questo meccanismo è caduto da quando l’AKP, il principale partito di governo, ha perso diverse elezioni municipali a beneficio di alleati di governo islamisti più radicali, che si sono presentati da soli basando tale decisione proprio sul fatto che l’esecutivo non mettesse in atto nulla di concreto per interrompere il genocidio di Gaza, ma parlasse soltanto.

Tale esito è stato l’epifenomeno elettorale delle oceaniche manifestazioni pro-palestinesi che hanno attraversato il paese e che, in ultima analisi, hanno convinto Ankara a cambiare marcia, fino ad invitare lo stato maggiore di Hamas ad Istambul e a decretare la rottura dei rapporti commerciali con l’occupante sionista.

Non è il caso di farsi grosse illusioni rispetto alla coerenza sul medio-lungo termine da parte del governo turco rispetto a questa decisione. Tuttavia, è da sottolineare come finalmente l’opinione pubblica riesca ad avere un peso nelle decisioni di un paese islamico, per lo più appartenente alla NATO.

Per inciso, chi non si fa influenzare dalle manifestazioni pro-palestinesi dei turchi, e continua a presentarsi come bastione filo-Occidentale, è l’opposizione repubblicana. Il candidato in pectore alle prossime presidenziali, il neo rieletto sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, infatti, commentando alla CNN i rapporti fra il governo e Hamas, ci ha tenuto a rimarcare che considera il movimento palestinese un’organizzazione terroristica.

Successivamente, ha proseguito criticando anche il massacro israeliano, ma il distinguo è stato effettuato chiaramente. Tale postura filo-Occidentale è probabilmente costata ai repubblicani la sconfitta alle scorse elezioni presidenziali, nonostante si presentassero anche forti dell’appoggio inconsueto (e strumentale) delle componenti politiche filocurde ed espressione delle minoranze. Tuttavia, il “richiamo della foresta” occidentale pare irresistibile.

A fronte di una Turchia che, in qualche modo, si muove, chi resta ancorato a posizioni filoamericane e, nei fatti, anche filoisraeliane, sono le varie monarchie arabe e tutti i paesi interessati negli anni scorsi ai cosiddetti accordi di Abramo.

Dopo fiumi di parole in solidarietà dei Palestinesi, non seguiti da alcun provvedimento concreto, tali paesi sono usciti allo scoperto nel loro posizionamento in occasione della risposta militare iraniana allo stato sionista del 13 aprile 2024. In tale occasione, infatti, la Giordania contribuì esplicitamente con propri mezzi all’abbattimento di molti droni, mentre le petromonarchie del Golfo, pur rimanendo apparentemente ambigue, se non hanno collaborato esplicitamente, al massimo hanno avuto un atteggiamento neutrale.

Il che equivale a non voler archiviare i progetti di avvicinamento diplomatico e commerciale nei confronti di Israele (per chi non li ha già posti in atto), nonostante il tentativo di genocidio in atto a Gaza.

Il Qatar ha rinunciato ad espellere lo stato maggiore di Hamas per poter continuare a premere su quest’ultimo affinché scelga di capitolare alle proposte di tregua che giungono dagli USA e che non prevedono la rinuncia definitiva, da parte sionista, ad invadere Rafah.

Per quanto riguarda l’Arabia Saudita, invece, se la crisi ucraina, con annesse politiche di sanzioni unilaterali da parte dell’Occidente, la aveva spinta a chiedere l’adesione ai BRICS plus e a riaprire i canali diplomatici con l’Iran grazie alla mediazione cinese, il massacro di Gaza, paradossalmente, invece di spingerla a proseguire su quella strada, sembra la stia spingendo nella direzione di riprendere il filo degli accordi militari e tecnologici con gli USA.

Siamo molto vicini a raggiungere un accordo”, ha detto giovedì il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller, prevedendo che i dettagli potrebbero essere svelati “in brevissimo tempo”.

Secondo la Reuters, che cita diplomatici stranieri nel Golfo, è probabile che tale accordo preveda garanzie formali da parte degli Stati Uniti nella difesa del regno (come se fosse un paese NATO), nonché l’accesso saudita ad armi americane più avanzate finora precluse e l’accesso a programmi di intelligenza artificiale, in cambio della sospensione, da parte saudita, dell’acquisto di armi cinesi e della limitazione degli investimenti di Pechino nel paese.

Gli USA, ovviamente, chiedono anche il riconoscimento formale dello stato d’Israele da parte di casa Saud. Per quello, tuttavia, bisogna attendere un cessate il fuoco a Gaza e, almeno formalmente, che si tracci “un percorso da tre a cinque anni per creare uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza”.

È quanto riporta il New York Times, secondo cui gli Stati Uniti e i sauditi stanno valutando la possibilità di concludere ufficialmente l’accordo e di portarlo al Congresso con la clausola apertamente dichiarata che l’Arabia Saudita normalizzerà le relazioni con Israele nel momento in cui Israele avrà un governo pronto a soddisfare i termini sauditi-americani.

È chiaro che le condizioni politiche all’interno dello stato sionista sono attualmente ben lontane dal riuscire a soddisfare quest’ultima parte dell’accordo. Tuttavia, il solo fatto che il paese capofila del mondo arabo-sunnita non faccia mistero che la normalizzazione con lo stato sionista rimanga un obiettivo prioritario, mette in evidenza come all’interno delle elites arabe, che spesso detengono le leve del comando politico ed economico sulla base di privilegi ereditari di tipo feudale, il tentativo di massacro in corso a Gaza sia visto come un semplice intoppo momentaneo.

E, di conseguenza, la Resistenza Palestinese costituisca un vero e proprio un ostacolo.

D’altro canto, gli sforzi diplomatici della Cina, che si basano sull’assicurazione di un reciproco vantaggio economico fra le parti, senza entrare nel merito delle questioni politiche, si rivelano ancora insufficienti nel momento in cui ci si sposta dal piano prettamente economico e si hanno ricadute sul piano politico/militare e strategico.

In definitiva, se chiamati a scegliere, i paesi arabi, sul piano militare e tecnologico continuano a preferire gli USA alla Cina; di converso, sul piano politico, se si tratta di scegliere fra il sostegno fattuale alla causa palestinese o a Israele, fanno pendere la bilancia indubitabilmente verso lo stato sionista, con cui continuano ad avere rapporti commerciali e diplomatici. Palesi o informali. Solo la piega estremista presa da Israele impedisce, al momento, ulteriori passi definitivi.

Ovviamente fanno eccezione la Siria, che però nemmeno controlla tutto il territorio del proprio stato, e altre entità che non costituiscono stati internazionalmente riconosciuti, pur controllando porzioni di territorio, come Hezbollah e la coalizione yemenita a guida Houthi.

Buona parte degli equilibri futuri si determineranno nel momento in cui bisognerà ridefinire la governance palestinese a Gaza ed in Cisgiordania dopo il massacro. Gli USA tenteranno in tutti i modi di farne terreno di convergenza fra l’occupante ed i paesi arabi reazionari, magari rendendoli tutti partecipi, assieme agli apparati dell’Autorità Nazionale Palestinese che accetteranno di essere conniventi.

Anche in questo caso, l’ostacolo è costituito non dagli Arabi, bensì dall’egemonia estremista in campo sionista.

Dal canto suo, ovviamente la Cina deve lavorare per far fallire la definizione di questi equilibri a trazione americana, anche per evitare di ritrovarsi un numero crescente di paesi mediorientali che partecipano all’embargo tecnologico. Per raggiungere tale scopo, sarà probabilmente spinta ad aumentare il proprio attivismo diplomatico.

In questa direzione va l’incontro tenuto nei giorni scorsi a Pechino fra Hamas e Fatah, per provare a spingere verso l’unità intra-palestinese, impresa da sempre ostacolata dalla longa manus americana all’interno dell’Autorità Nazionale Palestinese.

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1 Commento


  • Vannini Andrea

    Comunque la si pensi, per gli antimperialisti e assai meglio una Turchia governata da Erdogan che da una opposizione filoimperialista non casualmente sostenuta dalla attuale dirigenza curda asservita a fascismo sionista e imperialismo usa.

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